Editoriale di G. Minà sul nuovo Latinoamerica n. 122-123 in vendita nelle librerie Feltrinelli, in quelle indipendenti e nel nostro negozio on line www.gmeshop.it
Fra aprile e maggio, l’informazione ha avuto il suo palcoscenico continentale al Festival del giornalismo di Perugia e a Londra, epicentro della Giornata mondiale per la libertà di stampa. Due iniziative degne di ogni rispetto se, proprio nel loro modo di essere programmate e offerte all’opinione pubblica occidentale, non fosse palese l’incapacità di non essere di parte, la malafede di saper giudicare solo in base al punto di vista del nord del mondo, spesso nutrito da un’assoluta carenza di notizie. Come succedeva negli anni 80, ai tempi delle carneficine di Ríos Montt in Guatemala, commesse, quasi sempre, con la benedizione degli Stati Uniti
La Stampa di Torino che, unica in Italia, ha deciso
di dedicare un inserto al problema, sollecitata
dalla sparizione in Siria del suo inviato Domenico
Quirico, il 3 maggio ha scelto, per esempio, con
molto realismo il titolo “Quella libertà di stampa
diversa a ogni latitudine”, dimenticandosi però che,
solo pochi giorni prima al festival di Perugia, la
sua bandiera sull’argomento era stata la bloguera
cubana Yoani Sánchez che, come ha rivelato Wikileaks
in uno dei tanti documenti dirompenti per la
politica occidentale resi pubblici, lavorava di
concerto con l’ufficio di interessi degli Stati
Uniti a Cuba, e continua a farlo.
Ora, ognuno ha il diritto di lavorare per chi vuole,
anche per il discutibile apparato che costringe il
suo paese a vivere da mezzo secolo condizionato da
un immorale embargo, ma certo non può essere
credibile se afferma di fare informazione e magari
viene presentato come vittima di una mancanza di
libertà di stampa.
Così al direttore de La Stampa Mario Calabresi,
maestro di cerimonie della Sánchez a Perugia, mi
viene da chiedere – come ho già fatto altre volte su
Latinoamerica – se è eticamente accettabile che una
superpotenza cerchi da decenni con ogni mezzo
[perfino il ter-rorismo] di sovvertire il sistema
politico di un altro paese più piccolo, solo perché
questo ha scelto un modello di società che non piace
e non conviene alla stessa superpotenza. Gli vorrei
chiedere anche se è accettabile che questa
prepotenza venga avallata da chi si dice
“dissidente” ma in realtà ha scelto di farsi
comprare. A parti invertite, chi facesse questa
scelta sarebbe negli Stati Uniti condannato a
decenni di galera per alto tradimento. Ma nel mondo
che si autodefinisce democratico i giornalisti non
sentono neanche lontanamente questa contraddizione e
questa immoralità. Non li toccano le informazioni
fantasiose e le invenzioni su Cuba sparate
ciclicamente dal quotidiano spagnolo El País,
portavoce dell’informazione più eversiva
dell’America Latina progressista, o dal Miami
Herald e dalla sua versione in lingua spagnola, El
Nuevo Herald, sempre molto vicini alla parte
reazionaria dell’esilio cubano. Non li ha
impressionati, nel 2006, nell’era Bush, nemmeno la
notizia che dieci giornalisti della Florida e non
erano stati pagati da agenzie del Dipartimento di
stato americano [Usaid, Ned eccetera] per produrre
informazione falsa riguardo o contro Cuba. Gli
editori dovettero sospendere questi campioni di
onestà, e dare il benservito perfino a Pablo Alonso,
editorialista di tutta l’informazione dell’Herald
sull’isola della Revolución [pagato con 250mila
dollari “dei contribuenti Usa”, come sottolineò Noam
Chomsky, il guru del Mit di Boston]. Ma ben presto
gli stessi editori dovettero rimangiarsi questa
scelta bizzarra e fuori dalla linea che aveva sempre
caratterizzato i loro atteggiamenti. La politica
sporca aveva inevitabilmente avuto il sopravvento
sulla morale e i cronisti sospesi erano stati
reintegrati.
La campagna orchestrata da questi campioni di
giornalismo era cominciata da lontano, proprio
quando, nel ‘96, erano stati rinviati a giudizio a
Miami i cinque agenti dell’intelligence cubana che
avevano smascherato il terrorismo organizzato in
Florida e messo in atto a Cuba, un’attività che
aveva prodotto negli anni più di tremila morti. In
una furiosa campagna di discredito verso di loro e
al servizio dei terroristi della Florida, in 194
giorni el Nuevo Herald era arrivato a pubblicare 806
articoli che potevano influenzare negativamente il
processo in questione, e il Miami Herald 305.
Il fatto è che, da sempre, quasi tutta
l’informazione su Cuba è fasulla o drogata, come non
succede a nessun altro paese al mondo perché, con
tutti i suoi limiti ed errori, la Revolución ha
smentito il progetto neoliberista che gli Stati
Uniti avevano riservato all’America latina, e ha
influenzato molti dei processi di cambio sociale in
atto in questi ultimi anni nel continente a sud del
Texas.
Così, quando arriva da noi un personaggio come Yoani
Sánchez, costruito dalle agenzie della Cia, perdipiù
scortato dal direttore de La Stampa, il cronista
italiano, che sa magari di blog e di social network,
ma quasi niente di cosa sta avvenendo nel sud del
mondo, in particolare in America latina, può anche
scegliere un titolo negativo per lo show della
bloguera, come il Corriere della sera che ha optato
per uno sgarbato “Dollari e fischi a Perugia contro
Yoani Sánchez”, salvo poi a dare su Yoani notizie
che sono più propaganda che descrizione e che non
spiegano certo perché nel suo giro del mondo in 80
giorni [a proposito, chi ha pagato?] ha subito
diverse contestazioni, come a Bahia o a New York,
dove sono arrivati a investirla con questo tono
perentorio “Quanto ti paga la Cia?”. I direttori dei
media italiani e quei pochi colleghi che ancora
viaggiano per il mondo, tutto questo lo sanno,
perché le fonti sono le stesse che consulto io, ma
la verità loro, in questo giornalismo al tramonto,
proprio non riescono a dirla. La prova di questo non
riuscire a dire la verità su Cuba, di questa “timi-
dezza” abbastanza comica ma inquietante, l’abbiamo
avuta proprio due anni fa, quando Wikileaks ha
“sputtanato” anche la corrispondenza fra l’ufficio
di interessi degli Stati Uniti a l’Avana, allora
diretto da Jonathan Farrar, e il Dipartimento di
stato Usa diretto da Hillary Clinton.
Improvvisamente il mondo mediatico, dove ogni giorno
non manca mai una cattiveria contro Cuba, ha
incominciato a eludere i fatti. Per i nostri
colleghi distratti riassumerò soltanto che Farrar ha
dovuto rivelare che le famose domande di Yoani
Sánchez al presidente Obama le aveva scritte lui e
non avevano mai avuto risposta dalla Casa Bianca, e
che quelle a Raul Castro non erano mai esistite. C’è
un cablo emblematico in queso senso, spedito da
Farrar e intitolato “Questions from Yoani Sánchez to
POTUS”, dove si scopre che POTUS, nel burocratese
nordamericano è l’acronimo di President of the
United States. Il cablo chiedeva di approvare le
risposte e farle circolare come aiuto alla
credibilità della bloguera cubana.
Una fiducia evidentemente mal riposta, perché la
Sánchez, che aveva annunciato ai quattro venti di
aver mandato le domande anche al presidente cubano
Raul Castro e lo aveva bacchettato per non essere
stato capace di rispondere, ha dovuto candidamente
confessare a Farrar che no, le domande a Raul Castro
non le aveva mai inviate, pur avendo dichiarato, il
20 novembre 2009, casualmente proprio al Nuevo
Herald, di essere orgogliosa del “significato
giornalistico” di tutta questa operazione. Ma a
quali maestri della comunicazione si rifà la Sánchez?
In tutta questa costruzione la storia diventa ancor
più grottesca se si considera che, alcuni mesi dopo,
Farrar ha scritto altri messaggi ai suoi superiori
del Dipartimento di stato di Washington che – come
abbiamo sottolineato nel numero 114/115 di
Latinoamerica – si possono riassumere così:
“Dissidenti storici inaffidabili, noti solo
all’estero. Noi li paghiamo ma non servono a nulla,
non hanno nessuna influenza sulla vita dell’isola.
Credo che sia conveniente puntare di più su Yoani
Sánchez”.
Per questa franchezza, non gradita ai congressisti e
ai senatori eletti in Florida, Farrar si è giocato
la possibilità di diventare ambasciatore in
Nicaragua ed è stato assegnato a Panama. Il suo
posto a l’Avana è stato preso da John Caulfield. I
giornalisti “esperti” di Cuba, invece, hanno ancora
una volta perso l’occasione di risultare credibili.
Hanno completamente ignorato, a cominciare da El
País e dal suo corrispondente a l’Avana da
vent’anni, Mauricio Vicent [quello a cui non è stato
rinnovato il visto a Cuba], questa storia
indiscutibile che abbiamo ricostruito grazie a
Wikileaks.
Ma, da vecchio giornalista che ha vissuto con il
culto della propria professione e ha pagato un
prezzo per questo, vorrei chiedere a quei colleghi
che, parlando di democrazia, si autodefiniscono
riformisti: “Che ci faceva una lista di domande da
proporre al presidente cubano Raul Castro in un
cablogramma della rappresentanza diplomatica degli
Stati Uniti a l’Avana? E Yoani Sánchez, omaggiata da
un’istituzione nordamericana per ‘eccellenza
giornalistica’, non ha sentito il disagio di questa
situazione? Possiamo definire questo giornalismo
‘indipendente’? E quali risultati vogliono
raggiungere l’Editorial Prisa e El País appoggiando
questa mistificazione del giornalismo?”
Mi piacerebbe commentare questa vicenda con i
colleghi de La Stampa e di Internazionale che,
malgrado queste storie non esaltanti di truffe
giornalistiche realizzate dai paesi più potenti per
confondere e pilotare l’opinione pubblica,
continuano a dare uno spazio fisso al cattivo umore
della bloguera cubana, che denuncia, come fosse una
prerogativa del suo paese, quel malessere, quelle
frustrazioni del mondo moderno che oltretutto,
ultimamente, sono più usuali nelle tanto sognate
società dei consumi. Perché a Yoani sì e alle decine
di giornalisti, perseguitati e assassinati ogni
giorno in Messico, no?
In questo numero 122/123 di Latinoamerica
pubblichiamo, proprio all’inizio, l’agghiacciante
rapporto 2012 della commissione investigativa della
Federazione latinoamericana dei giornalisti [Ciap-Felap].
I colleghi assassinati in varie nazioni del
continente sono 45. Non solo nel Messico devastato
dalla guerra contro i cartelli della droga, voluta
dagli Usa e già persa dal governo locale, ma anche
nello sterminato Brasile dei 200 milioni di abitanti
alla ricerca di un riscatto, e nel piccolo Honduras,
che dopo il colpo di stato del 2009 sostenuto dagli
Stati Uniti, ha visto diventare un’abitudine
l’eliminazione di cronisti coraggiosi e
controcorrente.
Mi domando perché quello che ha da raccontare Yoani
Sánchez sia più impellente e importante di questa
carneficina di giornalisti. Perché il Festival di
Perugia non ha provato a contattare qualcuno di
questi colleghi per ora sopravvissuti, che ha
commesso solo il peccato di cercare di capire in
nome di che cosa l’economia neoliberale, quella
presuntamente vincente, pretende questi martirii
quotidiani?
Al festival di Perugia, Mario Calabresi, direttore
de La Stampa, dopo un po’ di trambusto con una parte
degli spettatori in sala, ha sottolineato che le
domande a Yoani Sánchez le avrebbe fatte solo lui.
Un modo davvero liberale. Gli interrogativi, in
fondo, non erano tanti, e molti dubbi, fra i
presenti in sala, combaciavano. Ma non c’è stato
verso. Così, quella che segue è proprio una
selezione delle cose che vorrebbe sapere da Yoani
chi si occupa davvero dell’in- formazione su Cuba ed
è incuriosito sul suo mestiere di dissidente.
LE DOMANDE NON FATTE A YOANI SANCHEZ
1) Nello scorso novembre, per la 21a volta di seguito, l’Assemblea delle nazioni Unite (188 paesi che rappresentano il 96% della popolazione mondiale) hanno condannato l’embargo Usa a Cuba che dura da mezzo secolo. Lei che posizione ha su questa prepotenza?
2) A un certo momento della sua vita, lei ha deciso
di collaborare con l’Ufficio di interessi degli
Stati Uniti a Cuba, addirittura inventando la storia
che il presidente Obama aveva risposto a 7 domande
da lei proposte anche al presidente cubano Raul
Castro. Qualche tempo dopo l’incaricato d’affari
nordamericano all’Avana, Jonathan Farrar, ha dovuto
ammettere che era stato lui a montare questo
presunto scoop per il quale egli stesso aveva
inventato le domande. A Raul Castro le domande non
erano mai state inviate. Obama non aveva mai speso
una parola sull’argomento. Perché lei si presta a
questo tipo di operazioni? E le sembra un
comportamento corretto?
3) Dal direttore Calabresi vorrei invece sapere
perché la notizia della bufala che abbiamo appena
segnalato (nonostante sia stata resa nota dai
documenti diffusi da Wikileaks) non è stata mai
pubblicata su La Stampa e anche dal resto dei media
italiani?
4) Signora Sanchez, 5 agenti dell’intelligence
cubana che hanno smascherato le centrali
terroristiche che, dalla Florida, mettevano in atto
attentati contro il suo Paese, sono da anni
carcerati, dopo un processo farsa a Miami. E questo
malgrado la Corte d’appello di Atlanta abbia messo
in discussione quel verdetto e funzionari e militari
del governo degli Stati Uniti abbiano testimoniato
che i cinque cubani non hanno mai nuociuto alla
sicurezza degli Stati Uniti. Perché lei invece
afferma che i 5 cubani sono delle spie e basta?
5) Lei afferma che le sue battaglie sono per la
libertà d’informazione e di critica. Sicuramente
saprà che per far conoscere la storia dei Cinque
cubani, alcuni intellettuali fra i quali Noam
Chomsky, l’ex ministro della giustizia Usa Ramsey
Clark, il Premio Nobel per la pace Rigoberta Menchù
e il vescovo protestante di Detroit Thomas
Gumbleton, hanno dovuto fare una colletta e
comprare, con 60mila dollari, una pagina del New
York Times, riluttante a rendere nota questa
vergognosa vicenda. Non ha mai dei dubbi quando
parla di libertà di stampa nel mondo occidentale?
6) Come lei sa, per la mediazione della Chiesa
cattolica e dell’ex ministro degli Esteri spagnolo
Moratinos, tutti gli oppositori condannati negli
ultimi anni dalla giustizia cubana sono stati
liberati e dopo il rifiuto degli Stati Uniti ad
accoglierli, hanno scelto tutti di andare in Spagna.
Purtroppo però il capitalismo e il mercato hanno
delle leggi ferree e dopo un anno, causa la crisi
economica, la Spagna del governo Rajoy ha dovuto
sospendere gli aiuti per loro, che hanno protestato
in piazza ma hanno dovuto subire anche la durezza
delle manganellate della polizia spagnola. Ora molti
vogliono ritornare a Cuba. Lei che ne pensa?
7) A quello che sappiamo, nel 2002, anche lei ha
deciso di rientrare a Cuba dalla Svizzera dove
abitava e dove viveva con il suo primo marito. Cosa
la spinse a questa decisione?
8) Il suo atteggiamento antisistema le ha fruttato
in 3 anni più di 250mila dollari di premi
internazionali. Forse la professione del dissidente
è più conveniente di quella di giornalista nel mondo
occidentale?
9) Chi si nasconde dietro al suo sito desdecuba.net
il cui server ha base in Germania nell’impresa
Cronos Ag Regensburg ed è registrato a nome di Josef
Biechele, che tra l’altro ospita anche siti
neonazisti? Le faccio questa domanda perché il
server in questione dispone di una banda 60 volte
superiore a quella dell’intera rete cubana.
10) Come è riuscita a registrare il suo dominio
attraverso l’impresa statunitense Godaddy, vista la
legislazione sulle sanzioni economiche?
LA MALEDIZIONE DEI NAVY SEALS
Nel mondo della presunta libertà di stampa occidentale, in Italia ha trovato eco soltanto in un articolo di Vittorio Zucconi su La Repubblica la cosiddetta “maledizione dei Navy Seals” [Sea, Air and Land forces], il corpo speciale di 2.500 uomini e donne [ma il totale vero è sconosciuto], assaltatori di mare, cielo e terra come vuole il loro acronimo. Un plotone di questo corpo speciale è stato nel 2011 il protagonista della cattura e dell’esecuzione di bin Laden, trucidato davanti alla sua famiglia e poi gettato dal ponte della portaerei Vinson e disperso nell’oceano Indiano.
Ma ora, a due anni da quel feroce accadimento,
succede che gli eventi, il destino [e speriamo sia
veramente il destino], stanno decimando i componenti
di quel commando che agì ad Abbottabad in Pakistan,
dove il terrorista più ricercato del mondo si
nascondeva.
In Afghanistan, appena tre mesi dopo il blitz contro
bin Laden, era precipitato [guasto o razzo talebano,
ancora non è stato chiarito] un elicottero Chinook
che trasportava 22 di quei Seals. Quei 22 sapevano
bene [come i sovietici trent’anni orsono] che volare
a bassa quota nelle valli afghane, sballottati da
correnti ed esposti al tirassegno dei lanciarazzi,
era un grandissimo rischio. Ma tutti facevano parte
di quel “Team 6”, creato negli anni della guerra
fredda con un falso numero, quel “6” appiccicato per
far credere all’intelligence sovietica che ce ne
fossero almeno altri cinque, che invece non c’erano.
Poi il 2 maggio scorso, proprio nel giorno del
secondo anniversario del raid di Abottabad, un altro
componente della squadra è morto durante un
addestramento, e un altro ancora è rimasto
gravemente ferito.
Non è bastata nemmeno la ricostruzione
cinematografica della regista Katherine Bigelow in
“Zero dark thirty” [cioè “trenta minuti dopo la
mezzanotte” nello slang militare Usa] a placare i
dubbi e le anime dei viventi e dei pochi che hanno
parlato dopo aver partecipato all’operazione.
Matt Bissonette, che il 2 maggio 2011 fu [almeno
secondo quanto sostiene nel suo libro “Una giornata
non facile”] uno dei tre che entrarono nella stanza
in cui stava Osama, avvolto nel suo ampio pigiama
con 500 dollari cuciti nella fodera, giura di essere
stato lui a centrarlo alla testa con due colpi della
sua carabina automatica prima che fosse finito con
tre pallottole al petto da un altro Seal, che ha
mantenuto l’anonimato in un intervista a volto
coperto concessa allo specialista di terrorismo
della Cnn Peter Bergen, e che ha tenuto a
sottolineare che tutte le altre ricostruzioni
circolanti erano “bullshit”, cazzate.
Ma dalla sua modesta casupola si è materializzato un
terzo testimone dell’evento, con un racconto
diverso. È un ex Seals indicato semplicemente come
“the shooter”, lo sparatore, che ha spiegato alla
rivista Esquire, in una lunga intervista, di essere
stato lui, e non Bissonette o l’anonimo intervistato
dalla Cnn, a sparare i colpi che hanno freddato bin
Laden. L’uomo, come in un vero noir, ha confessato
di essere stato abbandonato e di essere
completamente in miseria, dimenticato e senza
lavoro, con moglie e figlia da mantenere e da
curare. Bissonette, che di tutta questa storia delle
rivelazioni sembra essere il deus ex machina,
afferma di conoscere bene the shooter e sostiene che
fu espulso dai Seals quando prese l’abitudine di
fare il giro dei saloon a Virginia Beach, dove il
corpo speciale si addestra nelle operazioni di
sbarco, vantandosi di essere lui e nessun altro ad
aver fatto fuori il nemico pubblico numero uno.
Come sempre, in queste storie che marcano un tempo,
una svolta nell’acquisizione di una verità da
verificare, chi conosce i particolari – come
sottolinea Zucconi – non parla, e chi parla non è
detto conosca la verità.
D’altro canto, l’operazione “Tridente di Nettuno”,
quella della cattura di bin Laden, non fu gestita
dal Pentagono, ma dalla CIA, per farla passare come
azione di spionaggio e non di guerra, insomma per
non dover discutere se una nazione che rispetta i
diritti di tutti deve catturare e sottoporre a
processo anche il più pericoloso dei terroristi, o
se tutte queste sono ciance senza senso, cose “da
democratici”. La decimazione della squadra dei
killer di Osama, più che la “maledizione dei Navy
Seals” sembra la “maledizione dei Kennedy”,
prigioniera di un futuro di ipotesi e scenari e di
complotti forse non dimostrabili ma che, in
definitiva, per storie come questa suggerirebbe di
non esagerare nell’uso di frasi come “diritti umani
violati”. Gli Stati Uniti hanno perso questa
autorità morale.