La morte in battaglia dell’Apostolo |
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20.05.10 - www.granma.cu frammento dall’opera: La Habana, la ciudad de José Martí, de Carlos Manuel Marchante Castellanos, professore dell’Università de L’Avana
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È domenica 19 maggio del 1895. Gómez si dirige verso l’accampamento di Vuelta Grande, dove sa che lo aspettano il suo subordinato ed apprezzato amico, il generale Bartolomé Masó, assieme al Delegato del Partito Rivoluzionario Cubano, José Martí Pérez, recentemente nominato Maggiore Generale dell’Esercito di Liberazione.
A mezzogiorno l’accampamento è pieno di allegria e d’ottimismo, dopo l’ascolto delle emozionanti parole dei tre amati capi, pronunciate di fronte alla truppe.
Poco dopo una colonna, guidata dal colonnello spagnolo José Ximénez de Sandoval, composta da 600 militari, riesce ad intercettare il contadino Carlos Chacón, proveniente dal territorio mambí, che era stato inviato in cerca di alimenti per gli uomini dell’Esercito di Liberazione.
Il soldato si impaurisce, tradisce i rivoluzionari cubani ed informa il capo spagnolo della presenza di Gómez, Martí e Masó. La colonna continua la sua avanzata verso Las Bijas, tra i pascoli di Boca de Dos Ríos, dove i ribelli si sono fermati per riposare, spiegando strategicamente gli uomini per difendersi di fronte ad un eventuale attacco dei mambì.
Nell’accampamento, una pattuglia avvisa della presenza nelle vicinanze d’una forte truppa nemica. Agli ordini di Gómez, Masó, che comanda 300 cavalieri segue le truppe del generale. Martí marcia insieme ai due esperti guerrieri.
Avvicinandosi al luogo, Gómez ordina energicamente a Martí di restare indietro, per salvaguardarlo dal fuoco nemico.
L’avanguardia spagnola è sorpresa dal primo attacco di Gómez ed appare abbattuta, situazione che allarma il resto della colonna, che risponde con forza al nuovo attacco dei mambì, obbligando Gómez a far suonare la ritirata.
Martí, già separato dal grosso delle truppe, ordina al giovane Ángel de la Guardia di marciare come guida e realizzano un movimento che li avvicina ad una sezione della colonna spagnola che, nascosta tra i cespugli, aspetta le truppe dei ribelli. Rendendosi conto della presenza di due soli combattenti, aprono il fuoco.
Il cavallo dell’inesperto tenente viene ferito e lui va a terra, mentre José Martí cade mortalmente ferito.
Il nemico si rende conto rapidamente d’aver provocato un’importante colpo alle truppe ribelli, giudicando i vestiti che indossa il caduto: giacca nera e pantaloni chiari, cappello nero di feltro tipo castoro, stivaletti neri e, al collo, il cordone del revolver con il calcio di madreperla, i suoi documenti e la quantità di denaro che portava con sè.
Si appropriano del cadavere e nonostante lo sforzo delle forze delle truppe di Gómez, ne rendono impossibile il riscatto.
Identificato, il cadavere è sistemato su un cavallo e condotto a Remanganaguas.
Ximénez de Sandoval informa il suo capo immediato a Santiago di Cuba del risultato delle azioni e con disprezzo per il cadavere dell’Eroe morto, lo fa seppellire senza la cassa e seminudo, in una fossa scavata nel terreno.
Con parte del denaro sottratto dalle sue tasche, la soldatesca compra sigari e grappa, per celebrare quanto avvenuto.
Di fronte a quella terribile perdita, Gómez invia il suo aiutante, il portabandiera Ramón Garriga a parlare con il capo nemico, di cui non conosce il nome e il grado militare ed al quale invia una lettera personale perché risponda se Martí è prigioniero, ferito o morto ed il luogo dove si trovano i suoi resti. Il valoroso messaggero viene detenuto, ma riesce a sfuggire ad una morte sicura. Quelle domande non hanno mai avuto una risposta.
Il Comandante Generale del primo distretto orientale informa il Capitano Generale dell’Isola: "... è stato ucciso il nominato presidente della Repubblica Cubana, don José Martí, il cui cadavere è stato raccolto e identificato, nonostante l’impegno che il nemico mostrava per riscattarlo”.
Il comandante spagnolo non volle correre rischi nel confermare una notizia falsa e immediatamente mandò il medico militare Pablo A. de Valencia che si diresse a Remanganaguas per esumare il cadavere, identificarlo e prepararlo per il suo trasferimento a Santiago di Cuba.
Il 23 maggio si realizzò l’esumazione ed i resti furono collocati in una povera cassa da morto.
“È stato colpito da tre pallottole: una è penetrata nel collo con foro d’entrata sotto la barba, nel mascellare inferiore a destra, con uscita dal mascellare superiore a sinistra, dove il labbro è stato lacerato; lo sparo mortale è penetrato nel petto, nello sterno che è fratturato, ed una terza pallottola è entrata nel terzo inferiore della coscia destra, verso la parte inferiore”, dice l’autopsia realizzata dal Dr. Pablo Valencia.
Le truppe dei mambì, conoscendo i piani degli spagnoli, prepararono differenti imboscate nel cammino per tentare nuovamente di recuperare il cadavere del Delegato, ma senza risultato.
La sua morte in combattimento, di fronte al colonialismo spagnolo, con il sole in faccia, rappresentò una perdita irreparabile per lo sviluppo della guerra, ma la sua dottrina divenne per sempre una fonte infinita del pensiero rivoluzionario dei cubani e dei latinoamericani. |
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“Ho vissuto nel mostro e ne conosco le viscere” Lettera inconclusa di Martí al suo amico Manuel Mercado, scritta un giorno prima della sua morte in combattimento |
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18 maggio 2010 - M.Rojas www.granma.cu
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Accampamento di Dos Ríos, 18 maggio del 1895.
Signor Manuel Mercado, fratello mio carissimo, già posso scrivere, già posso dirle con quanta tenerezza e gratitudine e rispetto le voglio bene come a questa casa che è mia e mio orgoglio e obbligazione; già ogni giorno corro il pericolo di dare la vita per il mio paese e per il mio dovere – dato che lo intendo ed ho l’animo per realizzarlo - per impedire a tempo, con l’indipendenza di Cuba, che gli Stati Uniti si estendano per le Antille e ricadano con più forza sulle nostre terre d’America.
Quanto ho fatto sino ad oggi e farò, è per questo. S’è dovuto fare in silenzio e come in forma indiretta, perchè ci sono cose che per realizzarle devono restare occulte e se si proclamano per quello che sono, apportano difficoltà troppo forti per raggiungere un fine su di loro. Gli stessi obblighi minori e pubblici - i popoli come questo suo e mio più vivamente interessati ad impedire che in Cuba si apra all’annessione degli imperialisti di là e degli spagnoli, il cammino che si deve serrare e che con il nostro sangue stiamo serrando, dell’annessione dei popoli di Nuestra America al nord turbolento e brutale, che li disprezza - avrebbero impedito l’adesione ostentata e l’aiuto patente a questo sacrificio che si fa un bene immediato per loro.
Ho vissuto nel mostro e ne conosco le viscere, e la mia è la fionda di Davide. Attualmente, dato che è stato pochi giorni fa, ai piedi della vittoria con cui i cubani salutarono la nostra libera partenza dalle montagne in cui andammo sei uomini della spedizione, per quattordici giorni, il corrispondente del Herald che mi tolse dall’amaca nella fattoria mi parla dell’attività annesionista meno temibile per la poca realtà degli aspiranti, della specie senza cintura nè creazione che, come travestimento comodo della loro compiacenza o sottomissione alla Spagna, chiede senza fede l’autonomia di Cuba, contenta solo che ci sia un padrone che li mantenga o li crei, con premi di mestieri di celestini e la posizione di uomini sdegnosi della massa veemente, la massa meticcia, abile e commovente del paese, la massa intelligente e creatrice di bianchi e negri.
E d’altro mi parla il corrispondente del Herald, Eugenio Bryson: di un sindacato yankee - che non ci sarà - con garanzie doganali, molto impegnato con le rapaci banche spagnole, perchè quelli del nord possano arraffare, senza capacità fortunatamente, per la loro elaborata e complessa costituzione politica, per intraprendere o appoggiare l’idea come opera di governo.
E ancora Bryson mi ha detto – anche se la certezza della conversazione che mi riferiva la può comprendere solo chi conosce da vicino il brio con cui abbiamo innalzato la Rivoluzione – del disordine, l’inganno e la cattiva paga dell’esercito novizio spagnolo – e dell’incapacità della Spagna per allegare in Cuba e al di fuori le ritorse contro la guerra che, nella volta precedente, aveva preso solo da Cuba. Bryson mi ha raccontato la sua conversazione con Martínez Campos, alla fine della quale gli fece intendere che senza dubbi, giunta l’ora, la Spagna avrebbe preferito intendersi con gli Stati Uniti e rendere l’Isola ai cubani.
E ancora Bryson mi ha detto di un un nostro conoscente e del fatto che nel nord lo curano come un candidato degli Stati Uniti per quando l’attuale presidente sparirà, per la presidenza del Messico.
Io qui faccio il mio dovere. La guerra di Cuba, realtà superiore ai vaghi e dispersi desideri dei cubani e degli spagnoli annessionisti, ai quali darebbe solo un relativo potere l’alleanza con il governo della Spagna, è giunta alla sua ora in America, per evitare, anche con l’impiego franco di tutte queste forze, l’annessione di Cuba agli Stati Uniti, che non l’acceterebbero mai da un paese in guerra, nè possono contrarre dato che la guerra non accetterà l’annessione, e l’odioso impegno assurdo d’abbattere per conto suo e con le sue armi una guerra d’indipendenza americana.
Il Messico non troverà modo, sagace efficace e immediato, di aiutare a tempo chi lo difende? Sì lo farà, o io lo farò. Questa è morte o vita, e non ci sono errori. Il modo discreto è il solo che si può vedere. Io lo avrei già trovato e proposto ma devo avere più autorità in me stesso o sapere chi ne ha, prima di operare o consigliere Sono appena arrivato.
Può anche tardare due mesi per essere reale e stabile la costituzione dei nostri governi, utile e semplice. La nostra anima è una, come la volontà del paese, ma queste cose sono sempre opera di relazioni, momenti e aggiustamenti, con la rappresentazione che ho non voglio fare nulla che sembri un’estensione capricciosa di questa. Sono giunto con il General Máximo Gómez ed altri quattro in una barca, dove avevo il remo di prua, sotto un temporale, sino ad una pietraia sconosciuta delle nostre spiagge.
Ho caricato per quattordici giorno, su rovi e salite, il mio fucile ed il mio morale – alzavamo la gente al nostro passaggio – e sento la benevolenza delle anime alla base di questo mio affetto per la pena dell’uomo e la giustizia di rimediarla; i campi sono nostri senza disputa, a tal punto che in un mese ho potuto udire solo uno sparo e alle porte delle città o otteniamo una vittoria o passiamo una rivista, di fronte all’entusiasmo, simile ad un fuoco religioso, di tremila armi. Continuiamo camminando verso il centro dell’Isola, a deporre, io, di fronte alla Rivoluzione che ho fatto alzare, l’autorità che l’emigrazione mi ha dato, obbedita, che deve rinnovare rispetto al suo nuovo stato un’assemblea di delegati del popolo cubano visibile, dei rivoluzionari in armi.
La Rivoluzione desidera piena libertà nell’esercito, senza le trappole che prima ha opposto una camera senza sanzioni reali, con i sospetti di una gioventù gelosa del suo repubblicanesimo e le gelosie ed i timori di un’esagerata prominenza futura di un caudillo pungente o previdente; ma la Rivoluzione vuole anche una succinta e rispettabile rappresentazione repubblicana – la stessa anima d’umanità e decoro, piena del desiderio di dignità individuale, rappresentazione della Repubblica, che spinge e mantiene la guerra dei rivoluzionari.
Per me capisco che non si può guidare un popolo contro l’animo che lo muove o senza questo, e so come si accendono i cuori e come si approfittano il tumulto incessante e l’attacco dello stato infuocato e soddisfatto dei cuori ma per le forme entrano molte idee e le cose degli uomini, sono gli uomini che le fanno. Mi conosce: io difenderò solo quello che ho, per garanzia e servizio della Rivoluzione.
So scomparire. Ma non scomparirebbe il mio pensiero, nè mi affliggerebbe la mia oscurità, e quando avremo la forma, opereremo, tocchi a me o ad altri.
E adesso, posto di fronte al pubblico interesse le parlerò di me, dato che solo l’emozione di questo dovere può far alzare dalla morte desiderata l’uomo che - adesso che Nájera non vive dove si vede – e che meglio la conosce e accarezza come un tesoro nel suo cuore l’amicizia che cui lei lo riempie di orgoglio. Conosco i suoi rimproveri taciuti dopo il mio viaggio e tanto gli abbiamo dato con tutta l’anima e lui zitto! Che inganno è questo e che anima callosa la sua, che il tributo e l’onore del nostro affetto non le hanno fatto scrivere una nuova lettera sulla carta e sul giornale che scrive ogni giorno. Ci sono affetti di tanta delicata onestà...
Il giorno dopo, 19 maggio del 1895, Martí muore in combattimento a Dos Ríos.
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