Una guerra contro l’incultura

Nel giugno del 1961, Fidel annunciò che Cuba avrebbe sferrato «una guerra contro l’incultura», a tre anni della sua scomparsa fisica, abbiamo il dovere di dare continuità a questa sua «guerra»che continua ad essere sua e anche nostra

Abel Prieto http://it.granma.cu

Nel giugno del 1961, Fidel annunciò che Cuba avrebbe sferrato «una guerra contro l’incoltura» e chiese agli intellettuali e agli artisti di tutte le tendenze e di tutte le generazioni di porre il loro talento al servizio di questo impegno prioritario.

Era ugualmente una guerra contro la manipolazione delle coscienze, contro il colonialismo culturale e a favore della pienezza e l’emancipazione dell’essere umano. Le nozioni di Martí sulla funzione liberatrice della cultura facevano già parte del nucleo centrale del pensiero di Fidel.

Cuba abbandonava la sua condizione di neocolonia degradata per trasformarsi in una Repubblica sovrana, giusta, degna ispirata agli ideali martiani e marxisti .

I complessi «plattisti» d’inferiorità e lo sguardo ossessivo e servile verso il nord sarebbero stati esiliati

La patria e i suoi figli sarebbero co`si liberi da tutti punti di vista, politico, economico, spirituale.

La Rivoluzione aveva già fondato l’Icaic , la Casa de las Américas, la Imprenta Nacional ( la tipografia nazionale),la Scuola degli Istruttori d’Arte, e si trovava alla metà della campagna d’alfabetizzazione.

Il Congiunto Folclorico Nazionale, sorto nel 1962, avrebbe collocato nei principali circuiti nazionali di diffusione la vigorosa cultura popolare cubana tanto disprezzata dall’oligarchia razzista e a favore degli yankee.

Presto l’Isola bloccata e vilipesa avrebbe avuto un sistema d’insegnamento artistico dal livello elementare a quello universitario. Il paese si riempì di scuole d’arte, case di cultura, librerie, musei e gallerie.

Fidel appoggiò personalmente la nascita di editoriali e tipografie provinciali per diffondere l’opera di scrittori inediti o poco conosciuti e trasformò la Fiera del Libro de L’Avana in un’affollatissimo incontro che avrebbe poi percorso il territorio nazionale.

Quella vocazione per la diffusione di massa supponeva concessioni estetiche?

La Rivoluzione avrebbe fatto uso di papille pseudo culturali per attrarre i settori meno preparati della popolazione?

Il modello yankee che rincretiniva, «della cultura di massa» er ala via appropriata? O forse il modello sovietico del «realismo socialista», con il suo carico di didattica e gli «eroi positivi» di cartapesta? Definitivamente no.

La risposta della politica culturale fidelista all’antichissimo dilemma qualità-massa non si poteva cercare nelle semplificazioni.

Si doveva promuovere il meglio della cultura cubana e universale, anche le manifestazioni più sperimentali e difficili e accompagnare questo lavoro con la formazione dei pubblici attraverso la partecipazione attiva nei processi culturali, negli spazi di critica specialistica, nei media e il fomento di laboratori d’apprezzamento che aiutassero a decifrare codici di maggior complessità.

Si riuscì così a contare con riceventi partecipativi, esigenti, per espressioni artistiche considerate «minorí», come il cinema d’arte, il balletto classico, la danza contemporanea e la vertente concettuale delle arti visive. Non dimentichiamo che Fidel fu l’ispiratore della Biennale de L’Avana che si disegnò su due precetti: non sarebbe stato un evento commerciale e avrebbe dato uno spazio preferenziale agli artisti del sud.

Il laboratorio d’apprezzamento più ambizioso fu il programma televisivo “Università per Tutti” che iniziò con un corso di tecnica narrativa del Centro Onelio Jorge Cardoso, diretto da Eduardo Heras León.

L’iniziativa sorse da uno scambio tra Fidel e Heras in una riunione della Uneac. Sino a quel momento il Centro impartiva cicli di lezioni concepiti per un piccolo gruppo di giovani rigorosamente selezionati, compressi in una stretta aula e si trasformò rapidamente in un forum enorme, con centinaia di migliaia di alunni.

Ed è che gli alleati più vicini a Fidel nella sua «guerra contro l’incultura» furono i creatori d’avanguardia.

Incontrò prestigiosi musicisti, artisti della pittura e la scultura, scrittori, autori teatrali, storiografi, coreografi e ballerini ogni volta che decideva di fomentare un progetto culturale, come quando riprese la formazione degli istruttori d’arte e delle bande municipali di concerto, quando appoggiò risolutamente la Rete degli Intellettuali, Artisti e Movimenti Sociali «In difesa dell’Umanità»; quando divenne un attivo partecipante dei Congressi e dei Consigli Nazionali della Uneac, la Upec e la AHS.

Fidel parafrasava spesso Martì, quando ripeteva: «Senza cultura non c’è libertà possibile».

Perché la persona ignorante, senza radici né memoria, vuota d’idee, non può essere libera nè ha la capacità di difendersi di fronte al dominio.

Il suo «dispositivo per pensare da soli» è stato smontato dalla macchina pubblicitaria e dalla manipolazione del capitalismo.

Dicono a una persona che cosa deve comparare, cosa deve mangiare, chi ammirare, chi votare, e cosi (sino a che le basterà il denaro)  comprerà e mangerà secondo le indicazioni ricevute.

E ovviamente ammirerà i «famosi» che le corrisponderanno e darà il suo voto al candidato favorito anche se non rappresenta in assoluto il suo interesse.

La cultura, tanto per Fidel come per Martí, influisce inoltre in una zona dell’essere umano che è difficile descrivere: quella che chiamiamo abitualmente «dei valori». L’arte genuina estrae il meglio delle persone, rinforza il loro senso etico, le aiuta a crescere, pone ai primi termini la spiritualità, frena la condotta marginale e violenta e risulta il miglior antidoto di fronte alla predica consumista e al paradigma competitivo del capitalismo.

Fidel diceva che i meccanismi «educativi» del capitalismo appellano all’egoismo e all’esacerbazione degli istinti e delle ambizioni individuali, mentre il socialismo deve appellare alla solidarietà, alla fraternità e lottare contro gli impulsi più primari dell’essere umano.

Per questo sono tanto importanti gli apprezzamenti artistici e la presenza dell’arte non commerciale o banale, le istituzioni educative della cultura associate alla formazione delle nuove generazioni, una delle prime missioni  della Brigata José Martí degli Istruttori d’Arte.

Anche se dispiace, dobbiamo riconoscere che ci sono stati dei passi indietro. Non abbiamo saputo frenare l’influenza in determinate zone della vita culturale del paese del grande piano di ri-colonizzazione globale capitalista che genera un clima frivolo che inquina tutto e conta con la capacità moltiplicatrice delle reti sociali.
Fidel condivideva la fede mariana nel miglioramento umano. Questo deve continuare, perché è il principio basico per affrontare le sfide del presente e usare tutte le vie, e anche le reti, per difendere i nostri valori e l’opera culturale della Rivoluzione.

«Perché vogliamo caserme, se quello che manca sono le scuole? Disse Fidel nel settembre del 1959, all’inizio dell’anno scolastico a Città Libertà, e stava già ovviamente pensando alla «guerra contro l’incultura».

A tre anni dalla sua scomparsa fisica abbiamo il dovere di dare continuità a questa guerra sua, che continua ad essere la sua e che è anche nostra.

 

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