Siamo i figli di Fidel

Quando le parole ed i fatti si fondono, quando la Medicina cessa di essere scienza e si converte, semplicemente, in umanesimo: la macchina fotografica cerca e trova quell’istante, in una mano che abbraccia, in un gesto protettivo, in gambe che si muovono con difficoltà. La responsabile delle infermiere dell’ospedale lo riassume nel documentario come segue: «i cubani ci hanno insegnato che i pazienti devono essere ascoltati, devono essere toccati, devono essere visitati

Enrique Ubieta Gómez  www.granma.cu

Il palcoscenico è stato un’enorme piattaforma coperta, o senza tetto, a seconda di come lo intendiamo, perché il tetto, così alto, è quasi nel cielo e non ci sono pareti, solo grandi colonne di ferro. È una vecchia fonderia di acciaio trasformata in parco, in una zona centrale di Torino. Una parte, che equivale a circa due isolati, è stata riservata, questa domenica, per un grande pranzo d’addio alla Brigata Henry Reeve, con 300 commensali -autorità della regione e della città, dirigenti e lavoratori dell’ospedale, pazienti guariti, membri di organizzazioni di amicizia con Cuba, brigatisti e diplomatici cubani- ed è la prima volta che si riunisce tanta gente, in maniera ufficiale nel post-emergenza. I nostri epidemiologi hanno aiutato ad organizzare le tavole ed i protocolli, per garantire che il virus non fosse un invitato in più. Noi brigatisti arriviamo in bicicletta, anche l’Ambasciatore cubano, José Carlos Rodríguez. Usciamo dall’Ospedale Covid-OGR e percorriamo, per 20 minuti, alcune strade centrali della città di Torino. Le bacchette sostenevano le bandiere di Cuba e dell’Italia. Indossavamo tutti la ​​nuova maglia della Brigata. La polizia ci apriva il passaggio.

Ora devo descrivere cosa è successo. Non appena ci siamo seduti (quattro persone in grandi tavoli, tenendosi a distanza) ci è stato chiesto un minuto di silenzio in memoria di quelli uccisi dal COVID. E poi i conducenti hanno organizzato un adeguato lavaggio delle mani con gel idroalcolico. Poi è venuto il video che raccoglie alcune scene, appositamente editate per l’occasione, da uno dei documentari in preparazione sul lavoro della Brigata; questo, appartenente alla Road Television d’Italia. E’ stato il primo colpo, mi fermo qui.

Nei suoi 20 minuti, i medici Miguel, René, Abel e Julio compaiono nei loro compiti medici e lo spettatore non solo li ascolta, ma li vede anche agire. È quando parole e fatti si fondono, quando la Medicina cessa di essere scienza e si converte, semplicemente, in umanesimo: la macchina fotografica cerca e trova quell’istante, in una mano che abbraccia, in un gesto protettivo, in gambe che si muovono con difficoltà. La responsabile delle infermiere dell’ospedale lo riassume così nel documentario: “i cubani ci hanno insegnato che i pazienti devono essere ascoltati, devono essere toccati, devono essere visitati”. Ecco perché è scioccante quando quella anziana guarda il suo medico, i suoi infermieri e dice: «Posso dire una cosa? Vi amo tutti”. Miguel spiega la sua posizione: «Nessun medico può rimanere tranquillo in casa sua, si sa che ci sono migliaia di persone che stanno morendo; nessun dottore può vivere tranquillo così, io almeno non potrei». Lo dice semplicemente, senza posa alcuna. Abel spiega che da bambino, nel bel mezzo del periodo speciale, i cubani hanno ricevuto una grande donazione di alimenti dall’Italia, “abbiamo ricevuto l’aiuto di persone che non ti conoscono, questa era la mia occasione per dire al popolo italiano: io sono qui”. Non racconto questo per piacere. So che la musica, i tagli di edizione, esacerbano le emozioni, ma l’essenza è inamovibile. Tutti sentiamo l’emozione intrappolata nella gola e negli occhi. Ma ho visto Julio piangere, seduto ad un tavolo di fronte al mio. Julio, il capo giusto ed equo. Non è stato l’unico.

Successivamente, il pianista Giovanni Casella, ex paziente dell’OGR, ha accompagnato Ileana Jiménez in quattro brani. Ottima la sua interpretazione e la combinazione di entrambi. Casella, dopo aver sofferto il COVID, ha avuto difficoltà con le mani, ma ha dimostrato di averle superate. Dopo di loro, su uno schermo, si susseguono le foto indiscrete di Diana ed Andrea, due bravi fotografi professionisti assunti per seguirci. Dopo sono state lette lettere di pazienti dedicate a medici cubani ed estratti di alcune delle mie cronache tradotte in italiano. La descrizione di ciò che è accaduto non può essere enumerativa: ogni momento si infilava, ci scuoteva e sono stati così tanti che non petto per contenerli.

L’Ambasciata cubana ha conferito diplomi di riconoscimento ai dirigenti dell’ospedale, a Michele Curto, ovviamente, che ha organizzato questa e tutte le attività della Brigata e ci ha accompagnato dentro e fuori dalla zona rossa. Irma Diolli e Rocco sono intervenuti a nome dell’Associazione d’Amicizia. Ci sono stati abbracci tra italiani e cubani. Il nastro dei cento pazienti dimessi è stato tagliato in due: una parte, resta in Italia, l’altra viaggia con noi a Cuba.

Ieri, come preambolo dell’addio, abbiamo reso due tributi necessari: siamo andati alla Piazza Che Guevara, la prima (l’unica?) d’Europa, e poi siamo saliti al Pico Fidel Castro, situato a 1600 metri sul livello del mare, la stessa altezza che ebbe la Comandancia (il quartier generale ndt) de La Plata nella Sierra Maestra. Il sentiero acciottolato è pura salita e non siamo in buona forma. Ma ci siamo arrivati ​​(e non sono stato l’ultimo). Lassù abbiamo cantato l’Inno Nazionale, accanto al pezzo di caguairán (legno ndt) che porta scolpito il nome del nostro Comandante in Capo. Siamo i suoi figli.


Somos los hijos de Fidel

Cuando las palabras y los hechos se funden, cuando la Medicina deja de ser ciencia, y se convierte, simplemente, en humanismo: la cámara busca y encuentra ese instante, en una mano que abraza, en un gesto protector, en unas piernas que se mueven con dificultad. La jefa de enfermeras del hospital lo resume en el documental así: «los cubanos nos enseñaron que los pacientes deben ser escuchados, deben ser tocados, deben ser visitados

Autor: Enrique Ubieta Gómez

El escenario fue una enorme plataforma techada, o sin techo, depende de cómo lo entendamos, porque el techo, de tan alto, casi está en el cielo, y no hay paredes, solo grandes columnas de hierro. Es una antigua fundición de acero convertida en parque, en una céntrica zona de Turín. Se reservó este domingo una parte, que equivale, aproximadamente, a dos cuadras, para un gran almuerzo de despedida a la Brigada Henry Reeve, con 300 comensales –autoridades de la Región y de la ciudad, directivos y trabajadores del hospital, pacientes recuperados de alta, miembros de organizaciones de amistad con Cuba, los brigadistas y los diplomáticos cubanos–, y es la primera vez que se reúne tanta gente de manera oficial en la posemergencia. Nuestros epidemiólogos ayudaron a organizar las mesas y los protocolos, para garantizar que el virus no fuese un invitado más. Los brigadistas llegamos en bicicleta, también el Embajador de Cuba, José Carlos Rodríguez. Salimos del Hospital covid–ogr, y recorrimos, durante 20 minutos, algunas céntricas calles de la ciudad de Turín. Los punteros sostenían las banderas de Cuba y de Italia. Todos llevábamos el nuevo pulóver de la Brigada. La policía nos abría el paso en la vía.

Ahora me toca describir lo que sucedió. Apenas nos sentamos (cuatro personas en mesas grandes, guardando distancia) se nos pidió un minuto de silencio en memoria de los fallecidos por la COVID. Y a continuación, los conductores escenificaron un lavado correcto de manos con gel hidroalcohólico. Entonces vino el video que recoge algunas escenas, especialmente editadas para la ocasión, de uno de los documentales que se preparan sobre la labor de la Brigada; este, perteneciente a la Road Television de Italia. Fue el primer golpe, me detengo aquí.

En sus 20 minutos, los doctores Miguel, René, Abel y Julio, aparecen en sus faenas médicas, y el espectador no solo los escucha, también los ve actuar. Es cuando las palabras y los hechos se funden, cuando la Medicina deja de ser ciencia, y se convierte, simplemente, en humanismo: la cámara busca y encuentra ese instante, en una mano que abraza, en un gesto protector, en unas piernas que se mueven con dificultad. La jefa de enfermeras del hospital lo resume en el documental así: «los cubanos nos enseñaron que los pacientes deben ser escuchados, deben ser tocados, deben ser visitados». Por eso es impactante cuando esa anciana mira a su doctor, a sus enfermeros y dice: «¿Puedo decir una cosa? Yo los quiero a todos». Miguel explica su posición: «Ningún médico puede quedarse tranquilo en su casa, si sabe que hay miles de personas muriendo; ningún médico puede vivir tranquilo así, yo al menos no podría». Lo dice con sencillez, sin pose alguna. Abel explica que, de niño, en pleno periodo especial, los cubanos recibieron una gran donación de alimentos de Italia, «recibimos esa ayuda de personas que no te conocen, esta era mi oportunidad de decirle al pueblo italiano: estoy aquí». No cuento esto por gusto. Sé que la música, los cortes de edición, exacerban las emociones, pero la esencia es inamovible. Todos sentimos la emoción atrapada en la garganta y en los ojos. Pero vi a Julio llorar, sentado en una mesa frente a la mía. Julio, el jefe justo y ecuánime. No fue el único.

Seguidamente, el pianista Giovanni Casella, expaciente de la OGR, acompañó a Ileana Jiménez en cuatro piezas. Excelente su interpretación y el acople de ambos. Casella, después de padecer la COVID, había tenido dificultades con sus manos, pero demostró haberlas superado. Tras ellos, en una pantalla, se sucedían las fotos intrusas de Diana y Andrea, dos buenos fotógrafos profesionales contratados para seguirnos la pista. Se leyeron después cartas de pacientes dedicadas a los médicos cubanos y fragmentos de algunas de mis crónicas traducidas al italiano. La descripción de lo sucedido no puede ser enumerativa: cada momento se metía adentro, nos removía, y fueron tantos, que no tengo pecho para abarcarlos.

La Embajada cubana entregó diplomas de reconocimiento a directivos del Hospital, a Michele Curto, desde luego, que organizó esta y todas las actividades de la Brigada, y nos acompañó dentro y fuera de la zona roja. Irma Diolli y Rocco hablaron a nombre de la Asociación de Amistad. Hubo abrazos entre italianos y cubanos. La cinta de los cien pacientes de alta se cortó en dos: una parte, se queda en Italia, la otra viaja con nosotros a Cuba.

Ayer, como preámbulo de despedida, rendimos dos homenajes necesarios: fuimos a la Plaza Che Guevara, la primera (¿la única?) de Europa, y después subimos al Pico Fidel Castro, ubicado a 1 600 metros sobre el nivel del mar, la misma altura que tuvo la Comandancia de La Plata en la Sierra Maestra. El camino, empedrado, es pura subida, y no estamos en buena forma. Pero llegamos (y no fui el último). Allá arriba cantamos el Himno Nacional, junto al trozo de caguairán que lleva esculpido el nombre de nuestro Comandante en Jefe. Somos sus hijos.

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