L'enigma dei due Chavez
Il premio Nobel colombiano viaggiò con
Hugo Chavez dall'Avana a Caracas due giorni prima che si insediasse
come presidente. Queste furono le sue impressioni.
7.03.2013 -
di Gabriel García Márquez articolo tradotto su lsdi.it
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Carlos Andres Perez scese
dall'aereo che lo aveva riportato a Caracas da Davos
(Svizzera) e fu sorpreso dal vedere ad attenderlo nella
sala arrivi il generale Fernando Ochoa Antich, suo
ministro della Difesa. "Che succede?", gli chiese
preoccupato. Il ministro lo tranquillizzò, con argomenti
così convincenti che il presidente non andò a Miraflores
ma nella residenza principale di La Casona. Stava per
addormentarsi quando lo stesso ministro della Difesa lo
chiamò al telefono per informarlo di una sollevazione
militare a Maracay. Era appena arrivato a Miraflores
quando risuonarono le prime scariche di artiglieria.
Era il 4 febbraio 1992. Il colonnello Hugo Chavez Frias,
col suo culto sacramentale delle vicende della storia,
comandava l' assalto dal suo posto di comando
improvvisato nel Museo storico di La Planicie. Il
presidente capì allora che la sua unica risorsa sicura
era l' appoggio popolare e si precipitò negli studi di
Venevision per parlare al paese. Dodici ore dopo il
golpe militare era fallito. Chavez si arrese, a
condizione che anche a lui fosse permesso di parlare al
popolo in televisione. Il giovane colonnello creolo, col
berretto da paracadutista e la sua grande capacità di
parola, si assunse la responsabilità dei fatti. Ma il
suo discorso fu un trionfo politico. Scontò due anni di
carcere, poi fu amnistiato dal presidente Rafael
Caldera. Senza dubbio, molti sostenitori come anche non
pochi nemici hanno pensato che il discorso della
sconfitta era il primo di quella campagna elettorale che
lo avrebbe portato alla presidenza della repubblica
alcuni anni dopo.
Il presidente Hugo Chavez mi raccontava questa storia
nell'aereo dell'aviazione venezuelana che ci portava
dall'Avana a Caracas a meno di quindici giorni dalla sua
nomina a presidente costituzionale del Venezuela dopo le
elezioni. Ci eravamo conosciuti tre giorni prima
all'Avana, durante un suo incontro col presidente Castro
e Pastrana, e la prima cosa che mi colpì fu la forza del
suo corpo di cemento armato. Aveva quella cordialità
immediata e quella grazia del venezuelano puro. Entrambi
avevamo detto di rivederci ancora ma non era stato
possibile per colpa di entrambi fino a quando salimmo
nell' aereo per Caracas per parlare della sua vita e
miracoli.
Mi impressionò la forza del suo corpo di cemento armato
Fu una buona esperienza per un giornalista in pensione.
A mano a mano che mi raccontava la sua vita andavo
scoprendo una personalità che non corrispondeva affatto
all'immagine di despota che ci avevano trasmesso i
media. Era un altro Chavez. Quale dei due era reale?
L'argomento chiave contro di lui durante la campagna
elettorale era stato quello del suo recente passato di
cospiratore e golpista. Ma la storia del Venezuela ha
digerito ben altro. A cominciare da Romolo Betancourt,
ricordato - a ragione o senza - come il padre della
democrazia venezuelana, che fece cadere Isaias Medina
Angarita, un vecchio militare democratico stava cercando
di depurare il paese dai 36 anni di Juan Vicente Gomez.
Al suo successore, lo scrittore Romulo Gallegos, che
spodestò il generale Marcos Perez Jimenez, che rimase al
potere per quasi 11 anni. Costui, a sua volta, fu
cacciato da tutta una generazione di giovani democratici
che inaugurò il più lungo periodo di presidenti eletti.
Il golpe di febbraio sembra essere l'unico andato male
per il colonnello Hugo Chavez Frias. Lui, senza dubbio
lo ha visto dal lato positivo, come un rovescio
provvidenziale. È la sua maniera di intendere la
fortuna, o l'intelligenza, o l'intuizione, o l'astuzia,
o qualsiasi cosa sia quel soffio magico che ha retto le
sue azioni da quando venne al mondo a Sabaneta, nello
stato di Barinas, il 28 luglio 1954, sotto il segno del
potere: il Leone. Chavez, cattolico convinto,
attribuisce gli influssi benefici al suo scapolare di
oltre 100 anni che porta da piccolo, ereditato da un
bisnonno materno, il colonnello Pedro Perez Delgado, che
è uno dei suoi eroi tutelari.
I suoi genitori sopravvivevano con fatica con i salari
da maestri elementari, e lui si mise ad aiutarli fin
dall' età di nove anni vendendo dolci e frutta su un
carrettino. A volte andava a dorso di mulo a visitare la
sua nonna materna a Los Rastrojos, un paese vicino che
gli sembrava una città perché aveva un piccolo impianto
elettrico che assicurava due ore di luce la notte, e un
rifugio (partera?) che accolse lui e i suoi quattro
fratelli. Sua madre voleva che facesse il curato, ma
arrivò solo a chierichetto e suonava le campane con
tanta grazia che tutto lo riconoscevano dal suo tocco.
"Questo che suona è Hugo", dicevano. Tra i libri di sua
madre trovò una enciclopedia provvidenziale, il cui
primo capitolo lo sedusse immediatamente: Come trionfare
nella vita.
Era in realtà un elenco di opzioni, e lui le provò quasi
tutte. Come pittore ammirato davanti alle tavole di
Michelangelo o David, vinse a dodici anni il primo
premio in una mostra regionale. Come musicista si rese
indispensabile per i compleanni o le serenate con la sua
maestria musicale e la sua buona voce. Come giocatore di
baseball arrivò ad essere un buon catcher di prima.
L'opzione militare non era nell'elenco e lui ci aveva
neanche pensato fino a quando non gli raccontarono che
il modo migliore per arrivare nei campionati di vertice
era entrare all' Accademia militare di Barinas. Dovette
essere un nuovo miracolo del suo scapolare, perché in
quel periodo cominciava il Piano Andres Bello, che
permetteva a tutti quelli che avevano conseguito la
maturità nelle scuole militari di salire fino al più
alto livello accademico.
Il suo primo conflitto cosciente con la politica reale
fu la morte di Allende nel settembre 1973. Chavez non
capiva. Perché se i cileni avevano eletto Allende, i
militari cileni gli avevano scatenato contro un golpe?
Studiava scienze politiche, storia e marxismo-leninismo.
Si appassionò per lo studio della vita e dell'opera di
Bolivar, il suo Leone magno, e ne imparò a memoria i
proclami. Ma il suo primo conflitto reale con la
politica reale fu la morte di Allende nel settembre
1973. Chavez non capiva: Perché se i cileni lo avevano
eletto, i militari cileni gli avevano scatenato contro
un golpe? Poco dopo, il capitano della sua compagnia gli
assegnò il compito di controllare un figlio di José
Vicente Rangel, che si riteneva comunista. "Pensa come è
strana la vita", mi disse Chavez ridendo fragorosamente.
"Ora suo padre è il mio cancelliere". E un'ironia della
sorta anche più grande è che quando si laureò fu
iniziato con la spada dal presidente che 20 anni dopo
cercherà di far cadere, Carlos Andres Perez.
«Beh - gli dissi -veramente stavate per ammazzarlo».
«Assolutamente no», protestò Chavez. «L'idea era di
installare un'assemblea costituente (...)». Dal primo
momento mi aveva dato l'impressione di essere un
narratore naturale. Un prodotto integrale della cultura
popolare venezuelana, che è creativa e aurorale. Ha un
gran senso del tempo e una memoria quasi soprannaturale,
che gli permette di recitare a memoria poesie di Neruda
o di Whitman, e pagine intere di Romulo Gallegos.
Quando era ragazzino, per caso, scoprì che un suo
bisnonno non era un assassino di sette leghe, come
diceva sua madre, ma un guerriero leggendario dei tempi
di Juan Vicente Gomez. Fu tale l'entusiasmo di Chavez
che decise di scrivere un libro per purificare la sua
memoria. Scavò negli archivi storici e nelle biblioteche
militari e percorse la regione di paese in paese con una
sacca da cantastorie per ricostruire gli itinerari del
bisnonno sulla base dei ricordi dei sopravvissuti. Da
allora lo inserì nell'altare dei suoi eroi e cominciò a
indossare lo scapolare che era stato suo.
Un giorno attraversò la frontiera senza rendersene conto
attraversando il pone di Arauca, e il capitano
colombiano che gli perquisì la sacca pensò
immediatamente che si trattasse di una spia: portava una
macchina fotografica, un registratore, carte segrete,
foto della zona, una mappa militare con dei grafici e
due pistole di ordinanza. I documenti di identità, come
succede alle spie, potevano essere falsi. La discussione
andò avanti per diverse ore in un ufficio in cui l'unico
quadro rappresentava Bolivar a cavallo. "Stavo quasi per
arrendermi - mi raccontò Chavez - dal momento più
spiegavo e meno capiva". Fino a quando gli venne la
frase che lo salvò: "Capitano, pensi che cos'è la vita.
appena un secolo fa eravamo uno stesso esercito e quello
che ci sta guardando da quel quadro era il comandante di
entrambi. Come potrei mai essere una spia?". Il
capitano, commosso, cominciò a dire meraviglie della
Gran Colombia, e i due finirono la serata bevendo birra
di tutti e due i paesi in una cantina di Arauca. La
mattina seguente, con un dolore di testa comune, il
capitano restituì a Chavez i suoi strumenti di storico e
lo lasciò con un abbraccio a metà del ponte fra i due
paesi.
«Da allora mi venne l'idea concreta che qualcosa andava
male in Venezuela», dice Chavez. Lo avevano assegnato
nell'est come comandante di un plotone di 13 soldati e
un gruppo comunicazioni per liquidare gli ultimi focolai
di guerriglia. Una notte di grandi piogge chiese rifugio
nell'accampamento un colonnello dei servizi con una
pattuglia di soldati e alcuni presunti guerriglieri
appena catturati, verdastri e tutti ossa. Verso le 22,
quando Chavez stava per addormentarsi, sentì nella tenda
vicina delle grida strazianti. «Era successo che i
soldati stavano colpendo i prigionieri con delle mazze
di baseball avvolte negli stracci affinché non
restassero segni», raccontò Chavez. Indignato, apostrofò
il colonnello dicendogli che o badava ai prigionieri o
lo avrebbe cacciato, perché non poteva accettare che si
torturasse chiunque nel suo accampamento. «Il giorno
seguente mi minacciarono di deferirmi alla corte
marziale per disobbedienza - raccontò Chavez - ma mi
tennero solo un po' in osservazione».
Pochi giorni dopo fece un'altra esperienza che superò
quelle precedenti. Stava acquistando della carne per la
sua truppa quando un elicottero militare atterrò nel
patio della caserma con un carico di soldati feriti di
brutto in una imboscata della guerriglia. Chavez prese
in braccio un soldato che aveva varie pallottole in
corpo. «Non mi faccia morire, tenente»... gli diceva
terrorizzato. A stento riuscì a metterlo su un carro.
Altri sette morirono. Quella notte, sulla sua amaca,
Chavez si chiedeva: «Perché sto qui? Da una parte
contadini vestiti da soldati torturavano contadini
guerriglieri, dall'altro lato contadini guerriglieri
ammazzavano contadini con la divisa verde. Quando la
guerra sarà finita non sparerò più nessun colpo contro
nessuno». E concluse, nell'aereo che ci portava a
Caracas: «Quello fu il mio primo conflitto esistenziale.
Avevamo formato un movimento, ma non ci era chiaro per
cosa». Senza dubbio il dramma terribile fu che quello
che doveva succedere successe e loro non erano
preparati.
Il giorno seguente cominciò a convincersi che il suo
destino era formare un movimento. E lo fece a 23 anni,
con un nome chiarissimo: Esercito bolivariano del popolo
del Venezuela. Suoi membri fondatori: cinque soldati e
lui, col grado di sottotenente. "Con che fine?", gli
chiesi. Molto semplice, rispose: "con la finalità di
prepararci se succede qualcosa". Un anno dopo, già
ufficiale paracadutista in un battaglione blindato a
Maracay, cominciò a cospirare alla grande. Però mi
spiegò che usava la parola cospirazione solo nel senso
figurato di mettere insieme le volontà delle persone in
vista di un compito comune.
Questa era la situazione il 17 dicembre 1982, quando
accadde un episodio inatteso, che Chavez considera
decisivo nella sua vita. Era già capitano nel secondo
reggimento dei paracadutisti e aiutante dei servizi
d'informazione. Quando meno se l'aspettava, il
comandante del reggimento, Angel Manrique, gli disse di
fare un discorso davanti a 1200 uomini, fra ufficiali e
truppa.
All'una del pomeriggio, quando già il battaglione era
schierato nel campo di calcio, il maestro di cerimonie
lo annunciò. «E il discorso?», gli chiese il comandante
vedendolo salire in tribuna senza fogli. «Io non faccio
discorsi scritti», gli rispose Chavez. E cominciò a
improvvisare. Fu un discorso breve, ispirato a Bolivar e
Martì, ma con varie osservazioni personali sulla
situazione di pressione e ingiustizia dell'America
latina a 200 anni dalla sua indipendenza. I militari, i
suoi adepti e quelli che non conoscevano, lo ascoltarono
impassibili. Tra di loro i capitani Feliper Acosta Carle
e Jesus Urdaneta Hernandez, simpatizzanti del suo
movimento. Il comandante della guarnigione, piuttosto
irritato, gli rivolse una censura a voce alta, in modo
che tutti lo sentissero: «Chavez, lei sembra un
politico». «Inteso» gli rispose Chavez.
Felipe Acosta, un gigante di due metri che non sarebbero
riusciti a neutralizzare neanche dieci uomini, si parò
di fronte al comandante e gli disse: «Lei ha equivocato,
comandante. Chavez non è affatto un politico. È un
capitano di quelli di ora, e quando voialtri ascoltate
cose come quelle che ha detto nel suo discorso, ve la
fate sotto».
Allora il colonnello Manrique ordinò l'attenti alla
truppa e disse: «Voglio che sappiate che quello che ha
detto il capitano Chavez era stato autorizzato da me. Io
gli ho ordinato di fare questo discorso, e tutto quello
che detto, anche se non era stato messo per iscritto, me
lo aveva anticipato ieri». Fece una pausa ad effetto, e
concluse con un ordine perentorio: «Niente di tutto
questo deve uscire da qui».
Alla fine, Chavez si ritrovò a trottare con i capitani
Felipe Acosta e Jesus Urdaneta fino a Saman del Guere, a
dieci chilometri di distanza, e lì ripeterono il
giuramento solenne di Simon Bolivar sul Monte Aventino.
«Nel finale, è chiaro, cambiammo qualcosa», mi disse
Chavez. Invece di «quando avremo rotto le catene che ci
opprimono inflitte dal potere spagnolo», dissero: «Fino
a quando non romperemo le catene che ci opprimono e
opprimono il popolo per volontà dei potenti».
Da allora, tutti gli ufficiali che aderivano al
movimento dovevano pronunciare quel giuramento. L'ultima
volta fu durante la campagna elettorale davanti 100.000
persone. Durante quegli anni fecero riunioni clandestine
sempre più numerose, con rappresentanti militari di
tutto il paese. «Per due giorni tenevamo riunioni in
luoghi segreti, analizzando la situazione del paese e
prendendo contatti con gruppi civili amici». «In dieci
anni - mi raccontò Chavez - abbiamo fatto cinque raduni
senza essere scoperti».
A questo punto del racconto, il Presidente rise
maliziosamente e rivelò con un sorriso complice: «Bene,
abbiamo sempre detto che all'inizio eravamo tre. E
invece, ora posso dirlo, in realtà c'era una quarta
persona, la cui identità abbiamo tenuto sempre nascosta
per proteggerla, che non si scoprì neanche il 4
febbraio: era attivo nell'esercito e ha raggiunto il
grado di colonnello. Ma ora siamo nel 1999 e ora posso
rivelare che questo quarto uomo è qui con noi su questo
aereo». Indicò con la mano il quarto uomo seduto su una
poltroncina appartata e disse: «Il colonnello Badull!».
Stando all'idea che il comandante Chavez ha della sua
vita, l'avvenimento culminante fu "El Caracazo", la
sollevacion popolare che devastò Caracas. Era solito
ripetere: «Napoleone disse che una battaglia si decide
in un secondo di ispirazione dello stratega». A partire
da questa convinzione, Chavez sviluppò tre concetti:
primo, il momento storico. Secondo l'attimo strategico.
E infine il secondo tattico. «Eravamo inquieti perché
non volevamo uscire dall'esercito», spiegava Chavez.
«Avevamo formato un movimento ma non avevamo chiaro per
cosa». Senza dubbio il dramma terribile fu che quando
quello che doveva succedere successe, loro non erano
preparati. «In pratica - concluse Chavez - quello che ci
sorprese fu il minuto strategico».
Si riferiva alla sollevazione popolare del 27 febbraio
1989: El Caracazo. Uno dei più sorpresi fu lui stesso.
Carlos Andres Perez era stato eletto presidente a larga
maggioranza, e sembrava inconcepibile che una rivolta
tanto violenta potesse esplodere dopo soli venti giorni.
«La sera del 27 ero diretto all'università dove seguivo
un corso di dottorato; ero rimasto senza benzina e mi
fermai alla caserma Tiuna», raccontava Chávez qualche
minuto prima di atterrare a Caracas. «Vidi molti uomini
che uscivano, e chiesi al colonnello: Dove vanno tutti
quei soldati?».
«C'erano anche quelli dei trasporti, che non erano
minimamente preparati agli scontri, e ancor meno ad
affrontare la guerriglia urbana. Ragazzi spaventati
persino dal fucile che portavano a tracolla. Continuavo
a chiedere: Dove va tutta quella gente? E il colonnello:
Nelle strade, nelle strade. A riportare l'ordine nelle
strade. Mi è stato comandato di reprimere i rivoltosi
con ogni mezzo e lo farò. Gli dico: Ma colonnello, ma
che ordine le hanno dato? E lui: Ascolti, Chávez: è un
ordine, non c'è altro da fare. Accadrà quello che Dio
vorrà».
Chávez ricorda che quella sera era febbricitante per un
attacco di rosolia. Al momento di rimettere in moto la
macchina vide un soldatino che arrivava correndo con il
casco di traverso, il fucile penzoloni, le munizioni che
si sparpagliavano a terra. «Mi fermo, lo chiamo, e lui
sale in macchina: un ragazzino di 18 anni, nervosissimo,
tutto sudato. Gli chiedo: Dove diavolo corri? E lui:
Sono rimasto indietro... Il mio plotone è là, su quel
camion che si sta allontanando. Mi aiuti a raggiungerlo,
maggiore! Io raggiungo il camion e chiedo all'ufficiale:
Dove siete diretti? E lui: Non ne sappiamo nulla. Non lo
sa nessuno».
Chávez riprende fiato e prosegue quasi gridando, come
soffocato al ricordo dell'angoscia di quella terribile
notte: Ti rendi conto: tutti quei soldati in preda al
panico! Li mandano per strada con un fucile e
cinquecento cartucce. Hanno scialato, tirato a volontà,
su qualunque cosa si muovesse. Hanno crivellato di colpi
le strade, i quartieri popolari, le baraccopoli. Un
disastro. Migliaia di morti e fra di essi anche Felipe
Acosta. «E l'istinto mi dice che lo mandarono ad
ammazzare», dice Chavez. «Fu il minuto che attendevamo
per agire». Detto e fatto: da quel momento cominciò a
organizzarsi il golpe che tre anni dopo gli andò male.
L'aereo atterrò a Caracas alle 3 del mattino. Dal
finestrino vidi la nebbiolina luminosa di quella città
indimenticabile in cui ho vissuto tre anni cruciali per
il Venezuela, ma anche per la mia vita. Il presidente si
congedò col suo abbraccio caraibico e un invito
esplicito: «Ci vediamo qui il 2 febbraio». Mentre si
allontanava accompagnato da alcuni di quei militari suoi
compagni e amici della prima ora, mi venne l'impressione
di aver viaggiato e conversato con due uomini opposti.
Uno a cui la sorte aveva offerto l'opportunità di
salvare il suo paese. E l'altro, un illusionista, che
potrebbe passare alla storia come un despota.
Gabriel García Márquez
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