Il primo agosto del 2006 Raúl Castro lasciò
Cuba e il mondo senza fiato leggendo il comunicato con
cui Fidel informava che la sua salute l'obbligava a
cedere «temporaneamente» il potere al fratello. Il 19
febbraio 2008 il «temporaneo» divenne «permanente».
Raúl era solo. Privo di carisma ma consapevole che Cuba,
a 50 anni dalla «rivoluzione vittoriosa», senza cambi
radicali e dolorosi, rischiava di saltare in aria. Nel
2007 disse che erano necessari «cambiamenti strutturali»
per «perfezionare» il modello socialista. Cos'è cambiato
in 5 anni?
Dal modello sovietico Cuba aveva appreso che la
proprietà statale è sinonimo di socialismo. Dopo il '68
era stato nazionalizzato tutto, fino all'attività di
barbiere e venditore ambulante. E quasi nulla funzionava
come doveva, favorendo la diffusione di una
micro-illegalità e clandestinità giustificata dalle
proibizioni e dall'impossibilità di vivere con salari
ufficiali intorno ai 20 euro al mese. Le riforme,
innanzi tutto, stanno facendo emergere l'underground.
Di grande impatto la cessione delle terre in usufrutto
ai campesinos dopo anni di improduttivi ed inefficienti
«kolkoz». Cuba, terra fertilissima, importa più dell'80%
degli alimenti che consuma. Ma la «riforma agraria» non
è riuscita ad aumentare, finora, la produzione per via
dell'impossibilità dei campesinos di approvvigionarsi di
quanto necessario a far fruttare la terra. 9000 delle
150 mila nuove famiglie usufruttuarie hanno restituito
gli appezzamenti ricevuti allo stato.
Socialmente la misura più esplosiva, e rischiosa. è il
licenziamento (la parola usata non è questa) di oltre un
milione di lavoratori statali sui 5 totali, 500000
subito (ma i termini si sono allungati), da riciclare
nei lavori autonomi o cooperativi che la «destatizzazione»
controllata dell'economia dovrebbe creare ( 200mila
licenze già concesse per lavori por cuenta propria),
sgravando le esangui casse dello stato dai salari e
immettendovi i proventi delle (salatissime) imposte,
voce finora sconosciuta.
Questi cambi hanno prodotto un mini-boom del mercato
interno, una febbre consumista alimentata dai soldi
(illegali) finora «nascosti sotto il materasso». Dal
2008, quando fu legalizzata la vendita delle linee
telefoniche, il numero dei cellulari è passato da 250000
a più di un milione. Ora tocca alle auto e alle case
(finora era permessa solo una finta vendita sotto forma
di «permuta») su cu fiorivano corruzione e mercato nero.
Altro punto sensibile del «perfezionamento»,
l'istruzione. Meno universitari (via il 40% dei posti),
più tecnici e operai specializzati.
Anche sul piano politico interno, Raúl non è stato a
guardare. Ha maneggiato con abilità il nodo del
dissenso, che - nonostante il caso Zapata, il detenuto
morto per sciopero della fame nel 2010 - ha perso peso e
ascolto (anche presso la Sezioni di interessi Usa
all'Avana). La gran mossa, finalmente, è stato l'accordo
con il cardinale Ortega (che di certo non risulterà
gratis per Castro) e la mediazione del governo
socialista spagnolo, che ha portato alla liberazione di
tutti i dissidenti.
A livello internazionale? Con gli Usa, in chiaroscuro.
Obama ha fatto qualche passo iniziale (via le
proibizioni ai viaggi dei cubano-americani, alle
limitazioni delle visite dei cittadini Usa, all'invio di
rimesse). L'Europa è divisa su Cuba, ma l'ostile
«posizione comune» imposta da Aznar ha effetti pratici
scarsi o nulli su imprenditori e turisti europei e sulla
cooperazione. I nuovi assi strategici, a livello
politico ed economico, sono Cina e Venezuela, anche se
Cuba sta intessendo forti relazioni commerciali sud-sud,
con la «nuova» America latina, con Africa e Asia.
Ieri Raúl è intervenuto in parlamento per dare spinta
alle riforme. Le resistenze della burocrazia di stato e
di partito sono forti e immaginabili. I rischi sul tipo
di paese che produrranno (senza che si sia mai detto
nulla su cosa sia stato sbagliato) sono molti. Per ora
l'unica certezza è che così Cuba non poteva continuare e
che Raúl se n'è resto conto.