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IL TRADUTTORE SI SCUSA PER GLI ERRORI 

 
 
Cuba, socialismo del

terzo millennio

 

 

12.11.2010 - F.Casari www.altrenotizie.org

 

Il VI Congresso del Partito Comunista di Cuba, convocato per il prossimo Aprile, non sarà un congresso di routine. Segnerà, in qualche modo, una decisa svolta nella storia della Rivoluzione cubana, che ha scelto di non rimanere ferma davanti all’inevitabile riassetto socio-economico per salvaguardare la continuità del processo politico. E, come sempre, diversamente da quanto afferma la vulgata generale circa una scarsa democrazia in voga sull’isola, l’appuntamento congressuale avrà tutte le caratteristiche di una discussione che pervaderà in lungo e largo il Paese.

 

Certo non sarà una discussione tra le elites. Prima seminari nazionali con dirigenti e specialisti dei temi economici, quindi seminari in tutti i municipi dell’isola per preparare i quadri che parteciperanno alle riunioni con le comunità popolari.

 

In seguito, dal 1 dicembre al 28 febbraio, la discussione attraverserà tutta la popolazione per poi raccogliere, entro l’11 marzo, proposte, emendamenti e opinioni sulla base delle quali si procederà alla stipula del documento congressuale.

 

La discussione congressuale entrerà nel merito dei provvedimenti in qualche modo già annunciati. L’attualizzazione del modello economico e le sue inevitabili ripercussioni su quello sociale, saranno affrontate con una discussione le cui linee saranno indicate dal documento programmatico che tra qualche giorno circolerà nel Paese. Nell’annunciare il Congresso, il Presidente Raul Castro ha indicato nella “ battaglia economica” il centro nevralgico della discussione, “perché da essa dipendono sostenibilità e preservazione del nostro sistema sociale”.

 

I media internazionali stampati su carta dell’impero, specializzati nel non voler riconoscere l’isola e le sue ragioni, hanno scritto a profusione su improbabili mutazioni genetiche del socialismo cubano. Cuba, infatti, accusata fino a ieri di essere inguaribilmente socialista, da qualche giorno è accusata di non esserlo più abbastanza. Le annunciate, profonde modificazioni dell’organizzazione del lavoro sull’isola, hanno avuto, come effetto secondario, quello di spiazzare i celebrati “esperti” che, dai bar di Little Habana a Miami, scrivono di Cuba.

 

Almeno nelle critiche c’è un tratto di coerenza: rimproverata per non aver mai aderito alla moda imperante del modello unico, l’isola subisce ora le reprimende per voler continuare a perseguire un unico modello. I suoi detrattori - almeno quelli non ingaggiati armi e bagagli con la mafia di Miami - l’accusavano fino a ieri come minimo di insostenibilità del modello, prodotto inevitabile dell’inapplicabilità del sistema. In sostanza, le colonne dei giornali che fino a ieri spiegavano l’inutilità di un’economia sussidiata dall’estero e sussidiante verso l’interno, oggi grondano di nostalgia per i sussidi.

 

Tra le tante obiezioni dei critici a tempo indeterminato, una delle più frequenti si riferiva all’insopportabilità sistemica della piena occupazione e del livellamento salariale, considerati due tra gli elementi da imputare all’utopia. Seppure simbolici di una concezione egualitaria e socialista della società, proprio in ragione della loro insostenibilità essi sarebbero luogo privilegiato della crisi della struttura economica del paese e, con ciò, primi nemici proprio delle aspirazioni di partenza.

 

Ponendo ipocritamente Cuba in alternativa a Cina e Vietnam, la sovrapposizione del sistema socialista e del modello cubano era utilizzata strumentalmente per declamare ragione e conseguenza della crisi del progetto di società scelto dall’isola caraibica. Confondendo fino ad ora i due termini (modello e sistema) e ciò che essi significano, i critici di cui sopra dimostrano di capire poco del sistema, del modello e di Cuba stessa.

 

La riforma del mercato del lavoro cubano, pur ripetutamente annunciata da ormai qualche anno, è certamente un fatto nuovo; apre scenari difficili da prevedere in tutta la loro portata e rompe schemi consolidati, cari all’ortodossia di nemici e amici. Ma appare, in buona sostanza, come un tentativo necessario di far fronte ad una crisi economica che va aggredita. L’intenzione evidente è semplice: far funzionare quello che non funziona. Inefficienze e disorganizzazione pesano troppo su un’economia che già patisce un blocco economico di quasi cinquant’anni, inumano ed anacronistico, che ha provocato oltre 751 miliardi di dollari di danni diretti e molti di più indiretti.

 

L’impossibilità di realizzare affari con Cuba, se si vuole farlo anche con gli Stati Uniti, produce una contorsione ulteriore della già difficile partita dell’import-export tra l’isola e i fornitori di prodotti. Le importazioni di Cuba (che non gode di linee di credito a medio e lungo termine garantite dagli organismi finanziari internazionali) sono pagate subito e a caro prezzo, mentre le esportazioni dei suoi prodotti, sulla base dei prezzi internazionalmente imposti dal Wto, risentono sia del livellamento verso il basso del valore di scambio dei prodotti che della diminuzione della produzione nazionale, risultato di un’organizzazione interna del mercato del lavoro ormai insufficiente e superata.

 

Questo è uno dei punti chiave del problema. Con i nuovi provvedimenti, i privati, organizzati in cooperative, potranno lavorare nell’edilizia, nella falegnameria, nei trasporti nei servizi in generale; insomma potranno fare tutto quello che già - illegalmente e affrontando il rischio di multe - fanno. Si trasformerà insomma in diritto ciò che è già presente in fatto, eliminando sostanzialmente il mercato nero dei prodotti e delle prestazioni, che pure tanto danno reca alla già fragile economia e che tanta diseguaglianza intrinseca produce proprio nella patria dell’egualitarismo.

 

E se con la riforma del sistema valutario (nel 1994, quando fu legalizzato il possesso dei dollari) si mise una pietra tombale sul mercato nero della valuta, ora si spera che la legalizzazione di attività lavorative esercitate da privati riduca al minimo lo svolgimento delle stesse attività in nero. L’obiettivo finale è che tutto questo contribuisca a rendere minore la distanza tra la domanda di beni e servizi della popolazione e la possibilità dello Stato di soddisfarla. Sprechi, inefficienze e abusi possono essere fortemente ridotti proprio da politiche economiche premianti e calibrate sulle necessità del consumo interno.

 

In particolare il trasporto pubblico e la manutenzione degli edifici, due tra i maggiori problemi dei cubani, possono ricevere una soluzione da queste aperture. In parte già permesso da alcuni anni per le auto d’epoca, l’utilizzo della propria vettura come mezzo adibito al trasporto pubblico può generare impiego e ridurre le file. Sarebbe necessario che l’autorizzazione venga essere estesa anche alle auto di recente fabbricazione e ai microbus, che potrebbero coprire rotte precise urbane ed extraurbane, sempre quando il servizio fosse organizzato e gestito da cooperative.

 

E’ chiaro che cambiare molto non sarà semplice né rapido. Milioni di cubani andranno formati ed ulteriori ampliamenti della presenza internazionale negli investimenti sull’isola saranno inevitabili. Il welfare stesso - fiore all’occhiello del socialismo cubano - dovrà essere parzialmente finanziato dall’aumento delle entrate tributarie derivante dal lavoro privato, giacché il proseguimento del livello (altissimo) di assistenza non può poggiare solo sulla fiscalità generale che, unica al mondo ha nelle entrate una dimensione ridicola rispetto alle uscite.

 

Cuba ha bisogno di riassestare in profondità l’organizzazione del lavoro e deve farlo incamminandosi verso un’economia mista (pubblica e privata) che generi il gettito fiscale necessario anche per la copertura del welfare. Verranno quindi concesse licenze per lo svolgimento di attività private destinate ai servizi e ogni impresa che assumerà lavoratori dovrà pagare la quota stabilita di salario, assistenza e previdenza. I profitti verranno tassati per aumentare le entrate statali.

 

A questo si aggiunge la necessità di riprogrammare il cosa e il quanto lo Stato deve produrre e, quindi, la forza lavoro che ha bisogno d’impiegare. Perché in nessun manuale di socialismo é scritto che il lavoro artigianale non possa essere privato. Che un barbiere sia un impiegato pubblico, invece che un artigiano privato, non assegna patenti di autenticità socialista o, viceversa, ne riduce. Affidare ai privati la produzione di servizi destinati al consumo interno appare invece come un utile passo verso una modernizzazione del paese in un contesto di rinnovamento senza abiure.

 

Sarà un cammino faticoso, doloroso, irto di ostacoli, suscettibile di sollecitazioni ora difficili da prevedere e anche di ulteriori cambi di passo in corsa. L’istruzione, la salute, la difesa e la grande produzione industriale rimarranno nelle mani dello Stato, ma andrà formata una cultura del lavoro che non preveda l’impiego “a prescindere” dalle mansioni effettivamente svolte e che le stesse siano “indifferenti” alla domanda di consumo interno. Per questo Cuba è oggi obbligata a ristabilire un principio: il valore del lavoro dev’essere riflesso in quello del salario.

 

Ed è proprio la chiara intenzione di modernizzare e adeguare, invece che demolire, l’aspetto che scatena il sarcasmo e il livore scribacchino dei columnist che non trovano pace con Cuba e nemmeno con se stessi. Avrebbero preferito che Cuba dichiarasse la fine del suo sistema, l’insostenibilità del suo modello, il venir meno della sua utopia; tra le tante, l’unica ad aver avuto applicazione concreta. Si aspettavano, insomma, una resa senza condizioni, l’abdicazione dei princìpi prima ancora che l’azzeramento di un sistema. Sono delusi, da ciò dipende l’acrimonia.

 

Cuba ha scelto di rinnovarsi invece che di restare sotto l’albero con le mani in mano. Ha scelto di cambiare quello che non funzione proprio per non essere costretta a cambiare tutto. Ha scelto, insomma, di accettare la sfida solitaria. Una sfida che prevede l’adeguamento del suo modello economico alle necessità interne e alla congiuntura internazionale e che offre un’apertura di credito verso la capacità di rendere il modello più efficiente, è segno di profonda fiducia nello stesso.

Il socialismo cubano, che potrebbe essere definito un combinato disposto di giustizia sociale e indipendenza nazionale, ha bisogno di essere in linea con questi due elementi proprio per rilanciare il suo modello; perché il miglioramento dell’economia è un passaggio inevitabile per il mantenimento del modello e perché, salvare il sistema, passa proprio dal riuscire a riformare il modello.

 

Riformare, sburocratizzare, modernizzare: niente di tutto ciò significa tornare indietro. Al contrario, modernizzare e sbloccare, innovare e riformare, sono propedeutici al perdurare. Per tutto quello che ha significato e significa Cuba, per tutto quello che significa la presenza di un modello di società diversa, vale quindi la pena provarci. Cambiare non significa tornare indietro. L’isola socialista si vestirà elegante per questo appuntamento con la terza fase della sua storia, mentre a Miami continueranno a sognare un’impossibile restaurazione. Ma moriranno di rancore e di nostalgia guardando la baia dell’Avana nelle notti prive di foschia.