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Carlos
Manuel de Céspedes del Castillo
“Morto potranno prendermi,
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27.02.2013 - www.granma.cu
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Nell’intrico della Sierra Maestra, sulla riva destra di un braccio del fiume Contramaestre, si trovava la prefettura di San Lorenzo, che disponeva solo di un ridotto numero di uomini per i servizi e la vigilanza. Li avevano trovato rifugio alcune famiglie contadine.
La vita era dura, ma godevano di un gran privilegio. Tra loro viveva l’uomo che con un gesto aveva rotto due gioghi ignominiosi: quello della colonia e quello della schiavitù.
Era stato il primo Presidente della Repubblica di Cuba in armi.
Deposto dalla Camera dopo cinque anni nei quali aveva provato il suo patriottismo e la sua abnegazione, quell’uomo eminente che aveva conosciuto l’eleganza raffinata della cultura in viaggi di studio e di piacere in Europa, accettò la decisione dei suoi concittadini e si ritirò con l’umiltà commovente di chi ha compiuto il suo dovere nel bohío che doveva essere la sua ultima casa. Come scorta e seguito aveva un figlio e un cognato, solamente.
“La mia casetta è abbastanza grande, di foglie di palma, ma ben costruita con buon legname; ha due stanze grandi, foderate di tavole di palma e cedro”, scriveva a sua moglie.
“Nella mia stanza ho l’amaca, un tavolino-scrivania, una piccola sedia per lui, sempre in cedro. Le mie valige, le armi, utensili”.
Dato che aveva passato l’infanzia nella campagna ed era cresciuto traversando fiumi, penetrando boschi e scalando montagne, la vita in campagna gli era non solo familiare, ma anche cara.
E quell’uomo affezionato ai libri e per il quale l’azione fisica e spirituale erano una necessità organica, divenne maestro dei suoi vicini, perchè per fare uomini liberi davvero, si deve liberarli dall’ignoranza.
In questo compiva questo impegno con la stessa gravità che aveva messo nelle funzioni presidenziali.
“Sono rari quei giorni in cui non facciamo o non riceviamo visite. Tutto il vicinato ci dimostra molto affetto”, scrisse.
Venerazione, sicuramente, era quella che ispirava ai cubani, e paura, anche dal suo insicuro ritiro, a coloro che aveva sfidato.
Per questo gli spagnoli cercarono il suo rifugio, schivando le sentinelle di Lacret Morlot, e giunsero a quell’insediamento.
C’era solo lui, che aveva provocato la Rivoluzione di Yara. Andava verso una casa vicina. Quattro anni prima aveva terminato la sua ultima lettera alla moglie, iniziata nell’11, in cui le diceva : “Anche se sono uomo e come tale esposto a tutte debolezze dell’umanità, farò i maggiori sforzi perchè se il mondo, come tu dici, ha la vista fissa su di me - ma io lo dubito- non si possa vituperare nulla da nessun aspetto. Non so se ci riuscirò, ma mi si deve concedere un merito per questo tentativo”.
Quando uscì dal bohío, il Padre della Patria, si rese conto che era circondato dai nemici e si difese eroicamente.
Come aveva assicurato una volta: “Io non so come morirò, se avrò la disgrazia d’essere fatto prigioniero. Quello che posso assicurare è che prego Dio che mi dia il coraggio sufficiente per morire con la dignità con cui deve morire un cubano. Anche se credo che in questa caso non accadrà, nel mio revolver ci sono sei pallottole, cinque per gli spagnoli e una per me. Morto potranno prendermi, ma prigioniero mai!"
Poté sparare solo due colpi del suo revolver ed il suo corpo ferito, come disse Sanguily, “cadde in un dirupo come un sole in fiamme”.
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