Almeno una volta, nella vita, ognuno di noi si chiede cosa può fare per migliorare il suo paese, proteggere le persone e le cose, difenderne la sovranità e la sua autodeterminazione. A Cuba questo pensiero per molti e di diverse generazioni, è pensiero quotidiano. Perché Cuba, oltre ad essere paese assolutamente diverso da altri, oltre a rappresentare un modello di società dove il mercato obbedisce alle persone, i politici agli elettori e le banche alla politica, è meta ossessiva dei suoi nemici.
E
più i suoi nemici odiano,
progettano morti e distruzione,
sognano vendette e cospirano per
terrorizzare, più gli uomini e
le donne dell’isola socialista
devono lavorare, pensare,
immaginare, lavorare e cospirare
per difendere il loro paese e la
loro gente.
S’ inserisce semplicemente in
questo quadro storico la vicenda
scandalosa dell’arresto e della
condanna a pene assurde - tanto
relativamente alle accuse (mai
provate) quanto in assoluto nel
rapporto tra reato e pena
prevista dai codici statunitensi
- di Gerardo Hernandez, Ramon
Labanino, Antonio Guerrero,
Fernando Gonzalez e Renè
Gonzalez, diventati prigionieri
dell’impero nel 1998.
I
cinque erano e sono patrioti.
Persone che dovettero rinunciare
ad una vita nel loro contesto
naturale, lasciare il loro paese
e andare a vivere negli Stati
Uniti per portare
a compimento il loro lavoro: la
difesa di Cuba. Negli Stati
Uniti Gerardo, Ramon, Antonio,
Fernando e Renè hanno svolto la
missione che gli era stata
assegnata: infiltrarsi nelle
organizzazioni terroristiche e
mafiose dei fuoriusciti cubani
in Florida, carpirne i segreti e
i piani terroristici per
allertate L’Avana e smontare i
piani del terrore.
I cinque cubani detenuti e
condannati negli Usa sono
innocenti dei reati di
cospirazione e di complicità in
omicidio. Non hanno commesso
nessun reato in violazione della
sicurezza nazionale degli Usa,
mentre hanno messo Cuba nella
condizione di potersi difendere
dagli attacchi terroristici che
da Miami venivano e vengono
finanziati, organizzati e
realizzati. I cinque hanno
svolto il loro compito
smascherando prima ed indicando
poi al loro Paese, gli autori,
le date, i modi, i mezzi, gli
obiettivi e le complicità con i
quali il terrorismo made in Usa
colpisce l’isola caraìbica da
decenni.
Hanno svolto, insomma, il
compito proprio di qualunque
agente di qualunque servizio di
qualunque paese: la difesa della
sua integrità territoriale e
dell’incolumità dei suoi
cittadini, del suo gruppo
dirigente e dei suoi obiettivi
sensibili; il compito cioè, che
ogni persona addetta alla
sicurezza del proprio paese,
indipendentemente da dove si
trovi, è chiamato a svolgere. Un
lavoro necessario, vista
l’infame continuità della storia
di attentati che le
organizzazioni terroristiche
hanno progettato e realizzato
contro l’isola. Un triste
computo, che nessuno si pregia
di ricordare per non disturbare
il manovratore statunitense.
La storia non prevede quasi mai
letture univoche, ma in alcuni
casi, e tra questi Cuba, parla
chiaro. Da 54 anni una
superpotenza aggredisce una
piccolissima isola con un blocco
economico, commerciale, politico
e diplomatico, cui si aggiunge
l’iniziativa di tipo militare.
Il governo più potente al mondo
realizza la politica
nell’emisfero sotto la dettatura
di organizzazioni terroristiche
cubano-americane. Queste, con
l’aiuto, il denaro e la
copertura delle agenzie
statunitensi, non solo si
addestrano indisturbate ad
azioni armate nella Florida, ma
organizzano attentati nell’isola
e fuori.
Il menù che il terrorismo cubano-americano, finanziato e organizzato dalla CIA nel quadro della sua politica criminale contro Cuba, ha fornito ogni tipo d’ingrediente: un’invasione mercenaria, stragi con bombe sugli aerei e negli hotel, attentati a strutture economiche, assassini mirati di dirigenti cubani e sequestri di aerei e navi, spargimento di agenti chimici letali nelle colture agricole, diffusione di virus tra la popolazione.
Esagerazioni? Dal 1959 al 2001 Cuba ha subito un’invasione (fallita), 3478 morti, 2099 feriti, 294 tentativi di dirottamenti marittimi ed aerei, 697 atti terroristici, 600 tentativi di assassinio di Fidel Castro, quasi 2000 miliardi di dollari di danni diretti e dimostrati procurati all’economia dell’isola. Non era pensabile né giusto che Cuba non cercasse di difendersi.
Ed
essendo a Miami che si
pianificano e si organizzano le
azioni terroristiche contro Cuba
è quindi a Miami che l’attività
del controspionaggio cubano
aveva deciso di operare. Il
lavoro dei cinque agenti cubani
ha evitato 44 attentati
nell’isola e smascherato le
attività, le complicità ed i
legami tra i terroristi
cubano-americani e le strutture
federali e statali governative.
Il governo cubano, nel tentativo
di operare concretamente per la
riapertura di un dialogo diretto
tra Washington e L’Avana senza
dover passare per Miami, offrì a
Clinton, attraverso Gabriel
Garcia Marquez, documentazione,
prove inoppugnabili sull’operato
delle organizzazioni
terroristiche che agiscono in
Florida. L’Avana riteneva che in
qualche modo gli Usa cercassero
di liberarsi anch’essi di questo
ricatto lungo all’epoca
quarant’anni e che la nuova
frontiera americana, definita
come “la guerra al terrore”
dalla sua propaganda, fosse
davvero un obiettivo politico
della volontà di governance
planetaria degli Usa.
Il
risultato fu che i terroristi
rimasero liberi e gli agenti
dell’antiterrorismo cubano
vennero arrestati. Processi
farsa celebrati tra Miami e
Atlanta, prove finte, rifiuto
dei testi e dei documenti a
discarico, rinuncia ad una sede
del processo effettivamente
terza, furono il piatto su cui
si posarono sentenze di condanna
oltre ogni immaginazione,
inedite per la storia giuridica,
pure piena di ombre, degli Stati
Uniti.
Venne inscenato un processo
politico dal quale dovevano
uscire condanne esemplari, che
andassero ben oltre ogni limite
concepito dallo stesso codice,
fino all’outing vero e proprio
rappresentato dal divieto di
frequentazione dei luoghi noti
per essere frequentati dai
terroristi dopo aver scontato
due ergastoli.
Amnesty
International e altre
organizzazioni umanitarie si
sono ripetutamente pronunciate
contro i processi farsa e
numerose personalità in tutto il
mondo, sostenute da una
incessante attività dei cubani e
della solidarietà
internazionale, hanno richiesto
la liberazione dei detenuti,
colpevoli solo di antiterrorismo
e patriottismo.
Quello del terrorismo contro
Cuba è un capitolo a sé stante
nel libro degli orrori della
politica estera statunitense. Vi
si può leggere in ogni pagina
una incestuosa e nauseabonda
comunanza d’interessi tra i
fedeli e i nostalgici di
Batista, cui si è aggiunta nel
corso dei decenni una marmaglia
indistinta di mercenari, e gli
obiettivi di politica regionale
di Washington, che delega
appunto la parte più sporca del
lavoro alle bande terroristiche
allocate in Florida. Non è un
segreto che il governo degli
Stati Uniti incoraggia - o
perlomeno permette - le attività
terroristiche delle
organizzazioni criminali
anticubane coordinate dalla FNCA
della Florida.
La
fondazione, che vide la sua
nascita sotto la presidenza
Reagan, è legata a triplice filo
con la famiglia Bush e gode di
aiuti economici e coperture
legali, sostegno politico e
favore di ogni normativa
relazionata con Cuba. Dal blocco
economico fino alla “legge del
piede bagnato”, dalla legge
Torricelli alla Helms-Burton, i
gusanos sono l’interlocutore
unico, addirittura il referente
della politica statunitense
nell’area.
In cambio, la rete della mafia
cubano-americana s’incarica di
offrire manovalanza criminale
alle “covert actions” della CIA
in America Latina e di dare
sostegno elettorale ai candidati
dei due schieramenti in Florida
(Stato chiave per eleggere il
Presidente USA). Ovvio, con una
naturale preferenza verso i
repubblicani, ma senza
disdegnare i democratici che
scendono a patto con loro. Non
hanno problemi di schieramento
alla FNCA: quale che sia il
partito del candidato,
l’importante è che s’impegni a
conservare il dominio
territoriale, le norme di
favore, il sostegno alla
formazione paramilitare dei loro
aderenti, i finanziamenti
pubblici e l’appoggio politico
al terrorismo anticubano, core
business della FNCA, mano
d’opera fondamentale
dell’agenzia con sede a Langley.
In
questo binomio d’interessi
sporchi, s’inseriscono leggi e
norme costruite appositamente
per permettere alla mafia cubana
di prosperare finanziariamente
sull’ostilità statunitense
contro l’isola socialista.
L’immigrazione clandestina dei
cubani, che diversamente da ogni
altro emigrato del mondo per il
solo fatto di toccare con i
piedi il suolo statunitense
ottengono residenza e
cittadinanza, permette uno dei
business migliori per i gusanos,
quello che deriva dal ruolo di
scafisti. Che se operano nel
Mediterraneo sono volgari
banditi, ma nel Mar dei Caraibi
diventano combattenti per la
libertà.
Quindici anni dopo loro arresto,
la battaglia per liberarli si va
intensificando. Renè Gonzales,
detentore della condanna minore
(15 anni!!) è ormai libero.
Tornato a Cuba per la morte del
padre, ha ottenuto dal tribunale
di Miami la possibilità di
restarvi per sempre in cambio
della rinuncia alla nazionalità
statunitense. Ne restano ancora
quattro tra gli artigli
dell’impero e il loro definitivo
rilascio è questione ormai solo
politica, essendosi esaurito il
percorso giuridico della loro
vicenda. A Cuba, invece, si
trova agli arresti Alan Gross,
cittadino statunitense, di
professione spia, che per conto
di organismiUSA consegnava
materiali e denaro alla rete
interna di mercenari americani
che parlano cubano, meglio
conosciuti come “dissidenti”.
I casi siano molto diversi, dal
momento che i cinque cubani
difendevano il loro paese dal
terrore che parte dalla Florida,
mentre mai da Cuba nessun
attacco è mai partito
all’indirizzo di Miami. I cinque
non avevano nessun interesse a
spiare uomini e istituzioni
statunitensi, non era quella la
loro missione, non era quello il
loro interesse; loro
infiltravano le bande terroriste
per sventarne i piani. Alan
Gross, invece, contribuiva alla
costruzione di un fronte interno
sovversivo a Cuba, in parte
clandestinamente e in parte
pubblicamente; dunque agiva
contro gli interessi e la
sovranità nazionale del paese
nel quale era ospite, appunto
come una perfetta spia.
Arrestato e condannato, si trova
in ospedale dove riceve cure ed
attenzioni, oltre che visite,
che ai cinque cubani prigionieri
negli Usa sono drasticamente
negate, vittime ancora oggi di
un regime carcerario durissimo
che impedisce persino le cure e
il contatto facilitato con i
parenti.
Benché i casi siano
completamente diversi, Cuba si è
detta pronta ad una iniziativa
umanitaria reciproca che porti
ad uno scambio di prigionieri,
ma gli Stati Uniti non sembrano
voler accettare. Ovviamente non
si tratta di riconoscimento
della legittimità della
procedura di scambio di
prigionieri, dal momento che
dagli USA è stata regolarmente
praticata in lungo e largo per
il mondo anche nei decenni
recenti. Si tratta forse di non
inimicarsi la comunità
terroristico-mafiosa di Miami,
già in passato capace di
dimostrare come non approvi
anche minimi segnali di
mutamento di rotta dalla guerra
aperta verso il dialogo da parte
di Washington verso L’Avana.
Oggi,
in ogni parte del mondo, come
ogni cinque di ogni mese e di
ogni anno e fino a quando sarà
necessario, i difensori dei
giusti saranno in piazza contro
l’ingiustizia. Per protestare
contro la prosecuzione della
carcerazione di uomini per il
cui operato si può andare
orgogliosi.
Il
premio Nobel Obama ha la
possibilità di assegnare il
perdono presidenziale ai quattro
detenuti cubani e permettergli
di tornare a Cuba dai loro cari.
Non serve una riflessione
lacerante: non un morto né un
ferito statunitense è stato
vittima del loro operato, nessun
segreto militare statunitense è
stato violato, nessun atto
violento è stato commesso.
Non c’è nemmeno una ragione,
almeno tra quelle rivendicabili
pubblicamente, che può impedire
il perdono presidenziale, in
passato concesso a noti
terroristi, tra cui Orlando Bosh,
criminale cubano americano
autore materiale di decine di
attentati tra i quali
l’esplosione in volo dell’aereo
della Cubana de Aviacìòn sui
cieli delle Barbados costato 73
morti. La mano di Bush non ha
tremato mentre firmava il
perdono all’assassino, perché
quella di Obama dovrebbe tremare
davanti a persone innocenti di
ogni crimine?
La strada per Obama quindi c’è:
ripari con il perdono
presidenziale al torto
giudiziario, reagisca con la
clemenza alla vergogna di un
paese che ha voluto tutelare i
terroristi e imprigionare gli
antiterroristi. Una firma giusta
che potrebbe rispondere alle
domande che tutti si pongono
quando analizzano il rapporto
USA-Cuba: per quanto tempo una
comunità criminale su base
locale dovrà dettare la politica
estera regionale dell’unica
superpotenza planetaria? Per
quanto tempo terrore e odio
dovranno rappresentare l’alfa e
l’omega della relazione di
Washington con L’Avana?