L’assedio ed i collassi

José Roberto Duque  https://medium.com/@misionverdad2012

José Toro Hardy, ricco dalla nascita e pedina USA sulla via della restaurazione della colonia USA che eravamo, è stato un entusiasta difensore delle misure imperiali verso la resa dei venezuelani per stanchezza, per fame e per collasso del nostro accesso all’energia. Qualche giorno fa ha lanciato un tweet da collezione: “Per un mese e mezzo, non è arrivata l’acqua a casa mia. Finalmente è arrivata. Quindi la benzina, niente per quasi due mesi. Ma finalmente ieri ho potuto riempire il serbatoio dopo ore di fila. E la scorsa notte, per finire, è andata via la luce. Quanto durerà questa disgrazia?”

Dice la canzone di Gino González: “Il mondo sta andando così e così/ perché ora non termina solamente per il misero…”.

Viviamo nell’era della democratizzazione del collasso, della divisa gettata dallo scivolo o dal burrone dei tempi attuali. Ci sarà chi può ancora schivarla.

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Molta gente non ricorda o non sa cosa sia un assedio o “blocco” (lo metto tra virgolette per non confondere all’inizio con il sinonimo più ovvio, luogo), concetto o metodo della guerra di tutti i tempi in cui un esercito circonda una popolazione e procede a bloccare completamente l’accesso ad alimenti, acqua, beni e tutto ciò che consente il funzionamento sociale e persino la vita umana, al fine di far arrendere la popolazione ed anche l’esercito che la difende.

Il blocco archetipico, la città assediata per antonomasia, è Troia circondata dagli achei per dieci anni. Migliaia di storie e notizie di blocchi o assedi hanno trasceso in diversi momenti della storia umana, che è la storia della guerra.

Cartagena de Indias (Colombia) fu assediata più volte nella sua storia. Nel più famoso di questi blocchi o assedi (agosto-dicembre 1815, in piena Guerra di Indipendenza) l’esercito difensore era sotto il comando del generale neo-granadino Manuel del Castillo y Rada, la cui missione era impedire che Pablo Morillo e Tomás Morales entrassero con i loro truppe.

C’era un gruppo di venezuelani in città: José Francisco Bermúdez, Antonio José de Sucre, Pedro Gual, Pedro León Torres, Mariano Montilla, Carlos Soublette: la storia del Venezuela e quella dell’America sarebbero state diverse se Morillo avesse perpetrato un massacro con simili personaggi all’interno.

Cartagena rimase totalmente bloccata per terra, mare e dal fiume Magdalena, le sue tradizionali rotte di rifornimento di beni. Col passare dei giorni e delle settimane, gli abitanti iniziarono a morire di fame; diverse testimonianze affermano che si praticò il cannibalismo. E lo scambio di colpi non si fermò; la difesa aveva una scorta limitata di munizioni, ma la teneva.

Cavalli, cani, ratti ed ogni animale che stava morendo divenne parte della fonte proteica degli abitanti di Cartagena e la conseguenza più drammatica della profusione di cadaveri fu la peste. L’acqua potabile divenne una pozza sporca, non adatta al consumo umano; la città collassò in quasi tutte le sue forme di funzionamento.

Ma il comando militare decise di non claudicare, di non arrendersi. In ottobre gli abitanti di Cartagena rimossero dal comando Castillo y Rada e al comando di quel gran pacco fu designato l’orientale José Francico Bermúdez. Con una mossa degli spagnoli, un battaglione cercò di impadronirsi della collina di La Popa, elevazione a lato delle mura, e Carlos Soublette gli sparò e cannoneggiò con un gruppo di pazzi sull’orlo della fame.

Ditemi se quei tipi non meritano il numero di strade e piazze che portano i loro nomi.

La terza parte dei 18 mila abitanti di Cartagena morì in quell’assedio. Il 5 dicembre, ci fu un Incontro di Capi e Vicini Notabili, dopo di che il governatore civile Elías López de Tagle ordinò un tentativo disperato: imbarcare i principali capi militari e civili e spezzare l’assedio via mare.

Assunsero un corsaro francese di nome Luis Aury, che intraprese la fuga (in avanti) su diverse barche.

Duemila persone erano su quelle navi, la maggior parte delle quali fu intercettata e catturata dagli spagnoli. Altri naufragarono nella notte dei Caraibi. Circa 600 sopravvissero, tra cui i principali capi venezuelani, che non andarono a riposare né a riempirsi di cibo ma invece arrivarono ad Haiti, per imbarcarsi con Bolivar nella Spedizione de Los Cayos.

Quello stesso giorno l’esercito spagnolo entrò per impadronirsi della città e finì così l’assedio. Dicono le prime cronache di ciò che videro gli assedianti quando entrarono: “Uomini e donne, vivi ritratti della morte, si aggrappavano alle pareti per camminare senza cadere; tale era la fame orribile che avevano sofferto…ventidue giorni che non mangiavano altro che cuoio ammollato in vasche di conceria”.

Tra gli assedi più importanti del mondo contemporaneo dobbiamo menzionare quello d’Israele con la Palestina ed uno particolarmente crudele di soli 24 anni fa: Sarajevo da parte delle forze serbe.

La resistenza bosniaca, inferiore di numero ed in capacità militare, poteva fare ben poco a parte difendere precariamente il territorio, ma la popolazione si trovava di fronte ad una situazione di disumanità raramente vista: i bombardamenti coi mortai causavano stragi di persone ed edifici residenziali, ed i cecchini “cacciavano”, per le strade, i cittadini che uscivano in cerca di cibo. Uscire di casa era un’odissea che spesso finiva con la morte.

Un enorme tunnel scavato sino all’aeroporto permise, a volte, l’entrata d’elettricità, acqua e cibo in città, ma la gente doveva ingegnarsi su come uscire per cercare da vivere senza essere fatti a pezzo da bombe e dalle schegge.

L’assedio durò quattro anni; Il 64% della popolazione morì, scomparve o fuggì dalla città in quel periodo.

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Nell’Atlantico, solo questa settimana, una mezza dozzina di navi con carburanti e merci e petroliere dirette in Venezuela per caricare petrolio per varie raffinerie in Asia, hanno dovuto invertire la rotta perché gli USA hanno minacciato di far fallire le società che osassero entrare nelle acque venezuelane.

Il nostro precario tunnel con l’Iran ha funzionato, ma non ci sono garanzie che gli consentiranno di continuare a funzionare. Il Venezuela è un paese in cui entrano davvero poche risorse. Non ci sono soldi e i nostri macchinari produttivi hanno decenni di paralisi o stagnazione. Se si chiude totalmente il tappo che i paesi più potenti del mondo stanno già avvitando attorno ai nostri respiratori, la situazione attuale sembrerà privilegiata rispetto a ciò che sta arrivando.

E’ in atto uno dei più feroci blocchi o assedi contro un paese sovrano, in pieno XXI secolo, e persistono ancora atteggiamenti personali, egoistici, individualistici, figli di puttana. Ad esempio, quello di idioti illustri come il Toro Hardy, che si è stancato di chiedere ed applaudire l’annuncio del blocco o dell’assedio da parte USA e ora è personalmente distrutto o collassato perché privo di acqua, benzina ed elettricità.

Dà sollievo che anche i ricchi ed i traditori stiano soffrendo di qualcosa lontanamente simile ad una calamità. E altri atteggiamenti più inspiegabili o più difficili da descrivere: chavisti che sanno cos’è un blocco o assedio, che comprendono perfettamente qual è l’obiettivo, gli effetti e la portata di un blocco, blocco o un assedio su una popolazione, eppure si vedono così altezzosi e rumorosi che chiedono che i loro salari siano uguali a quelli dei paesi compiacenti con gli USA. O sarà che non abbiano capito che il blocco non è una retorica ma una minaccia concreta ed effettivamente in atto?

In Colombia ci sono preparativi per la guerra contro il Venezuela. Ci sono già stati saggi e tentativi di invasione ed assassinio; ciò si chiama guerra. Da quello stesso paese che ospita la sofferente Cartagena del 1815, tutto è pronto a tapparci mentre ci squartano; gli altri tappi sarebbero il Brasile, l’incomprensibile Guyana ed il multifattoriale Caribe.

Ma c’è gente che chiede a gran voce che questo paese funzioni normalmente, come se nulla stesse accadendo (e ci siamo rifiutati di parlare della pandemia in corso, in modo che il racconto non sembri più apocalittico).

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Esistono molti modi di collassare: come paese, come popolo, come società, come città, come famiglia; come gruppo. Si collassa personalmente, collassa corporalmente il sistema nervoso, collassano i sistemi digestivo, circolatorio e respiratorio. Ma c’è un collasso che sembra averci raggiunto prima degli altri: eticamente siamo a terra.

Alla putrefazione istituzionale di corpi in uniforme che si sono convertiti in bande criminali padroni di strade e territori, bisogna aggiungere la mania moltiplicante del caos, della corruzione come fenomeno cittadino, perché “ogni giorno un coglione esce in strada e chi lo afferra se lo tiene”.

La città capitalista collassa e crolla, ma l’unica cosa che non ha permesso il nostro collasso generale come paese è l’esistenza di un conglomerato che insiste nel credere a Chávez, a Bolivar e nel potenziale del popolo per l’organizzazione o per la legnata. Continueremo ad aggrapparci a questi fattori.


El asedio y los colapsos

Por José Roberto Duque

José Toro Hardy, rico de cuna y ficha de Estados Unidos rumbo a la restauración de la colonia norteamericana que fuimos, ha sido un entusiasta defensor de las medidas imperiales rumbo a la rendición de los venezolanos por cansancio, por hambre, por colapso de nuestro acceso a la energía. Hace unos días se lanzó un tuitazo de colección: “Durante mes y medio no llegó agua a mi casa. Por fin llegó. Entonces la gasolina, nada en casi dos meses. Pero por fin ayer pude llenar el tanque después de horas de cola. Y anoche, para remate se fue la luz. ¿Hasta cuando durará esta desgracia?”

Dice la canción de Gino González: “El mundo va majomenos / porque ahora no se acaba solamente pal pendejo…”.

Estamos viviendo la era de la democratización del colapso, de la uniforme lanzada por el tobogán o barranco de los tiempos que corren. Habrá quien todavía puede esquivarla.

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Mucha gente no recuerda o no sabe lo que es un asedio o “sitio” (lo pongo entre comillas para no confundir de entrada con el sinónimo más obvio, lugar), concepto o método de la guerra de todos los tiempos en los que un ejército rodea a una población y procede a bloquear totalmente el acceso de alimentos, agua, bienes y todo lo que permite el funcionamiento social e incluso la vida humana, con el objeto de rendir a la población y también al ejército que la defiende.

El sitio arquetípico, la ciudad sitiada por antonomasia, es la Troya rodeada por los aqueos durante diez años. Miles de relatos y noticias de sitios o asedios han trascendido en distintas épocas de la historia humana, que es la historia de la guerra.

Cartagena de Indias (Colombia) fue sitiada varias veces en su historia. En el más famoso de estos sitios o asedios (agosto-diciembre de 1815, en plena Guerra de Independencia) el ejército defensor estaba al mando del general neogranadino Manuel del Castillo y Rada, cuya misión era impedir que Pablo Morillo y Tomás Morales entraran con sus tropas.

Había un grupo de venezolanos en la ciudad: José Francisco Bermúdez, Antonio José de Sucre, Pedro Gual, Pedro León Torres, Mariano Montilla, Carlos Soublette: la historia de Venezuela y la de América hubiera sido distinta si Morillo hubiera perpetrado una masacre con semejantes personajes dentro.

Cartagena quedó totalmente bloqueada por tierra, por mar y por el río Magdalena, sus vías tradicionales de suministro de insumos. Al pasar los días y semanas los habitantes empezaron a morir de hambre en masa; varios testimonios dicen que se llegó a practicar el canibalismo. Y el intercambio de disparos no cesaba; la defensa tenía una reserva de municiones limitada, pero la tenía.

Caballos, perros, ratas y todo animal que iba muriendo pasaron a ser parte de la fuente de proteínas de los cartageneros, y la consecuencia más dramática de la profusión de cadáveres fue la peste. El agua potable se convirtió en un charco inmundo, no apto para el consumo humano; la ciudad colapsó en casi todas sus formas de funcionamiento.

Pero el mando militar decidió no claudicar, no rendirse. En octubre los pobladores de Cartagena destituyeron de la jefatura a Castillo y Rada, y al mando de aquel rolitranco de paquete quedó designado el oriental José Francico Bermúdez. En una jugada española, un batallón intentó apoderarse del cerro de La Popa, elevación al lado de las murallas, y Carlos Soublette los bajó a tiros y a coñazos con un grupo de locos al borde de la muerte por hambre.

Dime tú si esos tipos no se merecen la cantidad de calles y plazas que llevan sus nombres.

La tercera parte de los 18 mil habitantes que tenía Cartagena murió en ese sitio. El 5 de diciembre hubo una Junta de Jefes y Vecinos Notables, tras la cual el gobernador civil Elías López de Tagle ordenó un intento desesperado: embarcar a los principales jefes militares y civiles y romper el cerco por mar.

Contrataron a un corsario francés llamado Luis Aury, quien emprendió la huida (hacia adelante) en varias embarcaciones.

Dos mil personas iban en esos barcos, la mayoría de las cuales fue interceptada y capturada por los españoles. Otras naufragaron en la noche del Caribe. Unos 600 sobrevivieron, entre ellos los principales jefes venezolanos, que no se fueron a descansar ni a jartarse de comida sino que llegaron a Haití, a embarcarse con Bolívar en la Expedición de Los Cayos.

Ese mismo día entró el ejército español a apoderarse de la ciudad y así concluyó el sitio. Dicen las primeras crónicas de lo que vieron los sitiadores al entrar: “Hombres y mujeres, vivos retratos de la muerte, se agarraban de las paredes para andar sin caerse; tal era el hambre horrible que habían sufrido… veinte y dos días hacía que no comían otra cosa que cueros remojados en tanques de tenería”.

De los sitios más notables del mundo contemporáneo hay que citar al de Israel sobre Palestina, y uno particularmente cruel de hace apenas 24 años: el de Sarajevo por parte de las fuerzas serbias.

La resistencia bosnia, inferior en número y en capacidad militar, poco podía hacer aparte de defender precariamente el territorio, pero la población se vio enfrentada a una situación de una inhumanidad pocas veces vista: los bombardeos con morteros causaban estragos en personas y edificios residenciales, y los francotiradores “cazaban” en las calles a los ciudadanos que salían a buscar alimentos. Salir de la casa era una odisea que muchas veces terminaba con la muerte.

Un enorme túnel cavado hasta el aeropuerto permitió en algún momento la entrada de electricidad, agua y comida a la ciudad, pero la gente tenía que ingeniárselas para salir a buscar el sustento sin ser despedazada por las bombas y la metralla. El asedio duró cuatro años; 64% de la población murió, desapareció o huyó de la ciudad en ese período.

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En el Atlántico, solo esta semana, media docena de barcos con combustibles y bienes, y cargueros que se dirigían a Venezuela a cargar petróleo rumbo a distintas refinerías en Asia, tuvieron que dar un giro y devolverse porque Estados Unidos amenazó con quebrar a las empresas que se atrevieran a ingresar a aguas venezolanas.

Nuestro precario túnel con Irán ha funcionado, pero no hay garantías de que le permitirán seguir funcionando. Venezuela es un país al que ingresa efectivamente muy pocos recursos. No hay dinero y nuestra maquinaria productiva tiene décadas de parálisis o anquilosamiento. Si se cierra totalmente el tapón que ya los países más poderosos del mundo están atornillando alrededor de nuestros respiraderos, la situación actual va a parecer privilegiada en comparación con lo que viene.

Está en marcha uno de los más feroces sitios o asedios contra un país soberano, en pleno siglo XXI, y todavía persisten actitudes personales egoístas, individualistas, coñoemadres. Por ejemplo la de idiotas ilustrados como el Toro Hardy, que se cansó de solicitar y aplaudir el anuncio del sitio o asedio por parte de Estados Unidos y ahora anda personalmente destruido o colapsado porque le falta el agua, la gasolina y la electricidad.

Da un fresquito que también los ricos y traidores estén sufriendo algo remotamente parecido a una calamidad. Y otras actitudes más inexplicables, o más difíciles de calificar: chavistas que saben qué es un sitio o asedio, que entienden perfectamente cuál es el objetivo, los efectos y el alcance de un bloqueo, sitio o asedio sobre una población, y sin embargo se ven tan altivos y vociferantes exigiendo que sus salarios sean iguales a los de países complacientes con Estados Unidos. ¿O será que no han entendido que el bloqueo no es una retórica sino una amenaza concreta y efectivamente en marcha?

En Colombia hay preparativos de guerra contra Venezuela. Ya ha habido ensayos e intentos firmes de invasión y de magnicidio; eso se llama guerra. Desde ese mismo país que alberga a la Cartagena sufriente de 1815 está todo dispuesto para taponearnos mientras se nos descuartiza; los otros tapones serían Brasil, la incomprensible Guyana y el multifactorial Caribe.

Pero hay gente exigiendo a gritos que este país funcione normalmente, como si no estuviera pasando nada (y nos hemos negado a hablar de la pandemia en curso, para que no suene más apocalíptico el recuento).

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Hay muchas formas de colapsar: como país, como pueblo, como sociedad, como ciudad, como familia; grupalmente. Se colapsa personalmente, colapsa corporalmente el sistema nervioso, colapsan los sistemas digestivo, circulatorio, respiratorio. Pero hay un colapso que parece habernos alcanzado antes que otros: éticamente andamos por el suelo.

A la putrefacción institucional de cuerpos uniformados que se han convertido en bandas criminales dueñas de carreteras y de territorios, hay que agregar la manía multiplicadora del caos, la corrupción como fenómeno ciudadano, porque “todos los días sale a la calle un güevón y el que lo agarre es de él”.

La ciudad capitalista colapsa y se viene abajo, pero lo único que no ha permitido nuestro colapso general como país es la existencia de un conglomerado que se empeña en creer en Chávez, en Bolívar y en el potencial del pueblo para la organización o para la coñaza. A esos factores seguiremos aferrados.

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