Alessandra Riccio – https://nostramerica.wordpress.com
Siamo alla fine del 2010. Napoli affoga sotto un diluvio di pioggia e di immondizia, il suo selciato di pesanti lastre di lava vesuviana restituisce il riflesso delle luci della città offuscato dal grigio cupo della pietra. Ma quando si alza lo sguardo, è la bella facciata neoclassica del teatro San Carlo a riempire gli occhi di luce e di armonia. Sotto il porticato si aprono le porte del nostro Massimo nell’abbagliante tripudio di stucchi e di oro che un restauro recente ha esaltato e riportato all’opulenza originaria. Nel Palco Reale, immerso nell’oscurità, due spettatori fuori dell’ordinario seguono i passi vivaci che esaltano la gioventù dei danzatori del Balletto Nazionale di Cuba impegnati nell’esecuzione di Elegia per un giovane, una coreografia in memoria di Fabio Di Celmo, l’uomo d’affari italiano vittima di un attentato terroristico a Cuba nel 1997.
Contro un fondale che sembra evocare gli scogli porosi su cui si affaccia l’albergo dell’Avana dove è esplosa la bomba che lo ha ucciso, Fabio e gli amici riempiono la scena di allegria, affabilità e gioia di vivere. Il pallone scorre fra l’uno e l’altro danzatore come a disegnare una rete di solidarietà di cui fa parte anche il padre, guida e compagno del giovane che dovrà vedersela, però, con le figure allegoriche della simulazione, della vanità, dell’ambizione, della frivolezza, della tirannide, della schiavitù. D’improvviso, una drammatica deflagrazione tinge di rosso il fondale mentre gli amici, sulle note della musica di Antonio Vivaldi, si ricompongono nella figurazione di una “pietà” commossa, piegata su quella vita assurdamente troncata. Il teatro scoppia in un grande applauso.
A me, che ho avuto la fortuna di assistere allo spettacolo dal Palco Reale, è toccato il privilegio di condividere un momento di commozione non previsto e forse neanche immaginato vista la distanza che di solito corre fra spettacolo e vita.
Seduti uno accanto all’altra, nella retorica di quel palco schiacciato dagli emblemi reali, assistevano allo spettacolo Alicia Alonso, coreografa di quel balletto, mito vivente della danza classica, prima ballerina assoluta, straordinaria e testarda animatrice e fondatrice del Balletto Nazionale di Cuba, e Giustino Di Celmo, il padre di Fabio, uomo d’affari e abile commerciante che ha venduto merci di ogni genere in mezzo mondo durante la sua lunga e avventurosa vita. Fanno centottanta anni in due questi sagittari nati a qualche giorno di distanza nel dicembre del 1920, e insieme si vantano di essere giunti ai novanta anni pieni di energia e di voglia di vivere.
Il loro lungo abbraccio fra le lacrime, mentre calava la tela sulla Elegia per un giovane, le loro sagome ormai esili e incerte stagliate contro il rosso carminio dei velluti del sipario, l’inatteso esplodere di quell’abbraccio lontano dalle luci dei riflettori dava tutta la misura della profondità di una tragedia – quella della perdita di un figlio – che ha coinvolto e sconvolto tutta Cuba, vittima, in quel triste 1997, di un’offensiva terroristica per la quale si attende ancora giustizia.
Ripenso ai numerosi incontri con Giustino all’Avana, città dove ha giurato di voler morire, e lo guardo qui, adesso, impeccabilmente vestito, energico come sempre e, d’un tratto, incapace di resistere all’emozione destata dall’omaggio che una delle più grandi ballerine e coreografe del mondo ha voluto rendere a suo figlio, la cui vita è stata troncata per la stupida crudeltà di un sicario e dei suoi mandanti, decisi a fare scomparire Fidel Castro e il suo regime a suon di bombe in quella drammatica estate del 1997.
Di Celmo è un pícaro napoletano, straordinariamente abile nell’arte d’arrangiarsi, dalla vita lunga e avventurosa, durante la quale è riuscito a sfuggire alla morte più di una volta. Nel 1940, ancora studente, viene mandato in guerra, dapprima sul fronte jugoslavo, poi a Tripoli, in Grecia, in Italia dove, nel ’44 sfugge per un pelo ai nazisti ma cade nelle mani degli americani che lo condannano a sette anni di reclusione per non aver rispettato il coprifuoco. E’ deportato in Sardegna dove trova sollievo alla galera dando lezioni ai figli del direttore del carcere; dopo due anni è libero e può tornare nella Napoli del dopoguerra, miserabile e senza opportunità anche per chi, come Giustino, è intraprendente e pieno di iniziative. Se ne va in Boemia a lavorare nelle miniere di carbone cecoslovacche, un lavoro terribile e durissimo che, tuttavia, offre la possibilità di rivendere qualche sacco di carbone per proprio conto e di mettere da parte qualche soldo. Due anni dopo liquida la sua esperienza di minatore partecipando a un grande sciopero indetto dal partito socialista ceco. Con la vendita del carbone ha scoperto i vantaggi del commercio e la sua vocazione di venditore; è abile nel creare rapporti, apprende facilmente le lingue, è lesto nel capire il carattere dell’eventuale compratore; compra orologi a Valenza Po e li rivende in Cecoslovacchia fino al 1950, quando torna a Napoli, ma lì, ancora una volta, non trova spazio per la sua intraprendenza.
E’ impaziente e sa che il mondo è ampio e vario. Parte per il Sud America, come tanti connazionali nel nostro ultimo dopoguerra, va in Argentina, ma non come un miserabile emigrante. Compra un biglietto di prima classe cogliendo al volo le occasioni offerte dall’intimità prodotta dalle lunghe giornate di navigazione su passeggeri eterogenei e in cerca di distrazioni. E’ lo stesso Giustino che ha raccontato la sua vita in un’autobiografia dove indulge molto al ricordo delle sue molteplici avventure amorose, ma non solo. Un tenore argentino lo prega di sostituirlo al tavolo del poker mentre lui, come nel più classico dei vaudeville, corteggia la bella moglie del giocatore inglese seduto allo stesso tavolino. E così che lo spavaldo napoletano può sbarcare a Buenos Aires con i soldi delle sue vincite al tavolo verde per tuffarsi in una nuova avventura, forse la più sbalorditiva, degna davvero di essere raccontata. Quel giovane uomo, impeccabilmente vestito, sbarcato dalla prima classe di un transatlantico con qualche soldo in tasca e davanti a sé l’ignoto, intuisce le possibilità di un commercio lungo il fiume Paranà, non compravendita, ma un baratto con le popolazioni indigene che può dare buoni incassi. Compra una precaria imbarcazione, La ligera, arruola due indios di El Chaco per il suo equipaggio, che completa con un meccanico tedesco di poche parole, amante della bottiglia ma un vero mago per l’asmatico motore de La ligera che sale e scende lungo il grandioso fiume esercitando il baratto con le popolazioni indigene.
Di Celmo offre, per il loro pesce, tutte quelle cianfrusaglie introvabili nella selva ma indispensabili. Nei lunghi silenzi della navigazione fra armatore e meccanico si stabilisce una sobria amicizia: i due europei imparano a conoscersi e Franz confessa di essere un ex soldato delle SS riuscito a salvare la pelle seppellendosi nella lontana terra argentina. Le voci anonime della selva informano il commerciante italiano che, arroccata su un colle impervio, vive la più abile pescatrice di surubí tigrato di tutto il Paraná; è una storia troppo intrigante perché il nostro Di Celmo se la lasci sfuggire. Lasciata l’imbarcazione, si arrampica sul colle impervio, entra nella squallida capanna per proporre il suo scambio alla donna, ma per poco non ci lascia la pelle. Doña María, infatti, è una specie di orchessa, degna dell’Odissea, forte, rozza e astuta ma non abbastanza da non lasciarsi ingannare dal piccolo Ulisse napoletano che riesce a guadagnare, indenne, le sponde del fiume. Il Paranà lo espone a grandi pericoli, ma ne vale la pena.
Di Celmo si ritira da quei traffici che gli hanno fruttato il 300 per cento di guadagno, si sposa per procura con una bella napoletana –ha già 36 anni – e si decide a una vita più tranquilla vendendo tessuti nella provincia argentina. Si vede costretto a lasciare quel paese quando viene a sapere di essere sorvegliato dalla polizia perché sospettato di simpatie comuniste; non aspetta di chiarire questa storia e decide che l’avventura argentina è terminata.
Torna in Italia con moglie e due figli Tiziana e Livio, e la felicità di poter far nascere il terzo figlio nella sua patria. Nel viaggio di ritorno, dove si imbarca come marinaio, riesce a partecipare a un traffico di caffè che si rivela molto redditizio. Si stabilisce a Genova e impianta una fabbrica di biancheria per signora, ma poi torna all’antico amore per il commercio, passando adesso dalla vendita di <<pesci, conchiglie e pelli di iguana>>, a quella di gioielli di valore che va a piazzare in giro per l’Italia e anche in quella Sardegna che lo aveva visto detenuto e che descrive come un luogo pericoloso quasi quanto il Paranà per il timore dei banditi, dei loro agguati e delle numerose rapine. D’altra parte, il commercio di gioielli, anche quando si svolgeva fra grandi alberghi e uffici eleganti, è pieno di insidie; un turco, baro e imbroglione, tenta di farlo cadere nella sua rete; una bella e sofisticata signora ordisce una truffa ai suoi danni a Duesseldorf, ma Di Celmo, così come era riuscito a schivare il pericolo di cadere fra le braccia assassine dell’orchessa del Paranà, riesce a farla franca ancora una volta. Amplia i suoi commerci, si dedica all’import-export di arredi e forniture alberghiere, apre un ufficio a Praga, dove aveva conservato amicizie e contatti, ma anche in Canada, dove vive e lavora il figlio Livio e dove arriverà il più giovane Fabio, deciso a seguire l’attività commerciale del padre.
Questa decisione, che pure aveva riempito di gioia Giustino, che si vedeva accompagnato e sostenuto dal più giovane dei suoi figli, ha condotto alla tragica, fatale morte di Fabio ucciso dall’esplosione di una carica di esplosivo C-4, piazzato nella hall dell’Hotel Copacabana dal sicario salvadoregno Raúl Cruz León, arruolato per pochi soldi dal terrorista Luis Posada Carriles allo scopo di infliggere un colpo mortale all’economia cubana con una vera e propria pioggia di bombe nei luoghi canonici del turismo, compresa la famosa Bodeguita del Medio.
Ho conosciuto Giustino dopo che questa tragedia era avvenuta e quando aveva appena iniziato la sua battaglia – ancora in corso – presso il Governo italiano perché Fabio venga considerato “vittima del terrorismo”. Nonostante il suo diabete e le limitazioni dell’età, aveva deciso di non cedere né alle malattie né al dolore, né alle delusioni: si era iscritto all’università e si stava laureando in sociologia, si occupava dei suoi affari e portava avanti la sua battaglia. Non dimentico dei suoi trascorsi di navigante, mi aveva portato su una sua imbarcazione, attraccata lungo le sponde dell’avanero fiume Almendares, dove, sotto la pioggia, mi aveva raccontato qualcuna delle sue incredibili avventure lungo il Paranà; mi aveva invitato spesso a pranzo, a casa sua o nel ristorante intitolato a Fabio che aveva aperto in joint-venture con il governo cubano. Mi chiedeva di Napoli e mi raccontava pezzi della sua vita e di quella di Fabio; mi chiedeva di portare a suo fratello e ai suoi nipoti napoletani qualche lettera, qualche regalo. Spesso si trattava proprio di profumi e colonie della linea “Alicia Alonso”, la grande ballerina che era diventata cliente del ristorante, a due passi dalla sua casa nel Vedado, e amica del suo coetaneo italiano. Forse l’idea di dedicare a Fabio un balletto in memoria, è nato da quell’amicizia personale sorta intorno a un piatto di spaghetti, davanti a una delle oleografie che ornavano il ristorante: la baia napoletana, il Canal Grande di Venezia, il minaccioso Vesuvio.
Giustino lotta contro il tempo, non intende cedere agli anni per lo meno fino a quando non avrà ottenuto quello che crede di dover ottenere per un semplice principio di giustizia: che si riconosca a Fabio il titolo di vittima del terrorismo e che l’autore confesso di quel delitto, il terrorista Luis Posada Carriles, libero cittadino negli Stati Uniti d’America, venga estradato in Venezuela – che da anni ha fatto questa richiesta – o in Italia – che non ha dato alcun segno di volerla richiedere -, affinché fra i suoi molti delitti, venga giudicato anche per aver fatto piazzare numerosi ordigni esplosivi in una tragica estate avanera, uno dei quali ha brutalmente privato della vita il giovane Fabio e del bastone della sua vecchiaia l’anziano Giustino.