Nelle capanne di legno erette nelle terre contese tra contadini e latifondisti, il colpo di Stato del giugno 2009 non può essere dimenticato.
Prima di allora, in Honduras qualcosa stava finalmente cambiando.
L’allora presidente Manuel Zelaya aveva iniziato il processo di titolazione delle terre per le comunità contadine e indigene, dopo aver approvato nel 2008 una legge sulla riforma agraria. Era nata una nuova speranza per il popolo honduregno, 7,6 milioni di abitanti, il 64% dei quali vive al si sotto della soglia di povertà, che finalmente vedeva riconosciuti i propri diritti sulla terra.
Un sogno svanito il 28 giugno 2009, quando, per mano dei militari, Zelaya è stato arrestato per attentato alla Costituzione e sostituito dall’imprenditore di origini bergamasche Roberto Micheletti, presidente ad interim fino alle elezioni del 2010, quando è stato eletto Porfirio “Pepe” Lobo Sosa.
Da allora, per la politica internazionale e per i media
la situazione in Honduras si è normalizzata. È tornata
la democrazia, dicono.
Per gli honduregni, invece, il golpe ha aperto una fase
storica caratterizzata dalla violenza. È tornato ad
agitare i sonni il fantasma del decennio perduto degli
anni 80, quando omicidi politici, detenzioni forzate e
sparizioni erano all’ordine del giorno.
Nel novembre del 2011 il Congresso honduregno ha dato
all’esercito la facoltà di svolgere funzioni di polizia,
militarizzando di fatto il Paese. Dina Meza, Bertha
Oliva e Noemi Nrez, appartenenti al Comitato di
familiari di detenuti desaparecidos in Honduras (Cofadeh,
www.cofadeh.org), sono state recentemente vittime di
minacce da parte del “Comando Alvarez Martinez”, uno
squadrone della morte che deve il proprio nome a un
militare responsabile di centinaia di sparizioni,
omicidi e torture durante gli anni 80.
Dopo il colpo di Stato del 2009, denuncia il Cofadeh,
sono stati assassinati
23 giornalisti, più di 80 membri
della comunità lesbica, gay, bisessuale e transgender (Lgbt),
quasi 60 contadini e decine di membri del Fronte
nazionale di resistenza popolare
(www.resistenciahonduras.net) il movimento protagonista
della resistenza popolare dopo il golpe.
Alla base del conflitto tra la popolazione e la classe
dirigente, pilotata dai membri delle dodici famiglie più
ricche del Paese, vi è il controllo della terra e delle
risorse naturali e minerarie, che sono la grande
ricchezza del poverissimo dell’Honduras. Il sottosuolo è
ricco di metalli preziosi, che contribuiscono al 25,9%
delle esportazioni del Paese; in superficie i fiumi
rappresentano fonti di energia e di denaro, anche per le
grandi imprese di costruzioni impegnate nella
realizzazione di grandi opere, come la diga di Nacaome,
firmata dall’italiana Astaldi, o quella di Cajòn,
realizzata da Impregilo.
Le terre fertili del Nord-est del Paese, in particolare
la valle dell’Aguan, sono invece contese tra il
Movimento Unificado Campesino del Aguan (Muca,
movimientomuca.blogspot.it) e Miguel Facussé, l’uomo più
ricco e potente del Paese. Reclamate dai contadini già
dai primi anni Novanta, sono oggi teatro di violenze che
hanno portato -negli ultimi 2 anni- alla morte di 45
contadini affiliati al Muca e alla militarizzazione del
territorio.
Anche a Zacate Grande (la realtà cui fanno riferimento le foto di questo reportage) la lotta per la terra è decennale. Nel 1998 la popolazione della penisola, ubicata nel golfo di Fonseca, unico sbocco honduregno sull’Oceano Pacifico, non avendo ottenuto nessun appoggio da parte dello Stato, si è riunita nel Movimento di recupero delle terre di Zacate Grande e nell’Associazione per lo sviluppo della penisola (Adepza).
L’obiettivo è far riconoscere legalmente il loro diritto alla terra e alle spiagge, in quanto popolazione originaria della penisola, al fine di implementare, attraverso micro-progetti locali, uno sviluppo sostenibile comunitario.
Le famiglie più potenti del Paese, riunite nel Club de
Coyolito, negli ultimi 30 anni si sono impossessate
dell’80% delle terre e delle spiagge della penisola di
Zacate Grande, sottraendole ai contadini e ai pescatori
della zona, impedendo l’accesso con recinzioni e guardie
armate, poste per difendere proprietà i cui titoli sono
stati acquistati dallo Stato o, spesso, semplicemente
auto-dichiarati.
Ma i catrachos (come si definiscono in gergo gli
honduregni) non si arrendono facilmente. A Zacate Grande
hanno deciso di resistere agli espropri delle terre con
l’arma della comunicazione. Con l’appoggio della
solidarietà internazionale due anni fa a Puerto Grande,
l’aldea (comunità) più numerosa della penisola, è stata
installata una radio comunitaria. In questa penisola il
golpe del 2009 non può essere dimenticato anche perché a
ricordarlo, ogni giorno, c’è La Voz de Zacate Grande,
una “voce del popolo per il popolo”, che denuncia la
violenza, l’ingiustizia e l’arroganza che l’esercito
honduregno e i paramilitari continuano ad infliggere.
Le trasmissioni, tenute da un gruppo di giovani
volontari, hanno due funzioni principali. La prima è una
contro-informazione su ciò che avviene nel Paese, dando
voce alle notizie invisibili, censurate dalle emittenti
principali; l’altra è aggiornare in diretta la
popolazione di Zacate Grande sulla cronaca locale,
fungendo anche da strumento di allarme contro possibili
violazioni.
Con un raggio di trasmissione di alcuni chilometri, la
radio saluta ogni mattina Miguel Facussé, il grande
latifondista e proprietario della Corporación Dinant
(snack, alimenti, grassi, oli, prodotti agricoli,
combustibili) che da anni minaccia di sgombero la
comunità che sorge sulle terre che ufficialmente sono
sue. La radio ricorda a Facussé che Zacate Grande è
libera, e che “la terra non si vende, si coltiva e si
difende”. La Voz de Zacate Grande sorge in un tratto di
terra contesa, a poche decine di metri dal mare e da una
delle ultime tre spiagge ancora libere e raggiungibili
delle 64 presenti nella penisola.
Il mare, l’altra grande fonte di sostentamento per la
popolazione di Zacate. Almeno fino agli anni 70, quando
lo sviluppo industriale dell’allevamento di gamberi per
l’esportazione e la pesca intensiva hanno distrutto
l’ecosistema marino, minacciando la popolazione locale,
che traeva dalla pesca tradizionale buona parte del
proprio fabbisogno. “La quantità di pesce è diminuita
notevolmente negli ultimi anni, per questo siamo dovuti
passare anche noi all’allevamento di gamberi nelle
lagune artificiali” ci racconta don Chepe, un anziano di
Puerto Grande, mentre ripara la sua rete da pesca.
Con la distruzione di più del 50% della foresta di mangrovie, l’industria del gambero è diventata l’unica fonte di reddito salariato per la penisola, costringendo molte persone a lavorare proprio per quelle imprese i cui proprietari sono gli stessi che minacciano gli sgomberi.
Per non cedere a questo ricatto, l’Associazione per lo
sviluppo della penisola ha istituito una cassa rurale
per finanziare micro-progetti di sviluppo, tra cui
alcune lagune per l’allevamento di gamberi di proprietà
della comunità, che sorgono su terre il cui titolo - come
sempre - è di Miguel Facussé. Per questo i leader
dell’associazione stanno subendo minacce ed attentati ai
quali, per ora, sono riusciti a sopravvivere.
Di fronte alle ripetute violenze, Adepza, in collaborazione con altri movimenti di base come il Copinh (Consiglio civico delle organizzazioni popolari indigene e nere dell’Honduras) e il Cofadeh ha fatto appello alla comunità internazionale per l’installazione di un accampamento permanente, per garantire la presenza costante di volontari internazionali, disponibili a documentare le violazioni dei diritti umani per tutelarne la difesa.
All’appello ha risposto una piccola associazione italiana, il Collettivo Italia-Centro America (Cica, www.puchica.org), che ha promosso il campamento inaugurato un anno fa, nel giugno del 2011.
L’accampamento sorge a fianco della radio La Voz de
Zacate Grande, ed è un’ulteriore garanzia di protezione
per la comunità. Dalla sua inaugurazione hanno abitato
lì per vari mesi volontari italiani e non solo,
condividendo con gli abitanti le difficoltà quotidiane e
la tensione costante di un possibile sgombero.
Lo scopo del campamento è quello di creare reti umane di
solidarietà internazionale, che possano contribuire a
creare un otro mundo posible, in cui la giustizia e la
verità siano valori di base, insieme alla solidarietà e
all’inviolabilità dei diritti umani, come sostiene
Bertha Oliva, direttrice del Cofadeh: “Sappiamo che,
anche a causa della costruzione di spazi di verità come
questi, arriveranno giorni difficili. Tuttavia
affronteremo la violenza con azioni di pace, perché
l’unico modo per sconfiggere la violenza è quello di
affrontarla con la convinzione che è possibile
denunciare i diritti violati”.
Per questo, se l’Honduras è una vera democrazia, allora
il golpe del 2009 non si è mai concluso. Perché
l’esercito e i paramilitari (e l’oligarchia che dietro
di essi si nasconde) continuano ad opporsi con violenza
a chi chiede solamente giustizia, libertà e dignità.