Rafael Correa è di gran lunga avanti al suo
rivale più diretto nelle elezioni presidenziali che si terranno domenica in
Ecuador, e ci si aspetta che vinca facilmente un altro incarico di 4 anni.
Non è difficile capire il perché.
La disoccupazione è scesa al 4.1% alla fine dello scorso anno – minimo
storico da almeno 25 anni. La povertà è diminuita del 27% dal 2006. La spesa
pubblica per l’istruzione è più che raddoppiata, in termini reali (al netto
dell’inflazione).
I maggiori investimenti nella spesa sanitaria
hanno ampliato l’accesso alle cure mediche, inoltre la spesa sociale è
incrementata notevolmente, includendo una vasta espansione del credito
edilizio sovvenzionato dal Governo.
Se tutto questo può sembrare insostenibile, beh, non lo è. I pagamenti degli
interessi sul debito pubblico dell'Ecuador sono meno dell'1% del PIL,
piuttosto contenuti quindi; il rapporto debito pubblico/PIL è un modesto
25%.
L'Economist, che non si è mai interessato molto a nessuno dei Governi di
sinistra che sono ora al potere nella maggior parte del Sud America,
attribuisce il successo di Correa ad un “insieme di fortuna, opportunismo e
talento”. Ma in effetti è stato proprio quest’ultimo a fare la differenza.
Correa potrebbe essere stato fortunato, ma non è stata una “buona fortuna”:
ha assunto l'incarico nel gennaio del 2007 e l'anno seguente l'Ecuador è
stato uno dei paesi dell'emisfero maggiormente colpiti dalla crisi
finanziaria internazionale e dalla recessione mondiale.
Questo perché il Paese era fortemente dipendente dalle rimesse estere
(fornite ad esempio dai cittadini ecuadoriani che lavorano negli Stati Uniti
e in Spagna) e dalle esportazioni di petrolio, che costituivano il 62% del
guadagno dei proventi da esportazione e il 34% delle entrate del Governo a
quei tempi. Il prezzo della benzina è collassato del 79% nel 2008, la stessa
sorte hanno subìto le rimesse. L’effetto combinato, parlando dell’economia
dell’Ecuador, si può paragonare allo scoppio della bolla immobiliare
statunitense, che ha contribuito alla Grande Recessione.
E l’Ecuador aveva anche la sfortuna di non possedere una sua valuta (il
Paese aveva adottato il Dollaro USA nel 2000) – il che non gli dava la
possibilità di utilizzare il tasso di cambio o gli strumenti di politica
monetaria che la US Federal Reserve (la Banca Centrale degli Stati Uniti,
ndt) utilizzava per contrastare la recessione. Eppure il Paese è riuscito a
mantenere la giusta rotta con una recessione moderata durata tre trimestri,
l’anno seguente si è trovato di nuovo al livello di pre-recessione della
produzione e sul cammino verso il raggiungimento di quegli obbiettivi che
hanno fatto di Correa uno dei Presidenti più popolari dell’emisfero.
Come hanno fatto? Forse il fattore più importante è stato un cospicuo
stimolo fiscale nel 2009, all’ incirca il 5% del PIL (se solo lo avessimo
proposto anche qui negli Stati Uniti). Una parte importante è stata
rappresentata dall’edilizia, con l’espansione del credito immobiliare di 599
milioni di dollari nel 2009 da parte del Governo, ampliando inoltre i
crediti durante tutto il 2011.
Ma il governo ha anche dovuto riformare e regolamentare il sistema
finanziario. E qui ha intrapreso quella che è forse la più completa riforma
finanziaria di un Paese, nel XXI secolo. Il governo ha preso il controllo
della Banca Centrale e l'ha costretta a portare in patria circa 2 miliardi
di dollari delle riserve detenute all'estero. La cifra è stata poi
utilizzata dalle banche pubbliche al fine di elargire prestiti per le
infrastrutture, l’edilizia, l’agricoltura ed altri investimenti interni al
Paese.
Ha imposto tasse sul denaro trasferito all’estero ed ha ordinato alle banche
di conservare il 60% della loro liquidità all’interno del paese. Ha
abbassato i tassi di interesse reale, mentre le imposte delle banche sono
state aumentate. Il Governo ha rinegoziato gli accordi con le compagnie
petrolifere straniere, quando i prezzi sono cresciuti. Le entrate del
governo sono cresciute dal 27% del PIL nel 2006 fino ad oltre il 40% dello
scorso anno.
L’amministrazione Correa ha aumentato i finanziamenti per la parte “popolare
e solidale” del settore finanziario, come ad esempio le cooperative,
cooperative finanziarie e le altre organizzazioni basate sui soci. Le “Coop”
hanno triplicato i prestiti in termini reali. Il risultato finale di queste
ed altre riforme e è stato quello di spostare il settore finanziario verso
qualcosa di utile per l’interesse pubblico, invece del contrario (come negli
Stati Uniti). A tal fine, il governo ha separato il settore finanziario dai
media - le banche possedevano la maggior parte dei mezzi di comunicazione
principali prima che Correa fosse eletto - e introdotto riforme anti-trust.
Naturalmente, il pensiero comune è che tale approccio “economico-inusuale”
sulla rinegoziazione dei contratti petroliferi, ampliando la portata e
l’autorità del Governo, innalzando le tasse e inserendo dei vincoli sui
trasferimenti di capitali, è una ricetta sicura per il disastro economico.
L’Ecuador ha scoperto, a seguito di una commissione internazionale, che un
terzo del suo debito estero è stato contratto illegalmente. E
l’“indipendenza” della Banca Centrale che l’Ecuador ha revocato, è
considerata sacrosanta dalla maggior parte degli economisti di oggi. Ma
Correa, un economista PhD, ha saputo quando ignorare la maggior parte della
professione.
Correa ha avuto qualche articolo contro per aver sfidato il pensiero comune
e – forse malvisto dalla stampa economica – nonostante questo, ha avuto
successo. L’attacco più duro da parte della stampa è avvenuto quando
l’Ecuador ha offerto asilo politico al giornalista di WikilLeaks Julian
Assange. Ma, come per la politica economica e la riforma finanziaria, Correa
aveva ragione. Era ovvio che, soprattutto dopo che il Governo britannico
aveva manifestato una minaccia senza precedenti come quella di invadere
l’ambasciata dell’Ecuador, si trattava di un caso di persecuzione politica.
Cosa rara ed emozionante per un politico mantenere una sua posizione contro
i potenti – gli Stati Uniti e i suoi alleati europei, i media internazionali
– per una questione di principio. Alla fine la tenacia e il coraggio di
Correa hanno servito al meglio il suo Paese.
Mark Weisbrot
Fonte: www.guardian.co.uk
Link: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2013/feb/15/rafael-correa-ecuador-elections?INTCMP=SRCH
15.02.2013 traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di FRANCESCA
SAVINA
L'America Latina avanza,
goleada di Rafael Correa
Fulvio Grimaldi
fulviogrimaldi.blogspot.it www.comedonchisciotte.org
Quando si dirà in un qualsiasi paese del mondo: i miei poveri sono felici,
né ignoranza, né carenze si trovano tra di loro, le mie prigioni sono vuote
di detenuti, le mie strade libere da mendicanti, gli anziani non sono
deprivati, le tasse non oppressive, il mondo razionale è mio amico perché io
sono amico della sua felicità. Quando si possono dire queste cose, allora il
mio paese potrà vantersi della sua costituzione e del suo governo. Thomas
Paine)
Noi qua ci dibattiamo tra i fanghi volanti di un’immonda campagna
elettorale, i cui protagonisti sono tutti indistintamente burattini della
criminalità finanziaria, religiosa e mafiosa organizzata e si dicono
chierichetti del golpista Napolitano, a sua volta lustrascarpe della
supermarionetta Obama. L’unico che esce dal coro e si astiene da riverenze e
baciamano, addirittura osa l’inosabile spernacchiando gli Usa e Israele,
rifiutando le guerre e gli strumenti di guerra a cui i licantropi imperiali
trascinano gli sguatteri spendibili, il “comico”, il “populista”,
“l’antipolitico”, cioè l’unico non populista e seriamente politico, viene
criminalizzato, sbeffeggiato, insultato, diffamato. Gente che non ha nulla
da dire sullo sterminio di un popolo dopo l’altro nel Sud del mondo, sulle
strategie di malattia e fame che falciano bambini e donne a milioni, si
strappa le vesti per un’uscita infelice di Grillo sugli immigrati. Gente che
considera il feldmaresciallo SS Obama, devastatore della costituzione
americana, primatista guerrafondaio della storia Usa, creatore del più
grande Stato di polizia del mondo, uno che con i droni assassini si è fatto
insieme accusa, giudice e boia di chiunque gli faccia saltare la mosca al
naso, nasconde il proprio asservimento a questa forma di tecnodittatura
postnazista sotto gli alti lai per la sprovveduto apertura del Grillo a Casa
Pound.
In America Latina invece…
Dedicando il trionfo elettorale a Hugo Chavez e ai caduti nella difesa del
presidente e dell’ordine democratico, al tempo del colpo di Stato del 2010
che doveva culminare con l’uccisionedel Capo di Stato, sequestrato
nell’ospedale della Polizia, Rafael Correa, in carica dal 2006, ha detto:
“Abbiamo sconfitto i demagoghi e la stampa mercatista e renderemo
irreversibile la relazione di potere a vantaggio della maggioranza e a
scapito dei poteri di fatto. Qui non comanderanno la bancocrazia, le potenze
mediatiche, qui non comanderanno gli Stati egemonici; con questa rivoluzione
comanderanno le equatoriane e gli equatoriani. Continueremo con questa
rivoluzione e si sappia che non falliremo. Potremo commettere, da esseri
umani, molti errori, ma colui che afferma di non commettere errori e colui
che non ha mai fatto niente nella vita. Non ipotecheremo la patria per
consentire l’ingresso del capitale multinazionale e daremo al debito sociale
la priorità su quello estero.
Le prime felicitazioni al vincitore sono arrivate da Cuba, Nicaragua,
Venezuela, Bolivia, Argentina, dallo schieramento dei paesi dell’ALBA
(Alleanza Bolivariana per le Americhe) di cui l’Ecuador di Correa è entrato
a far parte (e non gli è andata storta come al presidente honduregno Manuel
Zelaya, rovesciato da un golpe Usa), in particolare da Hugo Chavez in fase
di convalescenza all’Avana.
Alle elezioni presidenziali e parlamentari di domenica, il presidente Rafael
Correa ha trionfato con quasi il 60% dei voti di oltre 11 milioni di
elettori (secondo gli exitpoll), conseguendo 10 punti in più rispetto al
2009 e distanziando il rivale più accreditato, il banchiere sponsorizzato
dagli Usa Guillermo Lasso, di più di 30 punti. A prefisso telefonico l’esito
degli altri concorrenti, dal destro Lucio Gutierrez al sinistro Alberto
Acosta, uno per il quale l’oramai del tutto normalizzato “manifesto”
filo-vendolian-bersaniano ha voluto sbilanciarsi con soffietti elogiativi.
In Parlamento il partito di Correa, Alianza Pais, avrà la maggioranza
assoluta e potrà finalmente procedere a misure di salvaguardia ambientale e
di democratizzazione di un’oligarchia mediatica asservita ai poteri
economici e al diktat imperialista.
Ho avuto il privilegio, a metà del decennio, di vivere e filmare quanto
stava rovesciando nel suo contrario il paradigma di un America Latina
“cortile di casa degli Usa”. Ho visto come si possono fare rivoluzioni
vincenti nell’era della dittatura neoliberista e dell’offensiva imperialista
finalizzate a succhiare quanto di plusvalore resta nei paesi già
saccheggiati dal colonialismo. In Ecuador, alla rivolta degli indigeni nelle
zone devastate dalla Chevron e da altri cannibali petroliferi, rispondevano
a Quito i forajidos, l’equivalente dell’argentino que se vayano todos, con
una mobilitazione di mesi e una risposta adeguata alla violenza del
corruttissimo fantoccio Usa, Lucio Gutierrez. La rivolta culminò con
l’occupazione del parlamento e la paralisi dello Stato. Aveva trionfato
quella revolucion ciudadana che Correa, poco dopo, avrebbe
istituzionalizzato con la nuova costituzione democratica, ecologica,
partecipativa. Ancora una volta, come prima in Argentina, Venezuela, e poi
in Bolivia e Nicaragua, sono state le masse, non a prendere il Palazzo
d’Inverno, ma ad assediarlo, soffocarlo, disintegrarlo e, democraticamente,
attraverso il processo elettorale sostenuto dalla mobilitazione
rivoluzionaria, processo elettorale che fin lì era sembrato essere solo lo
strumento della paradittatura del capitale e delle potenze coloniali,
conquistare il potere.
Per la prima volta nella storia del pianeta un presidente ha fatto iscrivere
nella Costituzione la personalità giuridica della Natura, ha cacciato su due
piedi la base yankee di Manta, la più grande nell’America Latina, ha
rivendicato al petrolio il diritto di essere pagato dagli Stati per essere
lasciato sotto terra. Ai peggiori distruttori degli ecosistemi
nell’Amazzonia dei giacimenti petroliferi è stato dato il benservito e, per
via legale, se ne reclamano gli indennizzi. Al diavolo sono mandati gli
avvoltoi del FMI e della BM, è stata ridotto il debito, con Chavez è stato
respinto l’ALCA, il trattato di libro scambio con cui gli Usa intendevano
spolpare l’America Latina.
Cento erano gli obiettivi della Revolucion ciudadana, in massima parte
realizzati durante i due mandati di Correa. Nel 2006 per ogni dollari
investito nella spesa sociale, se ne investiva 1,8 nel debito estero. Nel
2011 di quel dollaro solo 33 centesimi andavano a pagare il debito. Puntando
verso la piena occupazione, si é grandemente ridotta la disoccupazione,
nell’ambito di una spesa per la sanità decuplicata si è ridotto di cinque
volte il paludismo, malattia endemica. Di 8 volte si è aumentata la spesa
per l’istruzione e la ricerca, l’investimento per lo Stato sociale per
cittadino passava in cinque anni da 90 dollari a 446 e la povertà veniva
ridotta di 12 punti. Sono aumentate le case popolari, è in corso un grande
piano infrastrutturale per agevolare la comunicazione tra comunità e aree
produttive, nel massimo rispetto dell’ambiente e dei popoli nativi. Presso
la base di questi popoli Correa, come rivelano sondaggi e manifestazioni,
gode di un vastissimo consenso. Non così nella loro massima organizzazione,
la CONAIE.
Correa, infatti, non ha dovuto soltanto affrontare la solita panoplia della
guerra medatica, con i grandi giornali e le emittenti in mano all’oligarchia
e le cannoniere occidentali, dalla BBC alla CNN e al Pais, impegnati alla
morte con diffamazioni, annunci di brogli, le solite accuse di caudillismo
autoritario e le manovre di destabilizzazione con tentativi di golpe e
sabotaggi di varie corporazioni e Ong. Tra i più accaniti avversari di
Correa e della rivoluzione sono stati dall’inizio i dirigenti della CONAIE.
Un’opposizione che, ammantata di integralismo ecologico, assumeva
antistorici caratteri di etnicismo separatista. Avevo intervistato Luis
Macas, all’epoca presidente della CONAIE, per sentirmi illustrare, sotto
l’etichetta di Stato Multinazionale, il fantasioso e anacronistico progetto
di una riunificazione dei popoli indigeni in entità autonoma, dal Perù alla
Bolivia e all’Ecuador e a quali altri indios ci stessero. Il modello,
dichiarò Macas, era l’impero Inca. Un riordinamento su base monoetnica che
avrebbe comportato la dissoluzione degli Stati presenti e della loro
sovranità. Con grandissima soddisfazione di un imperialismo in ritirata, ma
non rassegnato.
La CONAIE e la sua espressione partitica, il Pachakuti, avevano, a suo
tempo, sostenuto e difeso fino all’ultimo il peggiore dei tiranelli
neoliberisti e filo-Usa della parte finale del secolo scorso. Lucio
Gutierrez, indio rinnegato e anche un po’ folle, primatista di corruzione e
protagonista di uscite bislacche alla Berlusconi, uno che aveva steso il
paese a zerbino sotto gli anfibi militari ed economici Usa, era poi stato
defenestrato dai forajidos, eminentemente studenti, lavoratori e ceto medio
urbano, mentre le organizzazioni indigeni erano rimaste alla finestra, o
accanto a Gutierrez. Quando la revolucion ciudadana cambiava paradigma
sociale e costituzionale, aprendo a inediti riconoscimenti della
particolarità indigena ed evidenziando, al confronto, il disastro sociale e
i delitti personali di Gutierrez, i dirigenti Indios dettero segno di
ravvedimento e di riconoscimento di quanto veniva messo in opera.
Ma è durata poco. Al colpo di Stato di un gruppo di questurini, teleguidati
dall’ambasciata Usa, ebbero la faccia di esprimere il proprio appoggio, per
quanto smentiti dalla loro base. Con rivendicazioni di integralismo
ambientalista, si opponevano a qualsiasi, pur prudente, opera che il governo
attuava sul piano infrastrutturale per impedire che il paese sprofondasse
nel limbo degli importatori totali. Ricordo la battaglia per l’acqua, che
Correa voleva pubblica, ma organizzata da un ente di Stato per garantirne
l’equa distribuzione tra chi ne aveva tanta e chi non ne aveva punta, a cui
i dirigenti indigeni risposero con la pretesa di sapore leghista: “l’acqua a
chi ce l’ha”.
Il “manifesto” ha voluto commentare la campagna elettorale in Ecuador, dando
ampio spazio a tale Alberto Acosta, leader di un “movimento di sinistra”,
formato da maoisti, trotzkisti, radicali vari, alcuni accademici, che, da
sinistra, contestava i provvedimenti del governo, qualsiasi settore
riguardassero. Al progetto di Acosta hanno subito aderito i vertici delle
organizzazioni indigene, la cui forza elettorale non era stata sufficiente a
guadagnarsi spazi all’interno delle istituzioni rivoluzionarie. Visto che, a
ben guardare, le differenze ideologiche tra questi gruppi e il partito di
governo sono di scarsa rilevanza, è fondato il sospetto che si tratti di
motivazioni personalistiche, da una parte, e di rivendicazioni etniciste
dall’altra. Ed è un vero peccato che, in un processo di cambiamento
drastico, con il conseguente passaggio di potere e di ricchezza da una
minoranza di parassiti alla maggioranza della popolazione, vi siano queste
divisioni.
Che poi si possono vedere anche in altri paesi a indirizzo progressista,
dove spesso le organizzazioni indigene sono impegnate, per effettivi
interessi corporativi, ma sotto il manto dell’assolutismo
ecologico-separatista, a destabilizzare governi invisi all’imperialismo e ai
suoi fiduciari locali. Organizzazioni alle quali, del resto, non mancano il
plauso e il fattivo impegno di numerose Ong del Nord del mondo, un po’, come
USAIDS, autentici tentacoli del servizi segreti imperiali, un po’ soggetti
dall’ispirazione caritatevole, la cui visione della questione indigena
latinoamericana è adulterata da un romanticismo ascientifico e, soprattutto,
interclassista ed etnicista. Alla Marcos, per intenderci. Episodio
significativo di questo attrito visto con grande benevolenza dalle centrali
neoliberiste fu la famosa questione della strada che avrebbe dovuto unire la
Bolivia dal Brasile alla costa pacifica, attraversando una riserva naturale,
Tipnis, abitata da alcune migliaia di indigeni. Opera indispensabile per la
crescita del ruolo commerciale di una Bolivia chiusa nel suo isolamento
territoriale. Evo Morales aveva ripetutamente invitato tutte le parti al
dialogo su eventuali correzioni di percorso, senza che l’invito venisse
accolto. Continuavano invece le barricate. Ora il progetto è stato sospeso
in attesa che i portatori della protesta si acconcino a discuterne con il
governo e con le altre componenti sociali che della mancanza di
comunicazioni soffrono gli effetti.
Sia detto con assoluto rispetto e solidarietà per le realtà native che, con
più matura coscienza politica, si battono nelle società neoliberiste, come
nel Cile i Mapuche o in Honduras gli indios e gli afrodiscendenti, insieme a
tutti gli “sfruttati e oppressi” del loro paese.
Fulvio Grimaldi
Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.it
Link: http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2013/02/lamerica-latina-avanza-goleada-di.html#more
18.02.2013 |