Geraldina Colotti
Nell’attuale contesto geopolitico, appare sempre più chiaro come il ruolo di certe istituzioni internazionali non sia certamente quello di ricercare l’equilibrio, la pace e il rispetto dei diritti umani di cui si fa gran parlare, ma quello di legittimare una illegalità sempre più diffusa, puntellando la ricerca di nuova egemonia da parte USA, e supportando l’offensiva conservatrice in corso nel continente latinoamericano e caraibico. Istituzioni di vecchia o nuova data, che hanno ormai come unica funzione quella di avversare i governi socialisti o progressisti della regione, e che usano a senso unico le informative sui diritti umani emesse dalle grandi agenzie dell’umanitarismo, apparentemente “neutrali”.
Un esempio su tutti, l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), diretta da Luis Almagro. Al personaggio, non interessano né i vari massacri che si ripetono nei paesi come Haiti, Colombia, Guatemala, Honduras, né le violazioni dei diritti basici nei paesi benvoluti da Washington, ma solo i piani del Pentagono contro i governi che cercano di difendere quei diritti.
Un dettagliato rapporto, intitolato “Massacri coperti dallo Stato”, redatto dal 2018 al 2020 dall’Osservatorio haitiano dei crimini contro l’umanità e dalla Clinica internazionale di difesa dei diritti umani della Facoltà di diritto di Harvard, pubblicato il 22 aprile, mostra la complicità dello Stato haitiano con le bande armate. Bande che hanno compiuto tre massacri nei quartieri poveri, costati la vita a 240 civili. Si tratta dei quartieri che hanno giocato un ruolo determinante nelle manifestazioni contro il governo: per chiedere dove siano finiti i soldi erogati dal Venezuela nell’ambito di Petrocaribe, e per denunciare le numerose violazioni ai diritti umani compiuti nel martoriato paese.
Massacri che si ripetono in Colombia e che hanno spesso per bersaglio dirigenti indigeni di quelli che difendono davvero gli interessi di classe e non le finzioni proposte dal grande capitale internazionale di marca europea, come abbiamo visto in Ecuador con il signor Yaku Pérez. L’uso delle bande paramilitari, pesantemente armate da fuori, è un asse portante della destabilizzazione del Venezuela, ai confini con Colombia e Brasile e dentro il paese. E che l’opposizione golpista se ne serva, non è affatto un mistero.
Stesso discorso vale per il lawfare, uno strumento politico per far fuori chi tiene davvero testa all’imperialismo e ai suoi burattini locali. Lo abbiamo visto in Brasile, lo continuiamo a vedere in tutto il continente latinoamericano e caraibico nelle sue diverse declinazioni di golpe suave, istituzionali, processi per presunta corruzione svolti da personaggi che dovrebbero solo vergognarsi, e attraverso l’uso di quella che da noi sarebbe la legislazione emergenziale per perseguire le lotte popolari.
Vale l’esempio dell’Ecuador, dove attraverso una vera e propria persecuzione giudiziaria, accompagnata da una poderosa campagna di discredito mediatica, si è cercato di mettere letteralmente fuorilegge tutta la struttura della revolución ciudadana a cominciare dall’ex presidente Rafael Correa. Un fattore determinante nella sconfitta dell’economista Arauz che ne ha preso il testimone e nella vittoria del banchiere Lasso, responsabile della più grande crisi vissuta dal paese prima dell’arrivo di Correa.
Il voto nullo dell’organizzazione indigena Pachakutik, braccio politico della Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador, Conaie, ha sicuramente contribuito alla sconfitta. E si sa che buona parte del movimento indigeno ecuadoriano ha sostenuto la destra già nelle precedenti elezioni. Ora, se la Conaie si orienterà per la ripresa della lotta di classe o per l’accomodamento con la destra, dipenderà dalla componente che risulterà maggioritaria al congresso che si terrà a Cotopaxi dal 1 al 3 maggio. La sinistra dei movimenti indigeni ha candidato in modo unanime Leonidas Izas.
Le organizzazioni contadine e indigene, pur nei diversi contesti e posizioni, si ritrovano nel movimento internazionale che ha reso visibile il protagonismo e le proposte emerse dal ciclo di lotta contro il decennio di liberismo sfrenato seguito alla caduta dell’Unione Sovietica: dal Brasile, all’Argentina, dal Cile all’Honduras al Perù, le organizzazioni dei nativi che mettono al centro un cambio di indirizzo strutturale, partecipano ai vertici organizzati dal Venezuela e dalla Bolivia, per far pesare le decisioni sui summit come quello dell’ambiente e contro il cambio climatico.
In questo quadro, nella nuova fase, è in costruzione una articolazione delle organizzazioni indigene chiamata Runasur, la Unasur dei popoli indigeni, che ha al centro la lotta anticoloniale e antipatriarcale, e la cui sede è in Bolivia. Alla Bolivia tocca la presidenza pro-tempore dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America, ideata da Cuba e Venezuela e che aveva uno degli assi portanti nell’Ecuador. Si deve anche a questo la poderosa campagna mediatica di demolizione della figura di Evo Morales, così come si è fatto con Correa.
Le copertine di quotidiani e riviste in Perù sono piene di foto in cui Morales abbraccia il vincitore del primo turno alle presidenziali, seguito con un ampio margine dalla candidata di estrema destra Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore, condannata per corruzione. “Castillo – dicono – già ha il suo padrino”, tormentando il candidato affinché prenda le distanze dal “castro-madurismo” e dall’amnistia ai prigionieri politici e sociali. Contro il rappresentante dei contadini e dei maestri, il cui partito Perù Libre si dichiara marxista-leninista, mariateguista e bolivariano, erede delle lotte indipendentiste latinoamericane che quest’anno festeggiano il Bicentenario, è scesa in campo la grancassa internazionale: lasciando prevedere che, comunque, data la frammentazione delle forze in parlamento, a meno che il grosso degli elettori non decida di recarsi alle urne e votare Castillo al secondo turno del 6 giugno, se anche questi vince, non potrà governare. Ed è in agguato il meccanismo dell’impeachment, tipico delle battaglie interne di potere, che ha già fatto fuori diversi presidenti.
È sceso in campo anche il potente baritono dell’imperialismo occidentale, lo scrittore Vargas Llosa, avvezzo a battezzare le candidature per conto dei suoi padrini nordamericani. Questa volta, ha invitato a votare Fujmori in quanto “male minore” contro il sindacalista “che sostiene Maduro” e che, come in Venezuela, chiede un’Assemblea nazionale costituente. Alle precedenti elezioni, non essendoci candidati davvero di sinistra, lo scrittore aveva dichiarato a tutta pagina che mai e poi mai si sarebbe dovuto votare la figlia di un ladrone. Ora, evidentemente, tutto fa brodo, anche se per la legge Keiko Fujimori deve andare in galera per corruzione.
Ma, intanto, mentre Almagro ha ricevuto l’estrema destra boliviana che sta preparando un nuovo golpe nel paese, il presidente ecuadoriano in scadenza, Lenin Moreno, ha dedicato gran parte del suo intervento al vertice Iberoamericano, che si è svolto a Andorra in modo virtuale, ma al quale alcuni presidenti hanno partecipato fisicamente, ad attaccare la presenza del Venezuela. Il governo bolivariano ha risposto per le rime per bocca della vicepresidente Delcy Rodriguez, la quale ha giustamente augurato al “Giuda andino” di finire nell’unico posto che gli compete: la spazzatura della storia.
Nella Giornata della Terra, il 22 aprile, Joe Biden ha invitato una quarantina di capi di stato a un video-vertice per ribadire che, anche in questo campo, gli Stati Uniti intendono imporre la propria egemonia dopo il negazionismo di Trump. Il giorno dopo, Cuba, Venezuela, Bolivia, Nicaragua e i paesi caraibici dell’Alba hanno organizzato in parallelo il Forum internazionale Re-incontro con la Pacha-Mama, presieduto dal presidente boliviano Luis Arce alla presenza di rappresentanze internazionali indigene e dei governi, e di alcuni esponenti della sinistra europea come il francese Jean Luc Melenchon.
Nel documento conclusivo, si è proposta la creazione di una economia della Madre Terra come alternativa vera per lottare contro il cambiamento climatico, coniugandola alla giustizia sociale. Arce ha esaminato i capitoli della crisi ambientale come emblematici della crisi strutturale del modello capitalista e ha detto che la parola passa adesso ai popoli del sud, che devono scalzare l’agenda politica del grande capitale internazionale.
Temi che la relazione del presidente venezuelano Nicolas Maduro aveva riassunto contestando la logica dell’imperialismo nordamericano, che “si vernicia di verde” per continuare ad aumentare i profitti, e per cercare di dar luogo a una nuova fase di accumulazione. Maduro ha ricordato le parole di Fidel Castro al vertice di Rio del 1992, durante il quale l’allora presidente di Cuba aveva messo in guardia circa il pericolo della scomparsa della specie umana se non si fosse contrastato il passo al modello capitalista.
Ha poi ricordato come, nel 2009, quand’egli era ministro degli Esteri e aveva accompagnato Chavez al vertice sul clima di Copenhaghen ci fosse una grande e multiforme contestazione popolare. Sui muri e sui cartelli c’erano due slogan principali: se il clima fosse una banca, i ricchi lo avrebbero già salvato”, e “cambiare il sistema, non il clima”. Due slogan ripresi da Chavez nel suo famoso discorso al vertice.
La parola, oggi, ha detto Maduro, deve tornare ai movimenti, con i quali “vogliamo andare tutti, organizzati e combattivi, al prossimo vertice di Glasgow, a novembre”. Maduro ha poi richiamato l’intervento della Cina e della Russia durante la riunione con Biden, il loro riferimento alla necessità del controllo statale e della ridistribuzione delle risorse, evidenziando come la crisi strutturale del capitalismo, che si manifesta nella crisi pandemica e ambientale, deve trasformarsi in un’occasione di riscossa per le classi popolari.
Dietro la retorica statunitense ed europea, dietro il mercato delle emissioni di gas a effetto serra, vi sono infatti interessi geopolitici su vasta scala nel quadro delle alleanze dominate dagli Stati Uniti, e nella competizione con la visione di un mondo multicentrico e multipolare che ha nella Cina il protagonista principale. Per Biden, la lotta ai cambiamenti climatici è “una questione di sicurezza nazionale”. Vi lavorano le 17 agenzie federali dell’intelligence nordamericana agli ordini di John Kerry, che valuterà i pericoli e le azioni nel contesto internazionale, nell’ambito del nuovo piano finanziario deciso dall’amministrazione nordamericana.
La borghesia sa che, come il marxismo insegna, le classi popolari possono trasformare la crisi del capitalismo in guerra di classe e che la disperazione nel mondo è tanta. Sia la crisi pandemica che quella ambientale, devono quindi essere messi a profitto per una nuova fase di accumulazione capitalista che ha al centro l’economia di guerra, accompagnata da un’adeguata operazione di cooptazione dei settori popolari: a cominciare da quelli statunitensi.
Per questa nuova operazione di resettaggio, occorre distruggere i settori meno competitivi, rafforzare la concentrazione monopolistica nei comparti a maggior sfruttamento del lavoro vivo e creare nuove potenzialità nei settori innovativi. La digitalizzazione dell’economia e la “transizione ecologica” sono perciò gli assi trainanti del Piano di ripresa e resilienza (PNRR) di tutti i paesi.
Ma i paesi del sud che si richiamano al socialismo vogliono imporre un’altra strada. Chissà che, da queste parti, non si riesca a fare altrettanto, trasformando questa crisi in un’occasione.
Lunedì 26 aprile, alle 18, il Collettivo internazionalista Vientos del sur organizza, insieme al Caffè filosofico di Palermo, un dibattito su questi temi, dal titolo “America Latina, urne, piazze e pandemia”.