Dora Salas – https://nostramerica.wordpress.com
Per la prima volta, un partito di destra liberista arriva al potere in Argentina senza l’appoggio di un colpo di stato militare. Mauricio Macri, il nuovo presidente argentino di origini calabresi e leader della coalizione di destra “Cambiemos”, il 22 novembre ha battuto alle presidenziali, in ballottaggio, il peronista Daniel Scioli, di origini molisane. Oggi si insedia ma la presidente uscente Cristina Fernández de Kirchner non partecipa alla cerimonia del nuovo presidente argentino Mauricio Macri.
Sono nata a Buenos Aires dopo la Seconda Guerra Mondiale. La mia famiglia italiana temeva un terzo conflitto armato in Europa e mia madre ripeteva che in Argentina “mia figlia non morirà di fame” perché la terra c’era e si poteva lavorare. Ovviamente, la politica locale non era importante per lei.
E intanto, dal 1930 al 1983 l’Argentina ha subito periodici colpi militari che rovesciavano i diversi governi usciti dalle urne, tranne uno, il primo e mitico del generale Juan Domingo Perón (1946-52) e il suo programma di “giustizia sociale”. Quindi, la mia generazione era abituata ai cosiddetti “governi di fatto”, “rivoluzione liberatrice” e perfino “processo di riorganizzazione nazionale”, che rispondevano ai latifondisti, i “padroni” del grano e la carne, alle multinazionali, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.
Quando questi settori sentivano minimamente minacciati i loro privilegi, i loro interessi, i loro guadagni, bussavano alle porte delle caserme e, con l’appoggio dei partiti politici -tranne quello peronista, proscritto dal 55 al 73- e della gerarchia della chiesa cattolica, i militari si insediavano nella Casa Rosada, sede del’ Esecutivo, chiudevano il Parlamento e, ascoltando gli Stati Uniti e la politica latinoamericana imposta da Washington, il suo “patio trasero”, imponevano il terrore e, naturalmente, il liberismo economico.
In poche parole, per la prima volta in un secolo arriva oggi al governo, democraticamente eletto e non con i carri armati, un partito di destra che risponde agli interessi della classe padronale.
Horacio Verbitsky, il giornalista più lucido dell’Argentina, presidente del Centro de Estudios Legales y Sociales (CELS), che si batte da anni per la difesa dei diritti umani, ha scritto pochi giorni fa: “(…) né il 2016 è il 1976, né Macri è Videla, anche se rappresentino interessi affini ma non identici”.
Si tratta di una questione fondamentale che, mi auguro, sia chiara in un Paese dove ci sono molte ferite ancora aperte, dove 30 mila persone furono sequestrate e assassinate durante l’ultima dittatura (76-83) propriamente detta “cívico-militare”.
Mauricio Macri, il nuovo presidente argentino e leader della coalizione di destra “Cambiemos”, il 22 novembre ha battuto alle presidenziali, in ballottaggio, il peronista Daniel Scioli, del “Frente para la Victoria”, il progetto della presidente uscente, Cristina Fernández de Kirchner. Solo 678.774 voti di differenza tra Macri, 56 anni, di famiglia calabrese, e Daniel Scioli, 58 anni, di origini molisane. O meglio, 51,34% dei voti per “Cambiemos” e 48,66% per il “FPV” che rappresentano 12.988.349 e 12.309.575 voti rispettivamente.
Minima differenza e un Paese diviso tra il peronismo moderato di Scioli, sempre in difficoltà con il kichnerismo (peronismo di sinistra) che ora finisce 12 anni di governo, e il liberale Macri e il suo programma “pro business”.
Però la grande sorpresa non è stato il ballottaggio, ma il primo turno delle presidenziali (25 ottobre) e in particolare il voto nella Regione di Buenos Aires, il fulcro economico del Paese, storicamente peronista e maschilista e governata da Scioli.
Ora, invece, Maria Eugenia Vidal (42 anni) del partito di Macri (“Propuesta Republicana”-PRO-) e la sua coalizione “Cambiemos” (PRO più due forze di centro, il “Partido Radical” e la “Coalición Cívica”) è stata eletta governatore. Un duro colpo per il predecessore Scioli e mortale per le aspirazioni presidenziali del “FPV”.
Infatti, mentre i sondaggi e la classe politica prevedevano il trionfo di Scioli per largo margine e senza ballottaggio, le urne hanno dato cifre impensabili poche ore prima: 37% Scioli, 34% Macri e, naturalmente, secondo turno quindici giorni dopo. Sorpresa, delusione e una domanda: Come mai? Come mai il voto non privilegiava l’era Kirchner (tre governi, 2003-2007 uno di Nestor Kirchner, deceduto nel 2011, e poi due di sua consorte Cristina Fernández), la politica di Memoria Verità e Giustizia sui crimini della dittatura militare? Come mai non si appoggiava la nazionalizzazione delle industrie privatizzate dai governi precedenti, tra le quali Yacimientos Petrolíferos Fiscales, le ferrovie, l’aerolinea di bandiera? O i sussidi ai meno abbienti? O la crescita scientifico-tecnologica? O l’aumento sistematico delle pensioni?
La risposta delle urne è stata il “no” della metà del Paese.
Un’altra risposta arriva da Moody’s due giorni dopo il ballottaggio. Secondo l’agenzia, il governo Macri “aumenterà le probabilità di politiche creditizie, tra le quali la soluzione del contenzioso con i creditori holdout”. Lo stesso giorno, Moody’s porta il rating dei bond argentini da “stabile” a “positivo”.
E se si guarda con attenzione l’elenco dei ministri scelti da Macri il segnale è chiaro: i mercati sono al sicuro con il suo governo. E non solo i mercati. La ministra degli Esteri, Susana Malcorra, era capo gabinetto di Ban Ki-moon alle Nazione Unite e rappresenta per Macri la sicurezza di avere al suo fianco una ministro che conosce bene “l’ agenda internazionale che oggi muove il mondo”.
In questo quadro, si aspetta una forte svalutazione della moneta argentina (il peso) che potrebbe passare da 1-10 a 1-15/17 nel rapporto con il dollaro, aumento dei prodotti di prima necessità (farina, carne), mentre gli organismi difensori dei diritti umani temono eventuali misure contro le politiche portate avanti dal 2003 in poi, in particolare l’archiviazione dei processi contro i responsabili del terrorismo di Stato, il carcere domiciliare per molti condannati oppure la grazia presidenziale.
E mentre i kirchneristi cominciano a parlare di “resistenza” e riprendono un vecchio slogan degli anni ’60 quando Perón si trovava esiliato in Spagna -“lucha y vuelve” (combattere e torna) ora applicato a CFK e il 2019-, Macri punta il dito contro il Venezuela e apre una prima polemica internazionale con Nicolás Maduro.
E c’è pure una polemica interna tra Macri e la presidente uscente sul come, dove e quando si farà l’ insediamento del nuovo governo. E’ stato appena annunciato in modo ufficiale che Cristina Fernández non partecipa alla cerimonia del suo successore. Tra giorni di trattative, accuse e critiche non sono arrivati a un accordo sulla consegna della fascia e il bastone, i simboli del potere. Si dovevano consegnare nel Parlamento, dove il presidente eletto giura la Costituzione o alla Casa di Governo, sede dell’ Esecutivo? CFK voleva il Parlamento, Macri la Rosada. Coinvolti nel dibattito il notaio dello Stato e un tribunale, Oscar Parrilli, segretario della Presidenza kirchnerista, annuncia che mancano “le condizioni perché la presidente sia presente in Parlamento”.
Se questo è l’inizio cosa dobbiamo aspettarci? Forse è arrivato il momento di dire “Piangi per te Argentina”.