Alessandra Riccio https://nostramerica.wordpress.com
Il caso dei circa 10.000 cubani ammassati fra Panama e (soprattutto) Costarica, in attesa di una soluzione che li conduca fino alla frontiera degli Stati Uniti (da attraversare, rigorosamente, a piedi) rivela in maniera lampante che una politica spietata, testarda (e per di più, fallimentare) può creare situazioni paradossali di cui pagano il prezzo non solo persone se non innocenti, certo disinformate, ma anche Nazioni che si trovano a dover affrontare una crisi, non voluta né cercata, che sarebbe improprio chiamare umanitaria visto che i migranti in questione hanno lasciato il loro paese legalmente, a bordo di aerei di linea, ed hanno la possibilità, ove lo volessero, di tornare a Cuba, dove non erano in pericolo le loro vite.
Ma è anche, a mio parere, un caso che rivela le insufficienze, contraddizioni e inefficienze del Presidente Obama, quello stesso giovane, brillante, mulatto, figlio di un immigrato, formatosi in giro per il mondo e assurto, fra un tripudio di folla, alla massima carica del paese più potente del mondo, insignito prematuramente del Premio Nobel per la Pace. Gli anni di Obama hanno rivelato che il super-presidente del super-paese ha poteri molto limitati, che il sistema democratico statunitense è molto carente e che la maggioranza repubblicana può tenere in scacco il Presidente che, tuttavia, governa.
Dalla prima settimana di gennaio, una situazione simile si è verificata in Venezuela dove il Presidente Maduro non ha la maggioranza in Parlamento. Nel suo caso, però, si chiede a gran voce che vada via prima che lo caccino gli oppositori del MUD che a quanto pare è gente che non va tanto per il sottile. Maduro in Venezuela –nell’opinione di molti- resta afferrato al potere contro la volontà del popolo espressa nelle votazioni del 6 dicembre. Nel caso di Obama, non ho mai sentito dire niente del genere. Quando Obama fatica a far passare una legge per la sanità pubblica, se ne elogia il coraggio; quando piange e implora una legge che regoli la vendita di armi, suscita commozione e tenerezza; quando ribadisce che vuole chiudere il centro di tortura e di detenzioni illegali di Guantánamo e non ci riesce, la gente pensa: poverino!. Quando invoca la fine del blocco a Cuba, come ha fatto nel suo recente Discorso sullo Stato della Nazione, tutti esultano senza ricordare che è passato più di un anno dalla riapertura delle relazioni e che poco tempo dopo lo storico annuncio, alle Nazioni Unite, il paese di cui è Presidente ha votato, insieme al solo Israele, contro la fine dell’embargo contro Cuba. Il Senato a maggioranza repubblicana ha il potere di determinare il voto all’ONU più del Presidente? Il Presidente degli Stati Uniti non può agire né sulla Legge de Ajuste Cubano e neanche sul Cuban Medical Professional Parole Program che è addirittura un programma di bushiana memoria e non una legge?
La questione è molto attuale perché, come si sa, da qualche giorno i paesi centroamericani coinvolti nel problema hanno fatto ricorso ad una agenzia specializzata che ha messo a punto un piano per scavalcare il Nicaragua (che ha bloccato le sue frontiere a titolo dimostrativo) e portare i primi 180 cubani fino alla frontiera USA, al modico prezzo di 550 dollari, compreso il vitto e l’assistenza medica. A titolo sperimentale è già partito il primo gruppo: in aereo, con un volo di 1 ora, fino al Salvador, da lì in pullman per 12 ore fino alla frontiera fra Guatemala e Messico, a Tecún Umán. Lì hanno ricevuto un visto messicano valido 20 giorni, il tempo necessario a risalire quel grande paese fino all’ambita “frontera”. Dopo, chissa.
Pare che i cittadini cubani rimasti incastrati nella strozzatura centroamericana, temessero che, a logica, i nuovi rapporti fra USA e Cuba avrebbero reso lettera morta sia la legge di Ajuste che il Medical Parole, nel qual caso, i cittadini cubani si sarebbero visti ridotti a livello di un qualsiasi miserabile migrante salvadoregno, boliviano, guatemalteco o messicano. Hanno fatto di necessità virtù e, pagando profumatamente, hanno preso l’aereo per l’Ecuador (che generosamente aveva abolito il visto per i cubani), si sono affidati a passatori poco scrupolosi che il governo del Costarica ha annientato facilmente, e si sono visti respingere proprio da quel Nicaragua per il quale Cuba si era spesa molto generosamente ai tempi della rivoluzione sandinista. Daniel Ortega ha sbarrato le sue frontiere vuoi perché irritato dal fatto che il Costarica gli stava consegnando una patata bollente, vuoi per far scoppiare la grande contraddizione della politica migratoria degli Stati Uniti. Fatto sta che la montagna ha partorito un topolino: goccia a goccia, centottanta alla volta, i migranti cubani, dopo due mesi passati in ricoveri di fortuna, riprendono un viaggio che comporterebbe poche ore di volo ma che è trasformato in un’odissea a causa degli interessi migratori intrecciati per cui i paesi centroamericani –per lo più obbedienti a Washington- sono tuttavia molto irritati per il trattamento così disuguale fra i loro cittadini e i cubani, soprattutto in questi mesi in cui gli Stati Uniti stanno rimpatriando in maniera molto sbrigativa perfino donne e bambini centroamericani entrati illegalmente in cerca di rifugio o per ricongiungersi alla famiglia.
La situazione è talmente delicata che 146 parlamentari democratici hanno espresso la loro forte condanna per un’operazione del Dipartimento di Sicurezza Nazionale che ha provocato l’arresto di madri e figli centroamericani rifugiati in USA. I parlamentari, compagni di partito, si rivolgono a Obama chiedendo di fermare immediatamente questa operazione e di lavorare insieme agli alleati emisferici per trovare una soluzione umanitaria per questa crisi regionale. Nel suo discorso sullo Stato della Nazione, Obama ha ricordato gli aspetti positivi, aver tirato fuori il paese dalla sua peggiore crisi economica, aver posto fine a due guerre (?), averne evitata (?) una contro l’Iran, aver rinnovato il settore energetico, aver varato la riforma sanitaria, aver promosso i diritti delle donne e della comunità gay ed aver inaugurato una nuova diplomazia internazionale. Ma non ha fatto allusione alle retate che hanno indignato i suoi alleati. Ha però esortato a togliere l’embargo a Cuba e a chiudere il campo di detenzione di Guantánamo (ma non di restituire quella base, illegalmente detenuta).
L’anno scorso, di fronte alla crisi siriana, Obama ebbe la facoltà di aumentare la quota di rifugiati a 85.000, di cui una piccola percentuale riservata ai rifugiati latinoamericani che negli anni precedenti era di 5.000 all’anno, ma secondo l’Ufficio per i Rifugiati e per l’Emigrazione del Dipartimento di Stato, nel 2013 sono stati accettati 4.439 latinoamericani di cui 4.205 cubani e 230 colombiani. E’ noto che vi sono paesi in America Latina dove la vita è molto rischiosa, vuoi per lo strapotere dei narcos, vuoi per la violenza delle “maras”, vuoi per la sussistenza di guerriglie come in Colombia. Ma il paese largamente privilegiato da Washington è la tranquilla Cuba; per gli altri, se gli va bene, c’è un iter burocratico che va dai 18 ai 24 mesi per essere accettati.
Washington mena il can per l’aia; dice che vuole cambiare le sue leggi migratorie, dice che forse sarebbe giusto sospendere il programma Medical Parole, dice che sta rivedendo la totalità dei loro rapporti con Cuba e che la cosa richiede tempo; dice ma non fa o perlomeno va a passo di lumaca. Per le vittime di tutti questi gesti scomposti, di queste prepotenze piccole e grandi, il Presidente Obama non ha lacrime. Un Presidente, lo ripeterò sempre, che ha firmato ogni mattina l’autorizzazione all’uso di un drone assassino, ma non ha le facoltà per abolire, un programma, evitare retate contro donne e bambini, istituire un ponte aereo con il Costarica per portare negli Stati Uniti quei nove mila cubani che da quasi sessant’anni si sono sentiti ripetere che lì avrebbero trovato accoglienza, libertà, soldi e felicità.