di Geraldina Colotti
Un “cane rabbioso” s’aggira per l’America Latina. Un cane da guardia del complesso militare-industriale, che risponde al nome di James Mattis, Segretario alla Difesa nordamericano. “Cane rabbioso” è il soprannome che l’ex generale Mattis si è guadagnato in Afghanistan e in Iraq, dove gli Usa sono andati a esportare il loro modello di “democrazia”. Lo stesso che gradirebbero nuovamente imporre al continente latinoamericano, fidando sull’appoggio di governi tanto subalterni quanto screditati, disposti a rimodernare convenientemente il “cortile di casa”.
Per questo, il viaggio di Mattis ha toccato Brasile, Argentina, Cile, e si è concluso in Colombia. Al centro, la gestione militare delle politiche per “la sicurezza” e della “lotta al narcotraffico”, secondo uno schema che il processo di integrazione sud-sud, impostato dai governi progressisti intorno all’asse Cuba-Venezuela, aveva cercato di scardinare.
Con il ritorno a destra di Brasile e Argentina, gli Usa contano di rieditare la loro Dottrina Monroe, questa volta basata sull’intervento “umanitario” per prevenire “catastrofi” e altri eventi traumatici. Con questo pretesto hanno preso avvio l’anno scorso le esercitazioni militari congiunte nella selva amazzonica brasiliana, denominate Amazonlog.
Un’area in cui si trova la triplice frontiera tra Colombia, Perù e Brasile, a 700 km dal confine con il Venezuela. Manovre a cui partecipano gli eserciti di 16 paesi, agli ordini degli strateghi statunitensi. In un anno sono state effettuate diverse prove, rese più spedite dal cambio di orientamento in corso in Ecuador con l’arrivo al governo di Lenin Moreno.
Per l’Argentina, quella di Mattis è stata la prima visita di un ministro della Difesa statunitense dopo quella realizzata 13 anni fa da Donald Rumsfeld. In Agenda, l’installazione di nuove basi militari Usa e il ritorno a una sovranità limitata che allontani la parentesi del kirchnerismo e il pericolo corso dai “fondi avvoltoio”, che hanno nuovamente indebitato gli argentini per generazioni.
Per il Brasile del golpista Michel Temer, che cerca a ogni costo di scongiurare il ritorno di Lula alla presidenza, la posta in gioco è alta. Insieme a Russia, India, Cina e Sudafrica, il Brasile è parte dei Brics. Per questo, Mattis ha messo in guardia il governo brasiliano dai pericoli che correrebbe dall’intrattenere legami troppo stretti con la Cina e in particolare con la «dipendenza tecnologica ed economica da paesi che non hanno la nostra stessa concezione della democrazia». Mattis ha lodato l’atteggiamento del governo Temer nei confronti del «regime oppressore» del presidente venezuelano Nicolás Maduro.
Per il “cane rabbioso”, l’accerchiamento del governo bolivariano sia sul piano economico che militare è stato uno dei temi dominanti del viaggio. L’obiettivo è anche quello di consolidare il Gruppo di Lima, che agisce di concerto con l’Osa di Luis Almagro per favorire la sovversione in Venezuela. Da Almagro hanno avuto sostegno i deputati delle destre che, come Julio Borges o Antonio Ledezma, sono fuggiti all’estero per chiedere l’intervento armato contro il proprio paese.
Borges, leader del partito Primero Justicia, è stato chiamato in causa da un altro giovane deputato del suo partito, Juan Requesens, accusato di aver favorito l’entrata dei killer che avrebbero dovuto uccidere Maduro e fare una strage di chavisti con i droni all’esplosivo.
Un attacco partito da Miami e da Bogotà, da una Colombia ora governata dal delfino di Alvaro Uribe, Ivan Duque, pronto a genuflettersi davanti al mastino maggiore.
Essere al soldo degli Usa, si sa, conviene. Significa ricevere un flusso di denaro costante, drenato attraverso fondazioni e organizzazioni non governative legate dalla Ned e alla Usaid. Nonostante i latrati di Trump che aveva promesso di ridurre i finanziamenti esteri, quindi anche quelli destinati alla sovversione, i falchi di Miami hanno ottenuto un aumento dei fondi destinati alla “promozione della democrazia”: a Cuba, in Venezuela e in Nicaragua. Il solito senatore Marco Rubio ha ottenuto dal Congresso Usa l’approvazione di 20 milioni di dollari per finanziare la sovversione in Venezuela e 15 milioni per rinnovare quella contro Cuba, nonostante il Dipartimento di Stato avrebbe voluto erogarne rispettivamente 9 e 10 milioni. Sono stati aggiunti anche altri 29 milioni di dollari per foraggiare i media che, come Radio Marti, diffondono la propaganda Usa contro Cuba.
Per aiutare la “società civile” in Nicaragua, sono stati stanziati 5 milioni di dollari, da aggiungere al bilancio delle organizzazioni a guida Cia, che includono 125.000 dollari da destinare all’Osservatorio per i Diritti Umani e 119.000 per “promuovere la partecipazione cittadina nelle responsabilità locali”.
Denaro che, a Bogotà, serve anche a finanziare il grottesco Tribunal Supremo de Justicia “in esilio”, capitanato dalla ex Procuratrice generale Luisa Ortega, ex chavista ricercata per corruzione e ora amica di Uribe. Una costosa messinscena che ha condannato a oltre 18 anni di carcere e a svariati milioni di multa Nicolas Maduro: per presunta corruzione con l’impresa brasiliana Odebrecht. Obiettivo dei “giudici-ricercati” è quello di deferire Maduro alla Corte Penale Internazionale per “violazione dei diritti umani”.
Una farsa totalmente illegittima, ma pericolosa nel nuovo reticolo intessuto dagli Usa. Infatti, sebbene per simili passi ci sarebbe bisogno dell’avallo dell’Onu, dove i golpisti si troverebbero di fronte all’opposizione di Russia e Cina, con l’azione congiunta di paesi neoliberisti determinanti nella regione, non sono da escludere iniziative “eccentriche” per aggirare le procedure. Il Venezuela è nel mirino, e intanto l’imperialismo prepara la guerra sporca contro la Bolivia di Evo Morales, rimasto quasi solo a denunciare le manovre Usa contro l’integrazione latinoamericana.
“Ci stiamo portando avanti con il lavoro”, ha detto più o meno Luisa Ortega, immaginandosi il rientro trionfante all’interno di un “governo di transizione” in Venezuela. Mancano pochi giorni all’avvio del nuovo pacchetto economico approvato dal governo Maduro per uscire dall’angolo in cui cerca di schiacciarlo la guerra non convenzionale contro il socialismo bolivariano. Una guerra dai molteplici assi che, dopo aver mancato la strage, cerca di rinfocolare le “guarimbas” e le proteste corporative: con la complicità dei grandi media che, dagli Usa all’Europa, si esercitano nel racconto di un “mondo al contrario” dove i “cani rabbiosi” diventano portatori di pace.