MILANO - Catturato in Afghanistan e consegnato agli americani, detenuto e torturato per 8 anni a Guantanamo, estradato e nuovamente arrestato in Italia dove è stato condannato in primo grado. Una lunga odissea quella Riad Nasri, un tunisino fino a oggi detenuto nel carcere di Benevento dal quale è uscito dopo la sentenza della Corte d'Assise d'appello di Milano che lo ha assolto ordinando l'immediata scarcerazione. Confermata invece la pena a otto mesi per il connazionale Ben Lazhar. Secondo l'accusa i due avrebbero fatto parte di una organizzazione finalizzata alla fabbricazione di monete e documenti falsi per finanziare i movimenti terroristici. Ma i giudici di secondo grado hanno ritenuto non provati i fatti attribuiti a Nasri e lo ha assolto.

 

CONDANNA A 6 ANNI - Resta la storia che si porta dietro. Il tunisino ha raccontato di aver passato otto anni nella base militare americana di Guantanamo dove avrebbe subito, stando ai suoi racconti, torture di ogni genere. In primo grado a Milano era stato condannato a 6 anni di reclusione per terrorismo internazionale. Secondo l'accusa Nasri avrebbe fatto parte tra il '97 e il 2001 di una cellula legata al Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, con base anche a Milano e che reclutava martiri destinati ai paesi in guerra.

 

TORTURATO - Interrogato dai magistrati ha raccontato di essere stato torturato e privato di «tutti i diritti più semplici e fondamentali», di essere stato picchiato e rinchiuso in «gabbie molto piccole e all'aperto» con «un materassino basso per dormire, una coperta, un secchio per i bisogni ed uno per l'acqua da bere». Se non parlava, ha spiegato ancora, veniva minacciato di «abusi sessuali da donne e da uomini». Arrivato dalla Tunisia a Bologna nel '94, pochi mesi dopo partì per la Bosnia per combattere. Rientrato di nuovo nel capoluogo emiliano, sparì dopo l'attentato alle Torri Gemelle: venne catturato dai combattenti dell'Alleanza del Nord nella sua casa in Afghanistan, dove si era sposato e aveva avuto una figlia, e «consegnato vivo agli americani». Da lì i trasferimenti in un carcere a Kabul, in una cella dove non c'era spazio «per distenderci tutti per cui dormivamo a turno» e dove cominciarono anche gli interrogatori per sapere «se facevo parte di al Qaeda e venivamo picchiati per farcelo ammettere».