Fabrizio Casari – www.altrenotizie.org
Una presa di posizione insolita, illegittima e politicamente sfacciata da parte di un gruppo di paesi vassalli dell’impero. In buona sostanza è questo il modo più rapido per definire il pronunciamento dell’autodenominatosi “Gruppo di Lima” nei confronti del Venezuela bolivariano. Il Gruppo di Lima, per la sua stessa genesi, composizione e identità ideologica, può ben essere definito come la quinta colonna degli Stati Uniti nel subcontinente latinoamericano.
E’ nato con il preciso obiettivo di aggregare il blocco filo-statunitense latinoamericano per contrastare l’ALBA, ovvero l’Associazione Bolivariana delle Americhe nata agli inizi del secolo su iniziativa proprio del Comandante Hugo Chavez. In pratica, il Gruppo di Lima è oggi il consorzio dell’ultradestra governante nel centro-sud America che si caratterizza per l’obbedienza assoluta verso gli USA, dei quali condivide il progetto imperiale di riconquista dell’America Latina.
La dichiarazione, ispirata dagli Stati Uniti che ne hanno redatto il testo, punteggiatura compresa, resterà negli annali di storia latinoamericana come la letterina delle vergogna. Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Perù, Costa Rica, tra gli altri, vi affermano che non riconosceranno il governo di Nicolas Maduro, il cui insediamento é previsto per il prossimo 10 gennaio, in quanto non riconoscono la legittimità della vittoria elettorale del chavismo.
In premessa andrebbe detto che alcuni dei paesi firmatari – tra questi Brasile, Colombia e Perù – dovrebbero avere la decenza di tacere quando si parla di correttezza dei processi elettorali. In Brasile un omuncolo nazistoide è stato fatto presidente grazie ad un complotto vergognoso che ha impedito al PT di candidare Ignacio Lula Da Silva, dato dai sondaggi come sicuro vincitore. La Colombia detiene da oltre trent’anni il record dei candidati alla presidenza, ai governatorati e ai comuni assassinati dai paramilitari e dai narcos, cioè le due facce con cui l’oligarchia fascista colombiana tiene il paese sotto il tallone della paura. Quanto al Perù, ogni vittoria elettorale ha prodotto un presidente divenuto poi un latitante e, in alcuni casi, un profugo. Un paese tra i più miserabili per la condizione di vita dei lavoratori e dei contadini, dove l’accesso alle urne viene limitato con ogni mezzo e la lotta sordida di potere è scandita da denunce di irregolarità e brogli che sono divenuti una costante della storia politica peruviana.
Dunque non si capisce con quale faccia tosta Brasile, Colombia e Perù possano erigersi a giudici di altri paesi, data l’irregolarità elettorale e la corruzione sistematica che caratterizza il loro specifico immondezzaio politico.
Nella dichiarazione di vassallaggio eterno, poi, i sottoscrittori dimenticano che le elezioni dello scorso 28 maggio sono state giudicate regolari e prive di qualsivoglia brogli da oltre 200 osservatori nazionali e stranieri e che, non per caso, nemmeno i candidati sconfitti hanno presentato ricorsi contro i risultati dello spoglio. Sedici diverse inchieste hanno provato l’assoluta regolarità del processo elettorale che Nicolas Maduro ha vinto con il 67% dei voti, cioè con un margine a prova di qualunque dubbio circa il consenso popolare di cui tutt’ora gode la rivoluzione bolivariana.
D’altra parte, il sistema elettorale venezuelano è considerato il più sicuro del mondo per via del doppio livello di verifica, manuale ed informatico, che rende sostanzialmente impraticabile ogni tentativo di manipolazione dei dati.
L’assenza dei golpisti facenti capo a settori della MUD è il risultato di una precisa strategia politica di destabilizzazione del paese ma la mancata partecipazione alle elezioni di una parte dell’ultradestra oppositrice del governo, non ha inibito la presenza di diverse sigle dell’opposizione, che hanno raccolto un discreto risultato, sebbene non in grado di disputare la vittoria.
L’impossibilità di sconfiggere il PSUV e i suoi alleati nel paese, li obbliga a cercare nell’aggressione dall’estero la soluzione alla loro crisi di credibilità ed assenza di una leadership in grado di calamitare i consensi dell’anti-chavismo. Non presentarsi dunque, oltre ad essere una precisa strategia difensiva, utile ad evitare una pesante sconfitta dalle ripercussioni inevitabili sui finanziamenti statunitensi che arricchiscono la congrega, assume valore propagandistico importante per fornire il falso alibi delle elezioni irregolari, decisivo ai fini della campagna di aggressione che Stati Uniti, OEA ed UE portano avanti da anni ininterrottamente.
Il Venezuela non rischia l’insonnia per il mancato riconoscimento diplomatico da parte del gruppo di Lima; gode di relazioni internazionali ad ogni livello, che vanno dal rispetto alla considerazione, fino alla fratellanza, con oltre 120 paesi al mondo e, in una nota ufficiale trasmessa a commento della lettera del Gruppo di Lima, ha ricordato che Caracas sa modulare fin nei minimi dettagli le proprie reazioni.
Del resto, la reciprocità è principio cardine del diritto internazionale e, tutto sommato, se da un lato nessuno in buona fede può credere al ruolo di Colombia, Perù e Brasile come campioni di trasparenza elettorale e procedure democratiche, dall’altro l’eventuale chiusura di sedi diplomatiche di paesi che lavorano alla destabilizzazione interna del Venezuela e che utilizzano la Convenzione di Vienna per sostenere concretamente le covert action della CIA e dei paramilitari colombiani in territorio venezuelano, renderà più semplice il lavoro degli organismi statali preposti alla difesa della dignità e della sovranità venezuelana.
La presa di posizione del Gruppo di Lima è l’ennesima mossa destinata ad accrescere l’accerchiamento internazionale del Venezuela ed ha l’ambizione di aprire la strada ad una identica posizione da parte della UE, sapendo di poter contare su orecchie attente ad ogni sollecitazione statunitense e di disponibilità a compiere gesti poco dignitosi. Proprio per questo venne scelta la Mogherini nel ruolo di Mister Pesc. Ed è anche la certificazione formale del fronte reazionario che cercherà ad ogni modo e con ogni mezzo di scatenare un conflitto latinoamericano, attaccando per procura statunitense il Venezuela.
L’operazione per il rovesciamento del governo legittimo di Caracas è in preparazione da tempo ma incontra resistenze impreviste interne ed internazionali; le stesse forze armate di Brasile e Colombia non sono entusiaste dell’idea e da qui la necessità di alzare ulteriormente il conflitto politico e diplomatico utilizzando i paesi latinoamericani come cavallo di Troia degli USA allo scopo di rendere il clima incandescente e far apparire l’opzione della guerra come unica via d’uscita.
Il rischio, però, è che i conti non tornino: aggredire il Venezuela non è una passeggiata di salute; il paese di Bolivar e Chavez è ben armato ed addestrato e dispone di risorse e alleanze da impiegare che è consigliabile non sottovalutare. Le conseguenze (anche interne a Colombia e Brasile) sullo scenario politico e militare nel Cono Sud potrebbero essere sorprendenti per chi ha scambiato l’arredare del giardino di casa con la politica estera e militare.
Sarà bene quindi che Brasile e Colombia continuino pure a scrivere letterine ma restino ai loro posti. Chi consuma le sue rotule nel perenne inginocchiarsi di fronte all’impero, persino quando questo assume le vesti più impresentabili della sua storia, non ha la forza morale necessaria ad affiancare quella militare. Chi si candida a combattere guerre per procura trasformando il suo paese in un mercenariato, parte quindi convinto di vincere ma potrebbe ritrovarsi a contare disfatte dalle quali, storicamente, le dittature militari escono a pezzi. Tanto quelle consolidate come quelle di nuovo insediamento.