di Geraldina Colotti
La rivoluzione bolivariana ha costruito il proprio ventennale cammino anche attraverso i libri e la cultura. Libri di analisi economica o geopolitica, e libri rivolti all’educazione del popolo: in senso letterale, visto che il Venezuela ha sconfitto in pochi anni l’analfabetismo arrivando a essere il V paese al mondo per matricole universitarie. Citiamo per esempio la micro collezione tascabile della Biblioteca Basica Tematica, la Colleccion Memoria, o i Cuadernos para el debate. Dal Venezuela si torna sempre con la valigia sempre piena di volumi. In questo delicato momento di passaggio che attraversa il proceso bolivariano, è utile averli di fronte. Come si “costruisce” una rivoluzione sulle macerie del grande Novecento, come la si mantiene?
“Essere colti per essere liberi”, diceva José Marti, il maestro delle Americhe, nato all’Avana il 28 gennaio del 1953. Il generale Francisco De Miranda, padre dell’indipendenza sudamericana e di famiglia modesta, accumulò nei suoi viaggi una biblioteca monumentale… E con la cultura, la riflessione e il dibattito ha reagito il governo bolivariano, organizzando l’anno scorso una affollatissima fiera internazionale del libro nel pieno del feroce blocco economico imposto dagli USA e dai paesi subalterni.
Da una parte il caos, la prevaricazione, la violenza, dall’altra la ragione, la cultura, la dignità, l’orgoglio di difendere la libertà conquistata. Valori a cui ricorre il socialismo bolivariano anche di fronte al colpo di stato, organizzato apertamente dagli Stati Uniti. Il mondo ha potuto accorgersene ascoltando le parole precise e ponderate del ministro degli Esteri venezuelano Jorge Arreaza, pronunciate al Consiglio di sicurezza dell’ONU il 26 gennaio.
Prendiamo in mano un libretto, pubblicato nei Cuadernos por el debate 10 anni fa, La revolución bolivariana en la ONU. Contiene alcuni discorsi pronunciati alle Nazioni Unite a partire dal 1999: principalmente da Hugo Chavez, ma anche da Roy Chaderton, da Jesus Arnaldo Pérez e da Nicolas Maduro quand’era ministro degli Esteri. Un libro straordinariamente attuale nel momento di massimo sforzo della rivoluzione bolivariana in uno dei fronti più impegnativi della guerra di IV e IV generazione, scatenata dall’imperialismo e dai suoi ripetitori: il fronte diplomatico e internazionale.
Il discorso pronunciato da Jorge Arreaza all’ONU, da cui gli USA avrebbero voluto ottenere una risoluzione di copertura al golpe in corso, figurerebbe certamente in un aggiornamento del volume. Occorrerebbe una ristampa di molte pagine, considerando il numero di aggressioni a cui il Venezuela ha dovuto rispondere nel corso di questi ultimi dieci anni.
Anni durante i quali la diplomazia bolivariana ha fatto tesoro dell’insegnamento di Chavez (a sua volta ispirato da quello di Fidel) e dell’esperienza accumulata in quel ruolo delicato da Nicolas Maduro. “E’ necessario un mondo multipolare, senza egemonie imperiali”, diceva Maduro alla 62ma Assemblea Generale dell’ONU il 2 ottobre del 2007. E ricordava i costi della seconda guerra del Golfo, scatenata contro l’Iraq dagli USA e da una coalizione internazionale avallata dall’ONU.
Un’aggressione basata su una menzogna costruita dai grandi media, che consentì al capitalismo un nuovo tentativo di “risolvere” la propria crisi strutturale con la guerra imperialista. Maduro ha ricordato allora che, negli anni in cui è durata la guerra all’Iraq, dal 2002 al 2006, gli USA hanno investito 610 miliardi di dollari del loro bilancio in spese militari. Quante scuole, ospedali, case popolari si sarebbero potute costruire con quel denaro? Evidentemente, non è “l’aiuto umanitario” quello che portano ai popoli gli aggressori imperialisti.
Un argomento ripreso con forza da Arreaza.
Nel suo intervento, il ministro ha smascherato la retorica bellicista usata da Trump contro il Venezuela, e anche quella dell’ipocrita Europa, che ha dato un ultimatum a Maduro affinché indica nuove elezioni, pena il riconoscimento del signor Nessuno-Guaidó. Che ne direbbe la Francia – è stato chiesto – se all’ONU si discutesse della rivolta dei Gilet gialli e della repressione con cui ha risposto il governo Macron? Che ne direbbe la Spagna se uno Stato imponesse all’ONU una discussione sui suoi affari interni? Il governo italiano, nel frattempo, è in preda a proprie convulsioni innescate dalla reazione del 5Stelle Alessandro Di Battista che, almeno, l’America Latina l’ha vista da vicino.
Con calma e precisione, il ministro bolivariano ha portato il governo Trump sul banco degli imputati. Ha elencato le invasioni, i colpi di stato e le ingerenze compiute nel corso della storia dagli Stati uniti a danno dei popoli del sud, e il deserto di morte e rovine che ne è seguito dopo. Insieme alla Russia e ai paesi che, come la Cina, si sono opposti alle mire belliciste di Washington, Arreaza ha ricordato la distruzione della Libia, avallata dall’ONU: “Non porteranno il Venezuela a una guerra civile”, ha detto facendo eco alle parole di Maduro. I venezuelani – ha aggiunto – devono risolvere i problemi fra loro.
Non sono più i tempi in cui Che Guevara pronunciava il suo infuocato discorso all’ONU. E’ anche passato il momento in cui la felice congiuntura dei governi progressi latinoamericani aveva portato un vento nuovo anche all’interno di istituzioni internazionali come l’OSA e l’ONU.
“Il modello dell’ONU ha fatto il suo tempo”, disse Chavez nel 2005 interpretando le proposte di radicale riforma dell’organismo avanzate dai paesi del sud globale. Il potere di veto degli USA ha sempre rappresentato una barriera insuperabile per le legittime richieste dei popoli nell’ambito delle Nazioni Unite. Ma adesso anche quelle regole stanno strette. Quando intralciano o ritardano gli interessi del complesso militare-industriale, si deve esautorarle, inventandone altre ad hoc (come il Gruppo di Lima), o forzando le competenze di quegli organismi che già rispondono ai voleri del Pentagono (come l’OSA).
“Maduro, presto farai la fine di Noriega e di Marcos”, ha ringhiato il torvo Craig Faller, capo del Comando Sur e fautore del “caos controllato” come elemento cardine di una nuova “dottrina Monroe”. E al suo fianco c’erano un militare di origine africana e uno di origine indiana…
La vittoria del Venezuela non è solo una vittoria del diritto internazionale sull’arroganza imperialista ottenuta in un contesto sfavorevole, dunque doppiamente significativa. Aver conteso uno spazio ostile, dando battaglia con dignità e ragionevolezza ha fornito una grande tribuna a quella parte del mondo convinta che esista un’alternativa basata sull’inclusione sociale e sulla democrazia partecipativa.
La resistenza del Venezuela dice ai popoli che soffrono sotto il giogo dell’imperialismo che si può vincere, e che l’unico significato pieno della parola pace è quando si coniuga alla giustizia sociale. Davvero il Venezuela socialista è una trincea, la Stalingrado dei popoli in lotta per la propria autodeterminazione. Ha impedito all’imperialismo di sancire una nuova soglia di impunità e sopraffazione.
“Da qui non si passa”, ha detto il discorso di Arreaza. Il discorso dei libertadores e dei cimarrones, gli schiavi fuggiaschi decisi a non tornare mai più in catene.
Com è possibile che persone con la “capacità di intendere e volere”
accettino che siano gli USA a decidere chi sono i buoni e chi
sono i cattivi.