2013, altro che i Maya

 

 

3.01.2013 - Ignacio Ramonet (L’autore è direttore dell’edizione spagnola di Le monde diplomatique) www.ilmanifesto.it Traduzione a cura di www.democraziakmzero.org

 

 

Dopo che siamo scampati – lo scorso 21 dicembre – alla annunciata fine del mondo, non ci resta ora che cercare di prevedere – con ragionamenti prudenti ma più cartesiani – il nostro futuro immediato. Basandoci sui principi della geopolitica, una disciplina che permette di comprendere il gioco complessivo delle potenze e di valutare i principali rischi e pericoli. Per anticipare, come su una scacchiera, le mosse di ogni potenziale avversario.

Se guardiamo, in questo inizio d’anno, una mappa del pianeta, immediatamente notiamo vari punti con luci rosse accese. Quattro di essi presentano alti livelli di rischio: Europa, America latina, Medio Oriente e Asia.

Nell’Unione europea, l’anno 2013 sarà il peggiore dall’inizio della crisi. L’austerità come unico credo e i colpi di scure sullo stato sociale continueranno, perché questo esige la Germania che, per la prima volta nella storia, domina l’Europa e la dirige con mano di ferro. Berlino non accetterà alcuna modifica fino alle elezioni del 22 settembre, in cui il Cancelliere Angela Merkel potrebbe essere eletta per un terzo mandato.

In Spagna, le tensioni politiche aumenteranno man mano che la Generalitat de Cataluña andrà precisando i termini della consultazione sul futuro di questa Comunità Autonoma. Processo che, da Euskadi, i nazionalisti baschi seguiranno con grande interesse. Per quanto riguarda la situazione economica, già pessima, dipenderà da ciò che accade… in Italia alle prossime elezioni (in febbraio). E dalle reazioni dei mercati ad una eventuale vittoria del conservatore Mario Monti (che ha il sostegno di Berlino e del Vaticano) o del candidato di centrosinistra Pier Luigi Bersani, in una posizione migliore nei sondaggi. Inoltre dipenderà dalle condizioni (certamente brutali) che Bruxelles esigerà per l’aiuto che Mariano Rajoy finirà per chiedere. Per non parlare delle proteste continuano a diffondersi come la benzina e che finirà per venire a contatto con un fiammifero acceso… Esplosioni potranno verificarsi in una qualsiasi delle società del Sud Europa (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna) esasperate dalle bastonature sociali permanenti. L’Unione europea non uscirà dal tunnel nel 2013, e tutto potrebbe peggiorare se, in più,i mercati decidessero di attaccare (come neoliberisti li stanno incoraggiando a fare) con la Francia del molto moderato socialista François Hollande.

Anche in America latina l’anno 2013 è pieno di sfide. In primo luogo in Venezuela, paese che dal 1999 svolge un ruolo chiave nei cambiamenti progressisti in tutto il subcontinente. La ricaduta inaspettata nella
malattia del presidente Hugo Chávez – rieletto lo scorso 7 ottobre – crea incertezza. Anche se il presidente si sta riprendendo dalla sua nuova operazione per il cancro, non possono essere escluse nuove elezioni presidenziali nel mese di febbraio. Nominato da Chávez, il candidato della rivoluzione bolivariana sarebbe il vicepresidente attuale (equivalente al primo ministro) Nicolas Maduro, un leader molto forte, con tutte le qualità, umane e politiche, necessarie per imporsi.

Ci saranno anche le elezioni del 17 febbraio in Ecuador: la rielezione del presidente Rafael Correa, un altro importante leader latinoamericano, non è in dubbio. Elezioni importanti, il 10 novembre, anche in Honduras, dove, il 28 giugno 2009, è stato spodestato Manuel Zelaya. Il suo successore, Porfirio Lobo, non può correre per un secondo mandato consecutivo. In cambio,il Tribunal Supremo Electoral ha autorizzato la registrazione del Partido Libertad y Refundación (Libre), guidato dall’ex presidente Zelaya, che presenta, come candidata, sua moglie ed ex first lady Xiomara Castro. Altrettanto importanti le elezioni in Cile, il 17 novembre. Qui, l’impopolarità attuale del presidente conservatore Sebastián Piñera offre possibilità di vittoria alla socialista Michelle Bachelet.

L’attenzione internazionale sarà inoltre concentrata su Cuba. Per due ragioni. Perché continuano i colloqui, all’Avana, tra il
governo colombiano e i ribelli delle FARC: si cerca di porre fine all’ultimo conflitto armato in America latina. E perché decisioni si aspettano da Washington. Nelle elezioni degli Stati Uniti del 6 novembre scorso, Barack Obama ha vinto in Florida: ha ottenuto il 75% dei voti ispanici e – molto importante – il 53% del voto cubano. Risultati che danno il presidente, nel suo ultimo mandato, un ampio margine di manovra per avvicinarsi alla fine del blocco economico e commerciale dell’isola.

Dove niente sembra muoversi è, ancora una volta, nel Vicino Oriente. Lì si trova l’attuale focolaio di pericolo del mondo. Le rivolte della “primavera araba” sono riuscite a rovesciare vari dittatori locali: Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia. Ma le elezioni libere hanno permesso che i partiti islamisti di ispirazione reazionaria (i Fratelli musulmani) conquistassero il potere. Ora vogliono, come stiamo vedendo in Egitto, conservarlo a tutti i costi. Per lo sgomento della popolazione laica che, essendo statala prima a ribellarsi, rifiuta di accettare questa nuova forma di autoritarismo. Identico problema in Tunisia.

Dopo aver seguito con interesse le esplosioni di libertà nella primavera del 2011 in questa regione, le società europee si stanno di nuovo disinteressando di ciò che accade. Pare troppo complicato. Un esempio: la inestricabile guerra civile in Siria. Dove ciò che è chiaro è che le grandi potenze occidentali (Stati Uniti, Regno Unito, Francia), alleate con Arabia Saudita, Qatar e Turchia, hanno deciso di appoggiare (con soldi, armi e istruttori) l’insurrezione islamista sunnita. Che, sui diversi fronti, continua a guadagnare terreno. Quanto a lungo resisterà il governo di Bashar El Assad? Il suo destino sembra segnato. Russia e Cina, i suoi alleati diplomatici, non daranno il via libera, alle Nazioni Unite, a un attacco della Nato come in Libia nel 2011. Ma sia Mosca che Pechino ritengono che la situazione del regime di Damasco è militarmente irreversibile, e hanno cominciato a negoziare con Washington una soluzione al conflitto che preservi i loro interessi.

Di fronte all’ “asse sciita” (Hezbollah libanese, Siria, Iran), Gli Stati uniti hanno costituito in questa regione un ampio “asse sunnita” (da Turchia e Arabia Saudita fino al Marocco passando per Il Cairo, Tripoli e Tunisi). Obiettivo: rovesciare Bashar El Assad, e quindi privare Teheran del suo principale alleato regionale, prima della prossima primavera. Perché? Perché si svolgono, il 14 giugno, le elezioni presidenziali in Iran. Alle quali Mahmoud Ahmadinejad, l’attuale presidente, non può presentarsi perché la Costituzione non consente più di due mandati. Vale a dire che, per i prossimi sei mesi, l’Iran si troverà immerso in una violenta contesa elettorale tra i sostenitori di una linea dura nei confronti di Washington e quelli che difendono il cammino del negoziato.

Di fronte a questa situazione di sicura incertezza nel governo dell’Iran, Israele in cambio starà preparando un eventuale attacco alle strutture nucleari iraniane. Nello stato ebraico, in effetti, le elezioni generali del 22 gennaio vedranno probabilmente la vittoria della coalizione ultraconservatrice, che rafforzerà il primo ministro Benjamin Netanyahu, sostenitore di un bombardamento dell’Iran il più presto possibile.

Questo attacco non può avere luogo senza la partecipazione militare statunitense. Lo accetterà Washington? È poco probabile. Barack Obama, che si insedierà il 21 gennaio, si sente più sicuro dopo la sua rielezione. Sa che la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica statunitense non desidera più guerre. Il fronte dell’Afghanistan resta aperto. Quello della Siria anche. E un altro potrebbe aprirsi nel nord del Mali. Il nuovo Segretario di Stato, John Kerry, avrà il delicato compito di calmare l’alleato israeliano.


Nel frattempo, Obama guarda verso l’Asia, area prioritaria da quando Washington ha deciso il riorientamento strategico della sua politica estera. Gli Stati Uniti cercano di frenare l’espansione della Cina circondandola con basi militari e appoggiandosi nel contempo sui suoi partner tradizionali: Giappone, Sud Corea, Taiwan. Significativamente, il primo viaggio di Barack Obama dopo la sua rielezione, il 6 novembre, è stato in Birmania, Cambogia e Thailandia, tre stati della Associazione delle Nazioni del sudest asiatico (Asean). Un’organizzazione che riunisce gli alleati di Washington nella regione e la maggior parte dei cui membri hanno problemi di confini marittimi con Pechino.

I mari della Cina sono diventati le aree di maggiore potenziale di conflitto armato dell’area Asia-Pacifico. Le tensioni tra Pechino e Tokyo, per quanto riguarda la sovranità delle isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi), potrebbero aggravarsi dopo la vittoria elettorale, il 16 dicembre, del Partito liberaldemocratico (Ldp), il cui leader e nuovo primo ministro Shinzo Abe, è un “falco” nazionalista conosciuto per le sue critiche alla Cina. Anche la disputa con il Vietnam sulla proprietà delle isole Spratly sta aumentando pericolosamente di tono. Soprattutto dopo che le autorità vietnamite hanno ufficialmente posto lo scorso giugno l’arcipelago sotto la loro sovranità.

La Cina sta modernizzando a tutta velocità la sua marina. Il 25 settembre scorso ha varato la sua prima portaerei, la Liaoning, con l’intenzione di intimidire i suoi vicini. Pechino sopporta sempre meno la presenza militare degli Stati Uniti in Asia. Tra i due giganti si sta creando una pericolosa “sfiducia strategica” che, senza dubbio, segnerà la politica internazionale del secolo XXI.