di Geraldina Colotti
Un tavolo di dialogo permanente. E’ questo l’auspicio espresso dal presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela, Nicolas Maduro, a proposito dei colloqui in corso con l’opposizione. Gli incontri, sorti con la mediazione della Norvegia, si stanno ora svolgendo alle Barbados. E questo è il primo punto che salta agli occhi. In quale paese al mondo la normale dialettica democratica, anche accesa, deve svolgersi all’estero e mobilitare la diplomazia internazionale?
Immaginate, per esempio, che i gilet gialli dicessero a quella nutrita parte di mondo che non si riconosce nei meccanismi imposti da Trump e dai suoi subalterni: sanzionate Macron, aiutateci a risolvere il conflitto imponendo un processo di dialogo in Russia, in Cina, o a Cuba. Immaginate che il popolo catalano o quello basco chiedessero alla Celac di organizzare una conferenza stampa internazionale per sanzionare il governo spagnolo, rifiutandosi per esempio di vendergli le materie prime. Immaginate che il popolo dell’Honduras, ripetutamente scippato della vittoria elettorale, represso e impoverito, chiedesse ai paesi dell’Alba o alla Mnoal di risolvere il contenzioso fuori dal paese. Immaginate che lo facesse il popolo colombiano, truffato dal processo di pace di Santos, e insanguinato ogni giorno dai paramilitari di quel Duque che vorrebbe imporre lo stesso “stile” al Venezuela. Sembra strano, vero? E allora perché vale per la democrazia partecipata e protagonista del Venezuela bolivariano?
Nei paesi citati, inoltre, si reprime, si incarcera e si eliminano gli oppositori senza tanti complimenti, e senza che questo comporti la benché minima sanzione da parte della cosiddetta comunità internazionale. E senza che questo provochi informative a senso unico come quella stilata da Bachelet o dalle grandi agenzie dell’umanitario contro il Venezuela, e a dispetto della stessa logica.
Si accusa, infatti, il governo bolivariano di essere una “dittatura militare”. Ma se così fosse, i conti con un’opposizione cialtrona e incapace si sarebbero potuti fare in un colpo solo. Si dice che il chavismo non ha più la maggioranza. Ma se così fosse, perché l’opposizione, in molte occasioni elettorali e in diversi momenti della ventennale storia della Repubblica bolivariana ha disertato le urne, o ha sabotato in tutti i modi le elezioni? E perché quando è risultata maggioritaria in parlamento – con quelle stesse istituzioni che poi ha misconosciuto – ha avuto come unico obiettivo quello di distruggere la costituzione?
Riguardo al Venezuela, si è imposto un racconto artificioso e di stampo neocoloniale alfine di presentare un paese in guerra, ingovernabile come la Somalia. Nessuno è sembrato volersi chiedere nella cosiddetta comunità internazionale e tanto meno sui grandi media perché si sia finito per assumere, per finanziare e per favorire il punto di vista dei dinamitardi, dei golpisti e dei sabotatori che hanno come unico obiettivo quello di riportare indietro l’orologio della storia: ai tempi della IV Repubblica, quando le elite che piacevano agli USA si spartivano il paese.
Soltanto le cifre che girano intorno alla vendita del petrolio, in un paese che ne possiede le prime riserve al mondo, sono da capogiro, per non parlare dell’oro, dei diamanti, del coltan, che abbondano in Venezuela. Averle messe al servizio dei settori popolari, aver portato il paese a bruciare le tappe non solo in termini di ricchezza ma di abbattimento delle disuguaglianze è risultato un affronto insopportabile nel quadro di un sistema-mondo dominato dalla ricerca del profitto.
Il contrattacco dei grandi poteri multinazionali era cominciato già quando Chavez era in vita, ma si è intensificato e moltiplicato dopo la sua scomparsa, complice una congiuntura economica sfavorevole, che ha reso più facile gettare la croce addosso a Nicolas Maduro.
Ma davvero qualcuno può pensare che, per quanto ricco, un paese del sud globale possa inventarsi da solo soluzioni economico-finanziarie così potenti e innovative da imporsi – e senza dover pagare i costi – nello scacchiere internazionale in meno di due decenni?
E questa è la principale domanda da porsi per comprendere e valorizzare la resistenza del proceso bolivariano, che dura da vent’anni. Ricordiamo che la primavera di Allende è crollata sotto i colpi di un attacco simile dopo tre anni, e nonostante esistesse ancora nel mondo un’alternativa concreta al capitalismo, quella dell’Unione Sovietica e della Cina. In questo quadro si inseriscono i quesiti storici che ogni governo rivoluzionario deve affrontare, tanto più se ha vinto attraverso le urne e non con le armi, e deve dunque navigare in un esercizio permanente tra conflitto e consenso.
Convincere o reprimere? Includere o espellere? Mediare o dividere? Domande a cui, in una realtà internazionale dominata dal capitalismo concorrono molte e complesse varianti, che rendono a volte sfumate le risposte. Vi è infatti un piano astratto, filosofico, concettuale in cui porre il rapporto tra conflitto e consenso e uno politico, concreto, praticabile. Il primo definisce l’orizzonte a lungo termine, il secondo l’agenda di azione e il livello di compromesso accettabile per realizzarla. I principi, come i rivoluzionari hanno sempre saputo, sono una guida per l’azione e l’azione per essere trasformatrice dev’essere efficace. Deve, cioè, affrontare salti e rotture ma senza perdere l’orientamento. E l’esito è tutt’altro che scontato, soprattutto a fronte dei tradimenti di quanti, passati dal campo degli sfruttati a quello degli sfruttatori, ora gridano che non ci siano alternative al capitalismo.
Per questa ragione, è importante inquadrare i termini del conflitto e la posta in gioco. In Venezuela si confrontano due diversi modelli di sviluppo, uno predatore e vorace, l’altro egualitario e circolare. Un laboratorio in cui precipitano, fatte le debite proporzioni storiche, le questioni rimaste in sospeso nelle rivoluzioni precedenti. Quella che, insieme a Trump e ai suoi seguaci, contrasta con ogni mezzo il governo bolivariano è un’opposizione di stampo golpista e fascista, che vuole imporre le stesse ricette neoliberiste applicate in Europa e gradite alle grandi istituzioni internazionali.
Basta scorrere le leggi che, dal 2015 a oggi, ha approvato l’Assemblea Nazionale, dichiarata “in ribellione” dal Tribunal Supremo de Justicia, massimo organo deputato a mantenere l’equilibrio dei cinque poteri di cui si compone l’istituito venezuelano. Aver chiara la natura del fascismo e le cause che lo determinano resta quindi fondamentale, sia nell’Europa della xenofobia – dove una ex-sinistra disincarnata e subalterna ai poteri forti cerca di rifarsi una credibilità assumendo la bandiera dell’”antifascismo” senza lotta di classe- , sia in Venezuela.
A questo proposito, vale tornare al discorso sul fascismo che Bertolt Brecht ha pronunciato al I Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, nel 1935. “Se l’origine del fascismo sia da ricercare nella proprietà privata dei mezzi di produzione – scrive Brecht -, è un problema su cui si può discutere a lungo, fino a far crescere barbe tali da coprire i tavoli di cento congressi. Una cosa però mi pare sicura: senza la speranza di poter ostruire, far inaridire la fonte della barbarie eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione, oggi nessuno potrà essere un combattente fidato contro il fascismo”. Da qui il suo invito: “Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!”.