di Geraldina Colotti
Guardando alla lunga militanza di figure come quella di Julio Rafael Chávez Melendez, ci si può rendere conto di quanto arduo sia il progetto imperialista di cancellare dalla società venezuelana il socialismo bolivariano. Classe 1966, membro della direzione nazionale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), Julio è uno dei quadri più completi di cui si avvale la rivoluzione, a suo agio sia in piazza che negli organi di governo, attento, inclusivo e creativo. Dirigente studentesco e universitario negli anni della IV Repubblica, nei governi di Chavez e poi di Nicolas Maduro ha svolto numerosi incarichi: sempre portando avanti esperienze di potere popolare come quella dell’assemblea municipale costituente, quando, tra il 2004 e il 2008, è stato eletto sindaco di Carora, capitale dello Stato Lara, sua regione di provenienza. Con lo stesso spirito, ha continuato come deputato al Parlamento e poi nell’Assemblea Nazionale Costituente, dove dirige la commissione dedicata alle Comunas.
Che importanza ha avuto per te il movimento civico-militare guidato da Hugo Chávez, che ricordi hai del Comandante?
Per noi studenti, che animavamo le proteste di quegli anni, confluite nella rivolta del Caracazo contro il secondo governo del socialdemocratico Carlos Andrés Pérez, quella con il movimento di Chavez è stata un’unità di ideali più che di partito. Avevamo contatti con gli ufficiali dell’MBR200 che avrebbero realizzato la ribellione civico-militare del 4 febbraio 1992, ma non eravamo militanti. I nostri partiti di riferimento erano la Causa R e Patria Para Todos, dove c’erano Alí Rodriguez Araque, Aristobulo Isturiz, Pablo Medina… Condividevamo però gli stessi ideali di libertà, giustizia sociale, sovranità nazionale, lotta alla corruzione e per i diritti dei lavoratori, espressi nel Libro Azzurro. Dopo il fallimento del 4 febbraio e prima della ribellione civico-militare del 27 novembre dello stesso anno, come dirigente studentesco dell’Università sperimentale politecnica di Barquisimeto ho avuto il compito di andare a trovare gli ufficiali detenuti nel carcere di Yare e di tenere i contatti con quelli rimasti ai posti di comando di importanti battaglioni in tutto il paese. Nonostante fossero state sospese tutte le garanzie costituzionali, tenemmo riunioni clandestine con i dirigenti popolari della regione, e riuscimmo a organizzare nell’auditorio dell’università la prima assemblea nazionale del movimento bolivariano, a cui parteciparono delegati di 17 stati. Quando Chávez è uscito dal carcere, durante la prima visita alla mia città natale, lo abbiamo accolto clandestinamente nella casa di un noto medico e dirigente comunista, il dottor Luis Rojas. Nel 2004, la coalizione con cui mi sono presentato – composto dal PCV, PPT, MEP, Abre Brecha e altri, ha vinto sul candidato dell’MBR200, ma la nostra politica era guidata dagli ideali di Chavez, che ci hanno uniti. Uno dei ricordi più belli è stato quando ha risposto alla mia lettera per giuramentare i costituenti municipali, inviando in rappresentanza il governatore Luis Reyes Reyes. Sono stato co-redattore della prima legge sui Consigli Comunali. Noi siamo stati i primi a iscriverci nel PSUV, rispondendo al suo appello. Ho molti ricordi indelebili di Chavez, della sua visionarietà anticipatrice, e della sua profonda umanità, capace di piantare con fermezza la bandiera del socialismo, ma anche di unire, di riconoscere, come ha fatto con me, il lavoro politico con parole che ti mettevano entusiasmo e voglia di andare avanti oltre ogni difficoltà. I suoi consigli e le sue riflessioni, in primo luogo il costante invito a non abbandonare i principi rivoluzionari e l’etica, mi accompagnano permanentemente.
Che congiuntura attraversa il proceso bolivariano?
In questi primi 20 anni, siamo passati per diverse tappe: la rifondazione dei primi anni, con l’approvazione della prima Costituzione della V Repubblica, poi un processo di ampio confronto e discussione riguardo all’acutizzazione delle contraddizioni del proceso. Ora siamo in un momento più complesso che ci deve portare a approfondire il processo rivoluzionario bolivariano, comprendendo che siamo alla vigilia della transizione tra un sistema egemonico unipolare decadente, guidato dagli USA e dall’Europa e l’emergere di un mondo multicentrico e pluripolare, nel quale si situa la rivoluzione insieme a Cina, Russia, Iran… In questo quadro, il modo in cui supereremo l’aggressione multiforme dell’imperialismo che cerca di cancellarci dalla mappa, il modo in cui supereremo la pandemia da Covid-19 a fianco di chi sta costruendo questa nuova multipolarità, sarà determinante. Quel che succederà in Venezuela nel prossimo futuro influenzerà le sorti della regione e anche dell’umanità.
Tu hai avuto un ruolo determinante nel processo di dialogo con l’opposizione moderata e all’interno del Parlamento “in ribellione”. Qual è il quadro e quali sono le prospettive?
Nelle elezioni parlamentari del 2015, l’opposizione per poco non era arrivata a una maggioranza dei 2/3. Ma era tanta l’ansia di cancellare la rivoluzione bolivariana, che non ha saputo approfittare di quel risultato. Agendo con arroganza e prepotenza, ha finito per sprecare l’occasione, per decomporsi e per consentire al gruppo di 54 parlamentari chavisti che rappresentavano il Blocco della Patria, di fare muro e riprendere il vantaggio. Nella prima fase, con Ramos Allup e Azione Democratica alla presidenza, ha promesso di farci fuori in sei mesi si è ostinata nell’oltraggio al Tribunal Supremo de Justicia, vulnerando un potere così importante com’è quello legislativo. Spinta dalla prepotenza degli USA, l’opposizione ha impedito il varo di un insieme di leggi importanti per l’inclusione sociale, ha cercato di debilitare lo Stato, di ostacolare tutti i processi amministrativi ponendo in pericolo la democrazia. Una strategia che si è rivelata perdente, perché ha finito per esacerbare le contraddizioni interne ai partiti, e per perdere l’orientamento generale nella prospettiva di nuovi scenari elettorali. Le contraddizioni si sono acuite con la presidenza di Julio Borges e poi di Juan Guaidó, ovvero con la gestione dei partiti Primero Justicia e Voluntad Popular, che hanno scelto la via del golpismo e del terrorismo e non quella della dialettica democratica. Questo, però, ha provocato l’allontanamento e il rigetto delle componenti moderate, anche a fronte dei numerosi scandali per corruzione che hanno definitivamente minato la credibilità della destra e eroso il suo capitale politico iniziale. La situazione è precipitata quando queste componenti hanno deciso di calpestare la costituzione, approvando quell’aberrante “statuto per la transizione” che avrebbe consegnato la sovranità nazionale all’imperialismo USA. Quando Voluntad Popular ha voluto continuare a presiedere il Parlamento “in stato di oltraggio” pur senza avere la maggioranza, si è verificata una sorta di ribellione interna di chi si trovava in disaccordo con quella politica di rapina. Con il supporto dei voti chavisti del Blocco della Patria, l’Assemblea Nazionale ha perciò cacciato quella direzione legata al terrorismo e eletto una nuova maggioranza, nella quale ha preso consistenza il processo di dialogo con l’opposizione che, pur essendo contro Maduro, è però più legata ai principi patriottici e nazionalisti, quindi rifiuta l’invasione militare del nostro paese e il saccheggio delle nostre risorse. Si sono pertanto create condizioni favorevoli all’elezione di un nuovo Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) per preparare le elezioni del 6 dicembre. Le nuove regole prevedono la partecipazione di un maggior numero di partiti, più parlamentari e più garanzie. Siamo convinti che il blocco chavista otterrà una nuova maggioranza per il 2021-2026, che consenta di archiviare questa brutta pagina e ridare nuova spinta al potere legislativo: un potere che deve controllare, rivedere, propiziare nuovi strumenti giuridici che consentano di affrontare adeguatamente i problemi della post-pandemia, nel rispetto dell’autonomia degli altri singoli poteri.
Questo accento sul dialogo e sulla mediazione, non rischia di far tornare indietro la rivoluzione, reintroducendo meccanismi e riflessi propri della IV Repubblica o della democrazia rappresentativa modello europeo?
L’innovativo concetto di democrazia partecipata e protagonista introdotto da Chavez, è avulso da altri sistemi esistenti nel continente o in Europa, democrazie parlamentari rappresentative, o monarchie. Detto questo, la nostra è una rivoluzione sotto assedio, e il rischio è sempre presente. Siamo un cattivo esempio per i governi neoliberisti della regione che vogliono perpetrare il sistema di accumulazione capitalista a scapito del lavoro e della vita stessa del pianeta. Tuttavia, il nostro popolo ha sperimentato i tempi dei governi neoliberisti, della Democrazia Cristiana, per più di 40 anni, ha sofferto le conseguenze di una economia asservita alla voracità industriale dei paesi “sviluppati” e alla tutela degli Stati Uniti. Sa fare la differenza tra le politiche di inclusione sociale ottenute con l’esercizio della democrazia partecipata e protagonista. Dovendo difendersi da molteplici attacchi in tutti questi anni, ha aumentato la propria coscienza di classe e continuerà a lottare per il risveglio del continente e per la propria liberazione.
Le elezioni del 6 dicembre si stanno organizzando in piena pandemia. Qual è la situazione del PSUV sul piano interno e rispetto ai partiti alleati del Gran Polo Patriottico?
Dopo la sconfitta del 2015, quando abbiamo perso la maggioranza in Parlamento, in tutte le strutture del partito, da quelle di direzione e quelle delle comunità, si è svolto un dibattito profondo. Nel Quarto Congresso si sono introdotte importanti modifiche nella struttura, nello statuto e nel Libro Rosso per approfondire il livello di partecipazione. Un dibattito politico importante che ha consentito una diagnosi precisa delle cause della sconfitta e le necessarie correzioni nella nostra organizzazione che, oltre a una formidabile macchina elettorale, è portatrice di un progetto strategico di trasformazione della società. Grazie alle nostre strutture territoriali, siamo in grado di recepire all’origine i problemi e le soluzioni richieste. Sappiamo esattamente il numero dei nostri militanti e il tipo di elettorato esistente. Abbiamo elevato il livello di formazione dei nostri quadri con un’adeguata politica di formazione e anche grazie all’interscambio con altri partiti nel mondo. La politica è una scienza e un’arte, non si improvvisa. Secondo i nostri calcoli, che non indulgono al trionfalismo o alla sottovalutazione, raggiungiamo oltre il 60% degli aventi diritto. Mentre l’opposizione è divisa e frazionata, il nostro partito è unito e coeso, in sintonia con i fratelli del Gran Polo Patriottico. Certo, sappiamo che i nostri nemici sono potenti, e che l’imperialismo butterà sul piatto moltissimo denaro. Siamo convinti, però, che la nostra vittoria si unirà a un cambiamento anche a livello regionale e che assisteremo a un risveglio dei popoli in Bolivia, in Ecuador, in Cile e che riusciremo a impedire la ricolonizzazione dell’America Latina e dei Caraibi.
Quali strategie sta mettendo in campo il governo bolivariano per far fronte alla pandemia e per affrontare il dopo?
Senza dubbio, il Covid-19 segnerà profondamente il Venezuela e il resto della regione, mettendoci di fronte alla necessità di profondi cambiamenti, anche dal punto di vista relazionale, nell’uso delle nuove tecnologie in campo educativo e informativo, nel ripensare tutto questo processo di rallentamento della quotidianità. Dovremo affrontare una profonda recessione mondiale in un sistema capitalista che vede l’aumento crescente del divario tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri. Aumenterà il peso del debito estero sull’economia, gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori verranno colpiti pesantemente. A fronte di questo, il Venezuela sta rafforzando le politiche di inclusione, con un’attenzione particolare alla salute, fidando sulla piattaforma del Sistema Patria, che consente una grande inchiesta sulla popolazione, sui suoi bisogni e sulle risposte più adatte per affrontare questo terribile virus e abbattere la curva dei contagi. La scelta del presidente Maduro di una quarantena sociale, radicale e volontaria, ha consentito di isolare intere città, abbiamo promosso il distanziamento sociale attraverso campagne pubblicitarie. Stiamo spiegando la necessità di cambiare abitudini rispetto alle norme di prevenzione, all’igiene, all’uso delle mascherine. La pandemia ha fatto riflettere l’umanità sulla pericolosità del capitalismo per gli esseri umani e per la pacha mama, ma cosa viene dopo? Prima di tutto, dal punto di vista socio-politico occorre riconoscere il fallimento dei governi che portano avanti politiche neoliberiste, come il Cile, il Perù, il Brasile, la Colombia, l’Ecuador, la Bolivia, eccetera, che hanno preservato l’accumulazione della ricchezza e non la sicurezza delle persone. A fronte della superiorità dimostrata dal sistema cubano o venezuelano che si muove in base a obiettivi opposti, occorre costruire un ampio fronte di lotta per liberarsi di questi governi inutili e dannosi. Per noi, si tratta di attingere a quella fonte inesauribile di ispirazione che è il bolivarianismo, riprendere l’idea originaria di Chavez, e rimettere in moto i processi di integrazione economica della regione in cui non si privilegi la competizione ma la complementarietà e la solidarietà. E qui, giocano un grande ruolo partiti e movimenti sociali, che devono canalizzare la vulcanica ribellione popolare che vediamo, per esempio, in Cile, in una piattaforma unitaria di lotta per un nuovo modello produttivo nella nuova normalità.
Cosa bisogna aspettarsi dagli attacchi degli USA e dell’Europa rispetto al Venezuela e al quadro regionale?
Da quando il popolo ha eletto come presidente Hugo Chavez, nel 1998, i nostri nemici storici si sono convinti che non avrebbero potuto “addomesticarlo” né comprarlo e che dovevano scegliere altre vie. Il punto di svolta si è dato nel 2000, quando Bill Clinton e Andrés Pastrana hanno firmato il Plan Colombia con la scusa di combattere il narcotraffico e il terrorismo. In realtà, come hanno testimoniato i documenti, l’obiettivo era quello di usare il governo servile di Colombia per creare una infrastruttura e attaccare con diverse forme il nostro territorio, approfittando della vicinanza geografica. Attacchi permanenti contro la sovranità e l’economia che hanno avuto un impatto negativo sull’alto indice di sviluppo umano raggiunto, sul potere d’acquisto dei lavoratori e delle lavoratrici. Sappiamo che non smetteranno perché il Venezuela possiede immense risorse energetiche e naturali, minerali strategici che fanno gola e che ci trasformano in un obiettivo da abbattere. Inoltre, dimostrare che è possibile edificare un sistema alternativo è, come ha ripetuto di recente Elliott Abrams al Senato, un cattivo esempio da stroncare. L’imperialismo vuole ri-colonizzare l’America Latina e i Caraibi per riportarla sotto la dottrina Monroe, al servizio degli interessi delle grandi multinazionali, delle loro burocrazie, e dello stato profondo che guida la politica nordamericana. Inventeranno, quindi sempre nuove aggressioni, ma il tempo ha dimostrato che questo non ha fatto che accrescere la nostra capacità di tenuta e la coscienza del popolo, e che ora sta compattando le economie come Cina, Russia, Iran, che si sentono aggredite dall’imperialismo. Un blocco emergente che sta rafforzando un nuovo centro finanziario spostandolo dall’Atlantico al Pacifico. Il Venezuela, con le sue grandi risorse aiuterà a inclinare in questo senso la bilancia. Per questo, l’anno scorso, insieme a Cuba, abbiamo organizzato gli incontri mondiali seguiti al Foro di San Paolo. Abbiamo convocato, nel continente e oltre, le forze di sinistra, i movimenti sociali per concordare un programma di lotta comune che permetta di costruire un blocco rivoluzionario basato sulla diplomazia dei popoli, sulla complementarietà e la solidarietà. Un progetto da riprendere con più forza in questa post-pandemia.