Intervista a César Méndez, ambasciatore venezuelano in Svizzera
di Geraldina Colotti
César Méndez, da dieci anni ambasciatore del Venezuela in Svizzera, è un ex colonnello della Forza Armata Nazionale Bolivariana. Lo abbiamo incontrato a Bellinzona in occasione del dibattito “Venezuela, un popolo in lotta contro l’imperialismo”, organizzato dall’Associazione Alba Suiza.
Da quanto tempo fai parte della rivoluzione bolivariana?
Potrei dire… da piccolo, da quando cioè, ho cominciato a percepire cosa significasse difendere certi ideali. Ti parlo dell’epoca del dittatore Marco Pérez Jimenez. Allora avevo 6-7 anni e la polizia veniva sempre a metterci a soqquadro la casa perché cercava un mio zio, che era del Partito Comunista Venezuelano e che leggeva Tribuna Popolare. Allora, tanto bastava. Tutte le volte che assistevo a un’incursione o a una perquisizione mi chiedevo perché trattassero come un criminale quello zio che mi era molto caro. Poi mi sono accorto di quanta ingiustizia venisse perpetrata contro chi la pensava diversamente. In seguito, durante i governi della Quarta Repubblica ho fatto esperienza diretta del modo in cui le elite politiche manipolavano le coscienze delle venezuelane e dei venezuelani, a partire da quella di mio padre, che era un operaio, inducendolo a votare per una falsa alternativa, costituita da due soli partiti, Acción Democratica (centro-sinistra) e Copei (centro-destra). Io sono dello stato Trujillo, una regione andina di grandi lavoratori, in gran parte vittime del sistema politico imperante allora. Negli anni, ho avuto modo di fare lo scrutatore durante diverse competizioni elettorali, ho visto con i miei occhi la compravendita di voti, lo scambio delle chede elettorali, le truffe conclamate. Non c’era nessun controllo… un abisso rispetto al sistema informatizzato che abbiamo adesso, a prova di frodi. In quegli anni, di fronte a tanta ingiustizia, è sorta in me una ribellione che per fortuna a tutt’oggi non si è spenta e che mi porta a schierarmi ancora contro le ingiustizie, quindi a sostenere dall’interno il proceso bolivariano.
Contro le democrazie nate dal Patto di Puntofijo c’era allora un’opposizione armata a cui hanno partecipato anche militari progressisti. Cosa pensavi di quelle scelte?
Ho avuto un altro punto di osservazione. Ero il maggiore di 10 figli in una famiglia di padre operaio e madre casalinga. Il mio sogno era quello di fare il professore, volevo entrare all’Istituto pedagogico di Caracas ma le condizioni economiche non me lo permettevano. Oggi l’istruzione è gratuita e vi sono università in tutto il paese. Allora, chi voleva studiare doveva spostarsi a Caracas, a Maracaibo o a Cumanà e ci volevano i soldi. Così per me è stata una fortuna entrare all’Accademia militare, nel ’66. I costi di iscrizione erano bassi e ho potuto studiare per 4 anni alla scuola militare. Le mie amicizie, che ritrovavo a ogni estate quando tornavo a casa per le vacanze, sono però rimaste quelle di sempre, legate al Partito comunista, continuavamo a cantare le stesse canzoni di lotta, discutevamo degli stessi argomenti. Non era contraddittorio perché anche nelle caserme erano in molti ad avere quelle posizioni ed erano inclini a lottare contro quel nefasto status quo.
Allora, il Partido de la Revolucion Venezuelana, il PRV di Douglas Bravo, cercava di reclutare ufficiali progressisti nelle caserme. Anche Chávez andò a incontrarlo. Tu come la pensavi?
Pur senza la stessa chiarezza che porterà alla rivoluzione bolivariana, eravamo tutti contro quel sistema, andavamo tutti nella stessa direzione, stavamo agendo per gli stessi obiettivi, costruire una pace con giustizia sociale. Ricordo una riunione con gli indigeni agli inizi degli anni Novanta in cui, come ufficiali, parlavamo della necessità di lavorare a un grande progetto nazionale. Conoscevo le idee di Chávez e sapevo che andavamo nella stessa direzione, ma non avevo allora contatti diretti con lui, che era più giovane e di grado inferiore al mio. In quel periodo, molti ufficiali stavano facendo le spese per aver denunciato la gigantesca corruzione esistente. Allora c’era quello che veniva chiamato il gruppo del “comacate” (comandanti, maggiori, capitani e tenenti). In molti sapevamo che si stava preparando la ribellione del 4 Febbraio ’92. Sapevamo e non denunciavamo. Un generale me lo chiese direttamente quando lavoravo alla Scuola superiore dell’esercito in cui si era graduato un anno prima Chavez. In quel momento viene da me il Maggiore Alastre Lopez, del gruppo del 4 F, molto vicino a Chávez, e mi dice: “Colonnello, io vado”. “Tranquillo, vai”, gli rispondo. Sapevo dove stava andando. Poi, mi recai a visitare Chávez e gli altri al Cuartel San Carlos, dov’erano detenuti. Ovviamente venni emarginato, ma andai avanti e quando mi chiesero perché ero andato a visitare Chávez in carcere, risposi: perché lì ci sono miei subalterni e il dovere di un buon comandante è quello di assistere i suoi uomini sia nella buona che nella cattiva sorte. Poi ho accompagnato Chávez durante la campagna elettorale e, subito dopo la vittoria del dicembre 1998, il Comandante mi ha chiamato e sono stato designato ufficiale di collegamento tra il ministero della Difesa e l’allora Congresso della Repubblica, poi scomparso con la Costituzione del 1999. Da allora, ho lavorato al ministero degli Interni, degli Esteri, poi come console generale a Francoforte e dopo come ambasciatore in Svizzera: sempre a difesa della rivoluzione bolivariana e dell’identità nazionale.
Come viene visto il paese dalla Svizzera?
C’è chi vuole vederlo attraverso la lente deformata dei media egemonici, totalmente di parte, che si dedicano a diffondere menzogne, e quindi vive come in una bolla. C’è chi invece vuole andare a vedere di persona, vuole conoscere un paese in cui ci sono problemi come dappertutto, ma in cui stiamo lottando per un nostro sviluppo basato sull’uguaglianza e la giustizia sociale. Un modello che ha al centro la coscienza di un popolo organizzato e che non può essere interpretato attraverso le lenti europee. Oltre alle grandi conquiste sociali che abbiamo realizzato, la cosa che più mi rallegra è la crescita politica del popolo. Mi rallegra vedere tante persone umili difendere con veemenza quello che hanno costruito, appoggiare e argomentare la ragione del sostegno al nostro governo che, nonostante attacchi di ogni tipo continua a difendere gli interessi delle classi popolari. Il popolo sa quanti miglioramenti ha ottenuto affrancandosi dalla sottomissione esistente prima in un paese petrolifero come il Venezuela, che non governava le proprie risorse.
Cos’è oggi la FANB: un esercito del popolo di formazione umanista come dice Padrino Lopez o una istituzione pronta a disertare come vorrebbe l’opposizione?
Sono stato il primo comandante di battaglione a cui fu iscritto Padrino Lopez quando si graduò da sottotenente. L’ho avuto nel mio battaglione e lo ricordo sempre con molto affetto. Quando ci incontriamo ricordiamo sempre i vecchi tempi. Un uomo integerrimo e di indiscussa professionalità, con un gran cuore e mosso da grandi ideali. Gli auguro di trionfare su tutti gli attacchi di cui è vittima, perché gli tocca oggi un compito non facile. L’unione civico-militare è stata una delle grandi missioni strategiche realizzate da Chávez, che si è potuta concretizzare grazie all’origine popolare delle Forze Armate, di cui io sono un esempio.
Il processo bolivariano sconta pesanti eredità provenienti dalla Quarta Repubblica, per esempio la corruzione nelle Forze Armate, la repressione. E’ vero che nelle caserme si tortura ancora e che, come dice l’opposizione, a dirigere le operazioni sono i cubani?
Non si possono escludere eccessi ed errori, non siamo perfetti, ma in questo caso si tratta di un’altra menzogna. Voglio raccontarti un aneddoto. All’inizio del mandato di Chávez, camminavo per le vie di Caracas con un mio amico, che ora è il maggiore Suarez Chourio, Comandante generale dell’esercito, detto “il negro Suarez”. Un uomo di statura imponente. Mi chiama allora un altro amico e mi chiede: “cosa ci facevi con quel militare cubano?” “Ma quale cubano? – rispondo – se lo conosco da quand’era piccolo?” E, a proposito della corruzione, che è certamente una piaga difficile da sanare, voglio riferirmi a un altro aneddoto. Una volta, sempre a Caracas dov’ero tornato in vacanza, passo davanti a una villa in costruzione e chiedo di chi sia: di Juan Barreto, mi dice un famigliare. Barreto allora era sindaco, e io sapevo che non aveva proprietà, era un professore universitario, quindi mi preoccupai. Andai a casa, presi il mio cane e lo portai a passeggiare dalle parti della villa. Mi fermai e chiesi all’ingegnere che si trovava lì: “Questa villa è di Juan Barreto, vero?” “No, il proprietario è quello lì”, rispose l’ingegnere indicando un uomo che mi confermò l’informazione. E’ come la storia delle proprietà di Diosdado Cabello che, secondo le dicerie, possederebbe mezzo paese. Una volta si disse che aveva comprato per la figlia un Grand Hotel sull’Isola Margarita. Diosdado smentì, e dichiarò in televisione: “Bene, se quell’Hotel è di mia proprietà, allora lo regalo, prendetevelo”. E immediatamente uscirono fuori i veri proprietari… Non voglio cavarmela con una battuta. Il problema è serio, tanto che il Presidente Maduro ha indicato la corruzione come una delle tre linee da combattere, insieme all’inefficienza e all’indolenza di quei funzionari che complicano i problemi anziché risolverli, ritardando la realizzazione del socialismo bolivariano.
Il Venezuela è al centro di un attacco diplomatico che si è intensificato dopo l’autoproclamazione di Guaidó. La Svizzera è uno dei paesi in cui è stata inviata una sua presunta ambasciatrice. Cosa sta avvenendo?
In questi anni, il Venezuela ha subito una serie di attacchi che, a differenza di quel che è avvenuto in altre parti del continente e nonostante i fiumi di denaro investiti dall’imperialismo, non hanno sortito l’effetto sperato. Ora, gli Stati Uniti sono scesi in campo direttamente per stroncare “il cattivo esempio” del socialismo che il Venezuela sta dando ai popoli, avendone in risposta grandi manifestazioni di sostegno. Dopo aver cercato di asfissiare in tutti i modi il nostro popolo, Trump ha detto che tutte le opzioni sono sul tavolo: tutte tranne quella del dialogo e della ragione, ha spiegato il nostro ministro egli Esteri Jorge Arreaza. Per fortuna, grazie alla politica internazionale di Chávez, portata avanti da Maduro, possiamo contare su molti amici nel mondo, che costituiscono un freno ai tentativi di aggressione militare degli Usa. Mai come in questo momento è apparso chiaro che i rappresentanti di opposizione parlano a nome degli USA, che l’autoproclamato è vittima del discorso che gli hanno inculcato e per questo, essendo un fenomeno artificiale, si sta sgonfiando ogni giorno di più. Qui, in Svizzera, si aggira una signora in cerca di improbabili funzioni diplomatiche, in spregio a tutte le norme internazionali e oltretutto senza avere i requisiti minimi, giacché ha la nazionalità svizzera in quanto risiede qui da vent’anni e questo non è conforme. Aspetta che il governo svizzero la riconosca quando la Svizzera non ha riconosciuto Guaidó e quindi non le è consentito svolgere alcuna attività diplomatica. Anche nei paesi che hanno riconosciuto l’autoproclamato, per richiedere qualunque documento si deve andare dai rappresentanti del governo legittimo, quello di Nicolas Maduro. Una volta di più, l’opposizione inganna con false promesse i venezuelani che le danno fiducia, in questo favorita dai media che non danno spazio alla realtà del Venezuela. Qui a Ginevra c’è una nostra missione permanente alle Nazioni Unite, guidata egregiamente da Jorge Valero, il quale ha organizzato importanti battaglie diplomatiche, passate sotto silenzio. Il fatto è che queste grandi istituzioni internazionali, nate con buone intenzioni, sono sottomesse agli Stati Uniti e hanno perso la loro funzione. Lo vediamo con l’OSA, che con ragione Fidel Castro ha definito il ministero delle colonie, ma anche con l’ONU, che andrebbe profondamente riformata. Il voto contro il criminale bloqueo contro Cuba ne è un esempio, giacché resta in piedi solo per l’opposizione degli USA e di Israele. Lo abbiamo visto con l’aggressione alla Libia e ora con quella al Venezuela che l’ONU fatica a contenere.
Gli Stati Uniti hanno chiesto alla Svizzera di rappresentare i propri interessi in Venezuela. Un ruolo che il paese elvetico ha già svolto in altri paesi dove sono state chiuse le ambasciate nordamericane, come a Cuba e in Iran. Cosa ne pensi?
E’ una funzione prevista dalla diplomazia internazionale che, appunto, la Svizzera ha già svolto esibendo il suo statuto di neutralità. L’auspicio è che possa dimostrare con atti concreti la neutralità in un paese come il nostro che ha subito sanzioni e violazioni del diritto internazionale. Il nostro governo sta valutando questa richiesta e, come sempre, lo farà in base alla sua natura profondamente democratica, al compimento delle norme internazionali e agli interessi del nostro paese. Dal governo svizzero ci aspettiamo che contribuisca al dialogo e all’istituzione di una relazione pacifica tra gli Stati Uniti e il Venezuela.