Nelle ultime settimane sono saliti i toni che pongono sul tavolo della discussione pubblica uno scontro bellico tra i paesi limitrofi del Venezuela e della Colombia. Alcuni alti funzionari USA e colombiani sottolineano le opzioni militari, in particolare un intervento che tenderebbe rovesciare il governo guidato da Nicolas Maduro, come la forma necessaria di fronte alla presunta mancanza di azione regionale e mondiale nel respingere l’esecutivo venezuelano.
Per molti colombiani, questo paradigma bellico sarebbe fuori luogo data l’instabilità economica, sociale e politica interna che l’Amministrazione Duque deve affrontare. In questo modo, i segni che emergono, di una possibile guerra scatenata dalla Colombia, non cessano di essere respinti da politici, analisti e giornalisti. Soprattutto dopo aversi annunciato un acquartieramento da parte delle forze armate colombiane lungo il confine e la richiesta del Ministero della Difesa al Congresso per l’approvazione dell’aumento del budget.
La promozione di una guerra convenzionale tra Venezuela e Colombia obbedisce a diversi fattori sostenuti da differenti livelli. Ma in breve, ci sarebbero due agenti principali, eterogeneamente uniti, che cercano di innalzare la temperatura bellica alle già calde relazioni bilaterali.
Dagli Stati Uniti
Il primo ad annunciare “l’opzione militare” sul Venezuela è stato lo stesso presidente USA, Donald Trump, che non ha nascosto che la gestisce tra le sue alternative per deporre il criminalizzato governo di Maduro.
Benché si sia mantenuto il focus su un colpo di stato militare dal seno della Forza Armata Nazionale Bolivariana (FANB), come lo ha svelato il New York Times e AP, a suo tempo, il Pentagono ha fornito risorse e personale, al fine di preparare un intervento di tipo umanitario come risposta alla “crisi regionale” che significa la situazione venezuelana.
Di fatto, il Congresso USA ha fatto tale richiesta al segretario della Difesa, James Mattis, ed è stato il più alto organo legislativo di quel paese che ha spinto per altre sanzioni contro il Venezuela, con la lobby della Florida come principale agente dell’intervento.
È il senatore Marco Rubio, insieme ad congressisti della Camera dei Rappresentanti (Ileana Ros-Lehtinen, Mario Diaz-Balart, Carlos Curbelo), colui che con maggior determinazione ha fatto il possibile per attaccare, da parte delle istituzioni di Washington, il governo venezuelano, specificamente, e l’intero paese in generale.
L’interesse da parte di Donald Trump per ciò che accade in Venezuela è dovuto, soprattutto, a Rubio, il cui portavoce ha significato un maggiore spostamento del Dipartimento di Stato come istituzione che regge la politica estera intorno a ciò che accade in America Latina e Caraibi Negli strumenti ed argomenti del senatore della Florida sull’attuale governo USA stanno le speranze che i residenti di Doral e Miami, tra essi banchieri e uomini d’affari latitanti, militari sediziosi e politici di un’altra epoca, possano materializzare il sogno (incubo per altri) di vedere sterminato il chavismo dalla faccia, se non planetaria, almeno regionale.
Mediante gli operatori più influenti della Florida, roccaforte elettorale di Trump nelle elezioni presidenziali del 2016, l’idea di attaccare il Venezuela ha assunto una rilevanza oggi che, nelle ere Bush Jr. e Obama, mai ebbe. Quegli stessi interessi risuonano nelle parole del vice presidente Mike Pence, che alle Nazioni Unite ha dichiarato che, nel contesto di una guerra tra gli stati venezuelano e colombiano, rimarrebbe a lato dell’amministrazione Duque.
Dichiarazione questa che si unisce a quella pronunciata da Donald Trump, anch’essa all’ONU: ha detto ai giornalisti che “tutte le opzioni sono sul tavolo” per quanto riguarda il Venezuela, essendo il nostro paese utilizzato anche come un jolly elettorale a causa delle prossime elezioni di metà termine negli USA e la continua cartellizzazione mediatica che, in quella nazione, predomina attorno alla demonizzazione del Governo bolivariano.
Rahm Emanuel, funzionario dell’amministrazione Obama, ha sottolineato che lo stesso Trump potrebbe ordinare un (improbabile) attacco militare contro il Venezuela per gli effetti positivi del Partito Repubblicano nelle elezioni di novembre, con la Florida come principale affluente di voti.
In quest’ultimo caso il presidente colombiano, Ivan Duque, e l’attuale presidente della Casa Bianca hanno molto in comune, ma non solo loro: gli interessi di quel gruppo di pressione e di lobbying che esiste a Washington per spingere ad un intervento contro il Venezuela si coniugano anche con quella di alcuni settori dell’oligarchia di Bogotá e paisa -denominazione geosocioantropologica per riferirsi agli abitanti di Antioquia ndt- (in particolare di Medellín, dipartimento di Antioquia).
Dalla Colombia
L’annuncio che il Pentagono ha dato la sua approvazione affinché la nave ospedale USNS Comfort (che prende sempre parte in conflitti militari) gettasse gli ormeggi in acque colombiane sotto la connivenza del governo del Duque, per presumibilmente aiutare i migranti venezuelani al confine binazionale, ha dato un importante allarme al governo di Maduro ed alla FANB che la Colombia sarebbe il principale agente di intervento.
I cambi strategici nel fondo delle Forze Armate della Colombia sotto la Dottrina Damasco cercano di dare una dinamica al ramo militare del suo paese che confina con l’internazionale, dopo che, nel quadro degli Accordi di Pace con le FARC, si fosse spostato il concetto di “nemico interno” con l’obiettivo di offrire assistenza a livello regionale e planetario come partner globale della NATO e principale alleato latinoamericano del Pentagono.
Tale preparazione dottrinale, ancora in lento processo, potrebbe dare l’impressione che l’esercito colombiano cercherebbe internazionalizzare la sua esperienza verso altre zone in conflitto, e inoltre promuovere contesti belligeranti, con tutta una struttura di supporto alle spalle come quella occidentale.
Ciò che l’esercito colombiano potrebbe o meno fare, contro il Venezuela, sarebbe ordinato dal capo della Casa Narino, Ivan Duque, che riceve pressioni, di diverso tipo, per provocare uno scontro con il paese vicino.
Il presidente stesso ha come mentore politico Alvaro Uribe, ex presidente della Colombia per due periodi consecutivi ora partecipante al Senato, protagonista di algidi momenti diplomatici tra il suo governo e quello di Hugo Chavez. Dal suo seggio, ed anche davanti ad uomini d’affari e politici USA, ha difeso la strategia dell’invasione militare contro il Venezuela, o del colpo di stato militare contro il governo di Nicolás Maduro.
Uribe rappresenta principalmente gli interessi dell’oligarchia paisa, dal momento che il suo passaggio dal governatorato del dipartimento di Antioquia lo ha consacrato come uno degli operatori politici più esaltati della Colombia (essendo alleato commerciale del famoso narcotrafficante Pablo Escobar), questione che lo ha anche portato alla Presidenza della Repubblica con una politica di alto conflitto anti-guerrigliero e nell’ambito del Piano Colombia USA. Fu durante il suo mandato nella Casa di Nariño che la violenza paramilitare è aumentata, così come i falsi positivi e le esplosioni dei cartelli della droga.
Sulla stessa linea, tenendo conto della “opzione militare” di Trump, l’attuale ambasciatore colombiano negli USA, Francisco “Pacho” Santos, rappresentante dell’oligarchia di Bogotà come il suo cugino Juan Manuel Santos e vice presidente durante l’era Uribe ( 2002-2006, 2006-2010), ha recentemente dichiarato, da Washington, che “tutte le opzioni sono valide per il Venezuela”, questione che ha creato animata avversione nell’opinione pubblica e mediatica della Colombia poiché un alto funzionario diplomatico suggerisce che l’invasione, proposta da Uribe, è una politica di stato.
Allo stesso modo, ha dichiarato il segretario generale dell’OSA, Luis Almagro, al confine colombiano-venezuelano, dicendo: “Per quanto riguarda l’intervento militare per rovesciare il regime di Nicolas Maduro, penso che non dobbiamo scartare alcuna opzione”.
Che tanto singolari operatori politici di alto livello dichiarino in maniera così simile solo impone all’analisi che ci sia una cartellizzazione intorno a questa strategia di estrema belligeranza, in cui l’esercito colombiano non è ancora pronto ad affrontare in maniera convenzionale, con la FANB rafforzata da risorse di armamenti e dottrine militari e supporti geopolitici (Cina e Russia) che adempiono la funzione di deterrente del conflitto.
Risposta e prospettive
Nonostante che l’ambasciatore USA in Colombia, Kevin Whitaker, sia stato categorico nell’affermare che, in un conflitto militare tra i due paesi, il Pentagono farebbe il suo per proteggere il suo principale alleato in America Latina, il presidente Ivan Duque non è molto sicuro di prendere il vicolo militare.
Piuttosto, ha optato, almeno dal discorso, per seguire la strategia della pressione diplomatica internazionale e attraverso le sanzioni, che il Gruppo Lima ha accompagnato negli ultimi 14 mesi. Il ritiro della Colombia dalla multilaterale UNASUR, guidato dal Venezuela, è stata una delle prime azioni intraprese da Ivan Duque come meccanismo di pressione diplomatica internazionale, conseguenza di ciò che dice a proposito della strategia da seguire contro il chavismo.
Questa scissione tra quanto espresso dalla coppia Uribe Velez -“Pacho” Santos e Duke mostra chiaramente che non v’è consenso circa l’ordine del giorno dell’intervento militare nell’establishment colombiano che obbligherebbe ad infilare tutte le batterie contro il Venezuela.
Le cause di questo disaccordo di Duke? Possiamo nominarne tre.
-L’aumento del traffico di droga è una crisi che ha messo in tensione le relazioni tra USA e Colombia, soprattutto a causa del modo in cui, entrambi gli Stati, affrontano una politica contro i principali cartelli. È un paradosso che deve affrontare, poiché gli attivi del narco salvano l’economia colombiana. Duque affronta un difficile contesto in cui viene messa alla prova la capacità dello Stato di risolvere la crisi interna, essendo questo un asse fondamentale di qualsiasi paese.
-La pace in Colombia è minacciata dalle turbolenze sociali causate dal paramilitarismo e dal traffico di droga. Più di 150 leader sociali sono stati uccisi, nel 2018, e operatori delle FARC hanno denunciato la mancata osservanza, da parte dello Stato, degli accordi dell’Avana. Inoltre, i possibili accordi con l’ELN sembrano in questo momento difficili da raggiungere per le prerogative che lo stesso Duque aspira. Gli USA e la NATO sono stati enfatici sulla situazione di pace che deve esistere in Colombia per promuovere il suo esercito al vertice militare occidentale come “partner globale”.
-Una crisi di identità si è stabilita nel seno dell’amministrazione Duque, dal momento che Uribe Vélez prende i principali punti in quanto al clamore ufficiale e la politica interna presa dal governo colombiano. Di fronte all’opinione pubblica, Duke sembra sempre più un delfino dell’ex presidente antiochegno, problema che lo costringe a sottrarsi ad alcune linee fondamentali dell’uribismo, ma che lo colloca in un limbo discorsivo e politico il cui sostegno popolare è sceso del 12% secondo gli ultimi sondaggi.
Una crisi che Duque deve affrontare è la situazione che attualmente vive nel dipartimento Norte de Santander, dove la maggioranza ha votato per lui (77%) e dove c’è stato anche un abbandono statale, senza precedenti, negli ultimi anni.
Il governo del Venezuela ha preso misure economiche circa il sussidio della benzina ed al controllo sui cambi che avrebbero un impatto negativo sull’affare del contrabbando di combustibile, legalizzato da Uribe durante il suo mandato, e che mantiene a galla (minimamente) quel dipartimento.
Il combustibile venezuelano, a sua volta, serve anche ai fini della preparazione della cocaina che viene commerciata dai cartelli della droga nelle prossimità frontaliere colombo-venezuelane, e le misure di Maduro colpirebbero, in modo severo, quel narco business che ha guadagni annuali di 12 miliardi di $, e che ossigena anche, gradualmente, il tessuto economico di Norte de Santander e del paese in generale.
La dialettica tra le misure di sovvenzione della benzina da parte del Governo bolivariano e la reazione di Bogota mette Duque al bivio, chi rigetta, fino ad ora, l’opzione militare contro il suo vicino, ma che già è sotto pressione sia dalle oligarchie colombiane come da funzionari USA, che hanno nel governo della Colombia, insieme all’uscente del Messico, uno dei loro alleati decisivi secondo la CIA.
Nel mezzo di questo, ci sono ancora cose da definire da parte dell’amministrazione Duque affinché l’agenda dell’intervento militare continui come definito da Rubio, Almagro ed Uribe. La verità è che Miraflores ha ripetutamente accusato le minacce che gravano di là del confine, essendo a conoscenza dei forti interessi e ragioni che hanno le élite occidentali per generare un contesto di guerra tra Venezuela e Colombia.
¿Quiénes presionan por un conflicto militar entre Colombia y Venezuela?
En las últimas semanas han subido los tonos que ponen en la mesa de discusión pública una confrontación bélica entre los vecinos países de Venezuela y Colombia. Algunos altos funcionarios estadounidenses y colombianos destacan las opciones militares, en específico una intervención que intentaría derrocar al gobierno presidido por Nicolás Maduro, como la modalidad necesaria ante la supuesta falta de acción regional y mundial en rechazo al ejecutivo venezolano.
Para muchos colombianos este paradigma bélico estaría fuera de lugar dada la inestabilidad económica, social y política interna que la Administración Duque debe atender. De esta manera, los signos que se desprenden de una posible guerra desencadenada por Colombia no dejan de ser rechazadas por políticos, analistas y periodistas. Sobre todo luego de haberse anunciado un acuartelamiento por parte de las fuerzas armadas colombianas a lo largo y ancho de la frontera y la solicitud del Ministerio de Defensa al Congreso para una aprobación del aumento presupuestario.
La promoción de una guerra convencional entre Venezuela y Colombia obedecen a varios factores propugnados desde diferentes niveles. Pero en suma, serían dos los principales agentes, heterógeneamente unidos, que buscan subir la temperatura bélica a las ya calientes relaciones bilaterales.
Desde Estados Unidos
El primero en anunciar la “opción militar” sobre Venezuela fue el mismo presidente estadounidense, Donald Trump, quien no ha ocultado que la maneja entre sus alternativas para deponer al criminalizado gobierno de Maduro.
Aunque se ha mantenido el foco en una intentona militar desde el seno de la Fuerza Armada Nacional Bolivariana (FANB), como lo develara The New York Times y AP en su momento, el Pentágono ha estado previendo recursos y personal con el fin de preparar una intervención de tipo humanitaria como respuesta a la “crisis regional” que significa la situación venezolana.
De hecho, el Congreso estadounidense hizo tal petición al secretario de Defensa, James Mattis, y ha sido el máximo ente legislativo de ese país el que ha pujado por más sanciones contra Venezuela, con el lobby de Florida como principal agente de la intervención.
Es el senador Marco Rubio junto a otros congresistas de la Cámara de los Representantes (Ileana Ros-Lehtinen, Mario Diaz-Balart, Carlos Curbelo) el que con mayor afinco ha hecho lo posible para atacar, desde la institucionalidad de Washington, al gobierno venezolano en específico y al país entero en general.
El interés por parte de Donald Trump por lo que ocurre en Venezuela se debe, sobre todo, a Rubio, cuya vocería ha significado un mayor desplazamiento del Departamento de Estado como institución regidora de la política exterior en torno a lo que ocurre en América Latina y el Caribe. En las herramientas y argumentos del senador de Florida sobre el actual gobierno de los Estados Unidos están las esperanzas de que los residentes del Doral y Miami, entre ellos banqueros y empresarios prófugos, militares sediciosos y políticos de otra época, puedan materializar el sueño (pesadilla de otros) de ver exterminado el chavismo de la faz, si no planetaria, al menos regional.
Por medio de los operadores más influyentes de Florida, bastión electoral de Trump en los comicios presidenciales de 2016, la idea de atacar Venezuela tomó una relevancia hoy que en las eras Bush hijo y Obama nunca tuvo. Esos mismos intereses resuenan en las palabras del vicepresidente Mike Pence, quien ante las Naciones Unidas afirmó que, en el marco de una guerra entre los Estados venezolano y colombiano, se mantendría del lado de la Administración Duque.
Declaración ésta que se une a lo pronunciado por Donald Trump, también en la ONU: dijo a periodistas que “todas las opciones están sobre la mesa” en cuanto a Venezuela, siendo nuestro país también usado como un comodín electoral debido a los próximos comicios de medio término en Estados Unidos y la continua cartelización mediática que en esa nación predomina en torno a la demonización del Gobierno Bolivariano.
Rahm Emmanuel, funcionario de la Administración Obama, hizo énfasis en que el mismísimo Trump podría ordenar un (improbable) ataque militar contra Venezuela para los efectos positivos del Partido Republicano en las elecciones de noviembre, con la Florida como principal afluente de votos.
En esto último el presidente colombiano Iván Duque y el actual mandatario de la Casa Blanca tienen mucho en común, pero no sólo ello: los intereses de ese grupo de presión y lobby que existe en Washington para pujar una intervención contra Venezuela también se compaginan con los de ciertos sectores de la oligarquía bogotana y paisa (específicamente de Medellín, departamento de Antioquia).
Desde Colombia
El anuncio de que el Pentágono dio el visto bueno para que el buque hospital USNS Comfort (que siempre toma parte en conflictos militares) encallara en aguas colombianas, bajo la connivencia del gobierno de Duque, para supuestamente ayudar a los migrantes venezolanos en la frontera binacional, dio una importante alarma al gobierno de Maduro y a la FANB de que Colombia sería el principal agente de intervención.
Los cambios estratégicos en el fondo de las fuerzas armadas de Colombia bajo la Doctrina Damasco intentan darle una dinámica a la rama militar de su país que colinde con lo internacional, luego de que, en el marco de los Acuerdos de Paz con las FARC, se desplazara el concepto de “enemigo interno” por el móvil de ofrecer asistencia a escala regional y planetaria como socio global de la OTAN y principal aliado latinoamericano del Pentágono.
Esa preparación doctrinaria, aún en lento proceso, podría dar a pensar que el ejército colombiano buscaría internacionalizar su experiencia hacia otras zonas en conflicto, e incluso impulsar contextos beligerantes, con toda una estructura de apoyo detrás como la occidental.
Lo que podría o no hacer el ejército colombiano contra Venezuela sería ordenado por el jefe de la Casa de Nariño, Iván Duque, quien recibe presiones de distintos tipos para provocar una confrontación con el vecino país.
El propio presidente tiene como mentor político a Álvaro Uribe Vélez, ex presidente de Colombia durante dos periodos consecutivos ahora partícipe en el Senado, protagonista de momentos diplomáticos álgidos entre su gobierno y el de Hugo Chávez. Desde su curul, y también ante empresarios y políticos estadounidenses, ha defendido la estrategia de invasión militar contra Venezuela, o de golpe militar al gobierno de Nicolás Maduro.
Uribe representa sobre todo los intereses de la oligarquía paisa, pues su paso por la gobernación del departamento de Antioquia lo consolidó como uno de los operadores políticos más encumbrados de Colombia (siendo aliado comercial del famoso narco Pablo Escobar), cuestión que también lo llevó a la Presidencia de la República con una política de alto conflicto antiguerrillero y en el marco del Plan Colombia estadounidense. Fue durante su mandato en la Casa de Nariño que la violencia paramilitar recrudeció, al igual que los falsos positivos y los arrebatos de los carteles de la droga.
En la misma línea, tomando en cuenta la “opción militar” de Trump, el actual embajador colombiano en Estados Unidos, Francisco “Pacho” Santos, representante de la oligarquía bogotana al igual que su primo Juan Manuel Santos y vicepresidente durante la era Uribe (2002-2006, 2006-2010), dijo recientemente desde Washington que “todas las opciones valen para Venezuela”, cuestión que creó animadversión en la opinión pública y mediática de Colombia pues un alto oficial diplomático sugiere que la invasión militar propuesta por Uribe es una política de Estado.
De la misma forma declaró el secretario general de la OEA, Luis Almagro, en la frontera colombo-venezolana, diciendo: “En cuanto a intervención militar para derrocar el régimen de Nicolás Maduro, creo que no debemos descartar ninguna opción”.
Que tan singulares operadores políticos de alto rango declaren de manera tan similar sólo dicta al análisis que existe una cartelización en torno a esa estrategia de beligerancia extrema, en el que el ejército colombiano no está preparado aún para afrontar de manera convencional, con la FANB afianzada de recursos armamentísticos y doctrinarios militares y apoyos geopolíticos (China y Rusia) que cumplen la función de disuasión del conflicto.
Respuesta y prospectiva
A pesar de que el embajador estadounidense en Colombia, Kevin Whitaker, fue categórico al expresar que, en un conflicto militar entre ambos países, el Pentágono haría lo propio para proteger a su principal aliado en América Latina, el presidente Iván Duque no está muy seguro de tomar el callejón militar.
Más bien, ha optado, al menos desde el discurso, por seguir la estrategia de presión internacional diplomática, y a través de sanciones, que el Grupo de Lima ha acompañado en los últimos 14 meses. El retiro de Colombia de la multilateral UNASUR, liderada por Venezuela, fue una de las primeras acciones que tomó Iván Duque como mecanismo de presión diplomático internacional, consecuencia de lo que dice en torno a la estrategia a seguir contra el chavismo.
Este cisma entre lo expresado por la dupla Uribe Vélez-“Pacho” Santos y Duque muestra claramente que no hay un consenso en torno a la agenda de intervención militar en el establishment colombiano que obligaría a enfilar todas las baterías contra Venezuela.
¿Las causas de este desencuentro de Duque? Podemos nombrar tres.
El aumento del narcotráfico es una crisis que ha puesto en tensión las relaciones entre Estados Unidos y Colombia, sobre todo por la manera en que se aproximan ambos Estados a una política contra los principales carteles. Es una paradoja que debe enfrentar, debido a que los activos del narco salvan a la economía colombiana. Duque afronta un contexto difícil en el que la capacidad del Estado para dar solución a la crisis interna se pone a prueba, siendo éste un eje fundamental de cualquier país.
La paz en Colombia está siendo amenazada por las turbulencias sociales producto del paramilitarismo y el mismo narcotráfico. Más de 150 líderes sociales han sido asesinados en 2018, y operadores de las FARC han denunciado el incumplimiento por parte del Estado de los Acuerdos de La Habana. Asimismo, posibles acuerdos con el ELN parecen en este momento difíciles de llegar por las prerrogativas que el mismo Duque aspira. Estados Unidos y la OTAN han sido enfáticos sobre la situación de paz que debe haber en Colombia para ascender a su ejército a la cúspide militar occidental como “socio global”.
Una crisis de identidad política se ha establecido en el seno de la Administración Duque, pues Uribe Vélez toma los principales focos en cuanto a la vocería oficial y la política interna que toma el gobierno colombiano. Ante la opinión pública, Duque parece cada vez más un delfín del ex presidente antioqueño, cuestión que lo obliga a desentenderse de ciertas líneas fundamentales del uribismo, pero que lo coloca en un limbo discursivo y político cuyo sostén popular ha decrecido en un 12%, según los últimos sondeos.
Una crisis que debe enfrentar Duque es la situación que vive en estos momentos el departamento Norte de Santander, donde se votó mayoritarimente por él (77%) y donde también existe un abandono estatal sin precedentes en los últimos años.
El gobierno de Venezuela tomó medidas económicas en torno al subsidio de la gasolina y al control cambiario que impactarían negativamente el negocio del contrabando de combustible, legalizado por Uribe Vélez durante su mandato, y que mantiene a flote (mínimamente) aquel departamento.
El combustible venezolano, a su vez, también sirve a los efectos de preparación de la cocaína que es comerciada por los carteles de la droga en las aproximaciones fronterizas colombo-venezolanas, y las medidas de Maduro afectarían de manera severa aquel narconegocio que tiene ganancias anuales de 12 mil millones de dólares, y que también oxigena de a poco el entramado económico del Norte de Santander y del país en general.
La dialéctica entre las medidas del subsidio de la gasolina por parte del Gobierno Bolivariano y la reacción de Bogotá pone en una encrucijada a Duque, quien desestima hasta los momentos una opción militar contra su vecino país pero que ya viene siendo presionado tanto por las oligarquías colombianas como por funcionarios estadounidenses, que tienen en el gobierno de Colombia, junto con el saliente de México, uno de sus aliados decisivos según la CIA.
En medio de esto, aún hay cosas por definir por parte de la Administración Duque para que la agenda de la intervención militar prosiga como lo definen Rubio, Almagro y Uribe. Lo cierto es que Miraflores ha acusado varias veces las amenazas que se ciernen a través de la frontera, teniendo conocimiento de los fuertes intereses y razones que tienen las élites occidentales para generar un contexto de guerra entre Venezuela y Colombia.