Falò radicali e falò delle vanità

Quando Fidel sbarcò, per la prima volta, a New York, dopo il trionfo rivoluzionario, il 21 aprile 1959, l’immagine di un capo barbuto in divisa militare catturò l’immaginazione dei giovani della città.

E.Estévez Rams www.granma.cu

Quando Fidel sbarcò, per la prima volta, a New York, dopo il trionfo rivoluzionario, il 21 aprile 1959, l’immagine di un capo barbuto in divisa militare catturò l’immaginazione dei giovani della città. Secondo quanto narra Tony Perrottet su The New York Times, quando lasciò la Penn Station, la folla lo aspettava cantando “Fidel! Fidel! Fidel!” e dovette farsi strada tra la folla, che lui salutava con la mano alzata. Perrottet non lo dice ma la mano alzata era accompagnata da un ampio e franco sorriso. L’articolo, scritto per celebrare i 60 anni di quell’evento, focalizza la sua attenzione sull’impatto che l’entourage ebbe sulla moda di New York.

Secondo il giornalista Jon Lee Anderson, “in un certo senso, Fidel, il Che ed i Barbudos furono i primi hippy” ed intendeva dire nel senso dell’incoraggiamento che diedero alla controcultura che stava iniziando a prendere forma in quel paese, e che aveva avuto alcuni importanti precedenti negli scritti, già pubblicati, di Allen Ginsberg e Jack Kerouac.

Il parallelo non si limitava agli uomini. Perrottet descrive come l’immagine di Vilma, con un fiore  di mariposa (fiore simbolo nazionale di Cuba) dietro l’orecchio, fotografata per la rivista francese Paris Match, poteva essere considerata precedente della cultura flowerboy che avrebbe avuto un impatto nelle città USA, in particolare San Francisco.

Ci vollero 20 minuti alla polizia della città per portare Fidel attraverso gli scarsi 91 metri, dall’8 avenida, sino all’albergo dove alloggiava. Il visitatore interrompeva costantemente la formazione della scorta per salutare chi gli dava il benvenuto. Alcuni chiamarono il suo impatto fidelmania e un’azienda USA di giocattoli produsse 100000 berretti militari con barba ‘quitaypon’ (posticcia ndt) per bambini. Eisenhower si era rifiutato di incontrare Fidel e Nixon ebbe un breve incontro. Il vicepresidente, senza saperlo bene, ebbe l’intuizione di rendersi conto che chiunque stava davanti a lui poteva causargli mal di testa. Ciò sarebbe stato verificato, in seguito, da 11 presidenti, compreso lo stesso Nixon.

Vedere i barbudos come ponte tra la generazione beatnik e quella degli hippy, emergente, poteva essere un buon aggancio letterario o una buona linea giornalistica, ma era, quanto meno, superficiale. Quei ribelli avevano vissuto un’esperienza di lotta e sacrificio, reale e dolorosa; si erano irrigiditi di fronte alla morte dei loro compagni, affrontando una delle dittature più sanguinose dell’America Latina. Non c’era posa nei loro atteggiamenti, tranne quella che emanava dalle loro esperienze di vita, e queste erano profonde e radicali. Quei ribelli che ora si pretendeva ridurre ad un tema di mode e sex appeal, portavano convinzioni di lotte sociali radicate nella storia di un paese, per trascendere a quella di un continente. Nessun beatnik, per quanto avesse avuto crisi esistenziali, né i suoi più eminenti poeti, scrittori, musicisti o artisti avevano scritto un documento programmatico come ‘La Storia mi assolverà’.

Nessuno di quegli insoddisfatti che si gongolavano nell’idea della generazione perduta avevano compreso, con quella profondità, la radice sociale della malattia che li deprimeva. Per coloro che si trovavano di fronte alla colossale sfida di resistere al neocolonialismo e alla sua causa imperialista, non c’era tempo per divagazioni di classe media affogata. Neppure c’era tempo per esibire vanità come artifici. Tutto ciò verificarono  coloro che, il 24 aprile, al Central Park di New York, fecero parte della folla di oltre 30000 partecipanti che  sentirono Fidel parlare di come il destino della Rivoluzione cubana fosse legato al destino dell’America Latina. Forse, nel cuore del capitalismo nordamericano, parole come quelle non si erano sentite: «Perché sulla fame e sulla miseria si potrà erigere un’oligarchia, ma mai una vera democrazia. Sulla fame e sulla miseria si potrà erigere una tirannia, ma mai una vera democrazia. Siamo democratici in ogni senso della parola, ma veri democratici, democratici che propugnano il diritto dell’uomo al lavoro, democratici che postuliamo il diritto dell’uomo al pane, democratici sinceri, perché la democrazia che parla solo di diritti teorici e si dimentica dei bisogni dell’uomo, non è una democrazia sincera, non è una vera democrazia.

In un paese abituato a discorsi dove l’idea di democrazia è vista come un’azione politica vuota, senza connessione con la struttura economica, in una città dove la dittatura del capitale, che altro non è che il potere della borghesia, è così manifesto, quelle parole dovettero essere come dinamite che esplode in un teatro.

Ma se tali parole non erano comuni, tanto meno era che le dicesse una persona che accompagnava il verbo con l’azione.

Parlando di azione, e di come venivano percepiti quei barbudos, un biografo di D’Gaulle racconta che, informando questi che i paracadutisti dell’OAS, quella truppa fascista che massacrava gli algerini, minacciavano di sbarcare a Parigi, il generale francese respinse la minaccia dicendo: “se fosse Fidel Castro, già starei sfilando lungo i Campi Elisi”. In un aneddoto non comprovato, dicono che il Comandante Pinares, sentendo gli oltraggi dei banditi finanziati dall’imperialismo a Pinar del Río, abbia chiesto a Fidel: “Perché non dichiari guerra agli USA?” La logica scherzosa di Pinares era che quel paese aveva ricostruito i paesi a cui aveva fatto guerra, una volta che li sconfiggeva. Fidel rispose: “E se Cuba vincesse la guerra contro gli USA, cosa succederebbe?”

Avrebbero dovuto passare dieci anni affinché Tom Wolfe coniasse il termine “radical chic” per riferirsi all’impostura di coloro che adottavano l’armamentario ribelle come moda di vestire e tatuaggi, senza il vero radicalismo sociale. Il rivoluzionario non si fa dall’esterno verso l’interno, ma dall’interno verso l’esterno. Probabilmente doveva essere un giornalista-scrittore come Wolfe, padre, insieme a Capote, del cosiddetto nuovo giornalismo, sarcastico e onesto, anche se era uno sfortunato conservatore che ammirava Reagan e proclamava come aveva votato per Bush Jr. nelle elezioni presidenziali del 2004. Dicono che il termine «radical chic» sia venuto a Tom in contrasto ad altri che opponeva alla genuinità dei ribelli cubani. La verità è che Wolfe non era per nulla estraneo a Cuba. All’inizio stesso della Rivoluzione, The Washington Post lo inviò, come corrispondente, all’Avana. Il giornale stava cercando qualcuno che parlasse spagnolo e scoprirono che il giornalista aveva fatto quattro anni di quella lingua a scuola. La realtà era che non poteva parlare affatto, ma prese l’incarico e venne a Cuba. Qui fece amicizia con un giornalista del Daily Express che, con l’ossessione della stampa aziendale per il banale, era stato inviato a Cuba per “indagare sulla vita sessuale” di Fidel. L’infelice corrispondente, con l’incarico idiota, finì per essere espulso dal paese e Tom Wolfe, per carambola, ritornò negli USA dopo sei mesi all’Avana.

L’ultimo romanzo di Wolfe, prima di morire all’età di 88 anni, ha come ambientazione Miami, con un protagonista cubano-americano; ma non ne parleremo qui perché, ad essere sincero, non l’ho letto.

Quanto piccolo è il mondo per coloro che difendono solo la loro meschinità. Naturalmente, poiché questa nuda posizione non è attraente, queste intenzioni sono spesso mascherate da parole grandi che nascondono la vera natura delle loro miserie. Questo è ciò che viene in mente quando si leggi la sfilata di personaggi del romanzo più acclamato di Tom Wolfe, ‘Il falò delle vanità’. Scritto nel 1987, sotto forma di puntate per la rivista Rolling Stones, racconta le disavventure di Sherman McCoy, un agente di cambio codardo e monotono, che si autostimola definendosi: il re dell’universo. Sherman ha la sfortuna di essere accusato di aver investito un giovane nero, quando una svolta sbagliata lo porta nel cuore del Bronx mentre stava andando con la sua amante, in realtà quella che guidava al momento dell’incidente.

Preso ad esempio, il caso sfugge rapidamente di mano quando una serie di personaggi cercano di approfittare della sfortuna del giovane nero e dell’imputato: un giornalista alcolizzato con un disperato desiderio di eccellere nella sua professione, non ha remore in merito a rompere ogni limite etico per gonfiare il caso e conferirgli sfumature sociali e razziali che portano a proteste di massa; un pastore di Harlem che vede, nel ragazzo ferito, un’opportunità per infiammare le sue basi contro le autorità ed il sistema, posizionandosi come guida della comunità, senza importargli  della reale natura dei fatti; un procuratore distrettuale che deve presentarsi presto alla rielezione e vede, nel caso, un’opportunità per rilanciare la sua candidatura; un procuratore aggiunto, grigio e mediocre, che cerca di impressionare una ragazza della giuria che vuole portarsi a letto e, in funzione di ciò, perseguita ferocemente l’imputato, al punto da proporre all’amante, testimone chiave, di mentire.

Ognuno sta approfittando della situazione in nome di grandi idee e obiettivi, della giustizia sociale, del beneficio della famiglia, della libertà di espressione. Tutti tranne l’incidentato ed il ricco accusato. Il sistema non crede alle lacrime, ed è disposto non solo a sacrificare il negro, ma anche uno dei suoi, se il rito si giustifica nella sua stabile riproduzione.

La seconda volta che Fidel visitò New York, un anno dopo quell’altra visita, le cose erano cambiate abbastanza affinché fosse dichiarato nemico dell’impero. Le aggressioni a Cuba da parte del potere imperiale si erano intensificate e la risposta della Rivoluzione fu nazionalizzare le società yankee. La Rivoluzione era in cammino per compiere quella profezia di Fidel e sconfiggere il suo nemico. Soggiornando al Theresa Hotel di Harlem, in risposta alla provocazione del luogo in cui si supponesse soggiornasse, Fidel sentì che i suoi veri ospiti erano lì, tra i neri trascurati della città. Malcolm x lo andò a visitare e conversarono per un pò. Fu tale  l’impressione che gli causò che sempre avrebbe detto che quello era l’unico bianco che gli piaceva.

Questa volta la sua tribuna non fu un parco, ma l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Là avrebbe tenuto il discorso più lungo che fosse stato espresso in quel salone, ma non solo fu quello che è più durato. Combinando il linguaggio dei popoli con l’erudizione del lettore consacrato, Fidel avrebbe detto che l’imperialismo “è una meretrice che non può sedurci”. E non esattamente la prostituta rispettosa, di Jean Paul Sartre. Lo è ancora, ancora non può.


Hogueras radicales y hogueras de vanidades

 Cuando Fidel desembarcó por primera vez en Nueva York, después del triunfo revolucionario, el 21 de abril de 1959, la imagen de un líder barbudo en vestimenta militar tomó la imaginación de los jóvenes de la ciudad

 Autor: Ernesto Estévez Rams 

Cuando Fidel desembarcó por primera vez en Nueva York, después del triunfo revolucionario, el 21 de abril de 1959, la imagen de un líder barbudo en vestimenta militar tomó la imaginación de los jóvenes de la ciudad. Según narra Tony Perrottet en The New York Times, al salir de la estación Penn lo esperaban muchedumbres al canto de «¡Fidel!, ¡Fidel!, ¡Fidel!», y tuvo que abrirse paso en la multitud, a la que saludaba con la mano en alto. No lo dice Perrottet, pero la mano en alto iba acompañada de una sonrisa amplia y franca. El artículo, escrito para celebrar los 60 años de aquel acontecimiento, centra su atención en el impacto que la comitiva tuvo en la moda neoyorkina. 

Según el periodista Jon Lee Anderson, «en cierto sentido, Fidel, el Che y los Barbudos fueron los primeros hippies», y quiso decir, en el sentido del aliento que le imprimieron a la contracultura que empezaba a gestarse en ese país, y que había tenido algunos precedentes importantes en los escritos ya publicados de Allen Ginsberg y Jack Kerouac. 

El paralelo no se limitaba a los hombres. Perrottet describe cómo la imagen de Vilma, con una flor de mariposa detrás de la oreja, fotografiada para la revista francesa París Match, podía tomarse como precedente de la cultura de flowerboy que impactaría después en las ciudades estadounidenses, particularmente San Francisco. 

Tomó 20 minutos, a la policía de la ciudad, llevar a Fidel a través de los escasos 91 metros, por la 8va. avenida, hasta el hotel donde se hospedaba. El visitante constantemente rompía la formación de la escolta para saludar a los que le daban la bienvenida. Algunos llamaron a su impacto fidelmanía, y una empresa estadounidense de juguetes produjo 100 000 gorras militares con barbas «quitaypón» para niños. Eisenhower se había negado a recibir a Fidel, y Nixon tuvo un encuentro breve. El Vicepresidente, sin saber bien, tuvo la intuición de percatarse de que quien estaba frente a él podía darles dolores de cabeza. Así lo comprobarían, luego, 11 presidentes, incluyendo al propio Nixon. 

Ver a los barbudos como puente entre la generación beatnik y la de los hippies, que emergía, podía resultar un buen gancho literario o una buena línea periodística, pero era, cuando menos, superficial. Aquellos rebeldes habían vivido una experiencia de lucha y sacrificio, real y dolorosa; se habían curtido frente a la muerte de sus compañeros, enfrentando una de las dictaduras más sangrientas de América Latina. No había pose en sus actitudes, salvo la que emanaba de sus experiencias vitales, y estas eran profundas y radicales. Esos rebeldes que ahora se pretendían reducir a un tema de modas y sex appeal, traían convicciones de luchas sociales que echaban raíces en la historia de un país, para trascender a la de un continente. Ningún beatnik, por más que tuviera crisis existenciales, ni sus más encumbrados poetas, escritores, músicos o artistas habían redactado un documento programático como La historia me absolverá. 

Ninguno de aquellos inconformes que se regodeaban en la idea de la generación perdida habían entendido, con esa profundidad, la raíz social de la enfermedad que les deprimía. Para quienes enfrentaban el colosal reto de plantarle cara al neocolonialismo y a su causa imperialista, no había tiempo para devaneos de clase media ahogada. Tampoco había tiempo para exhibir vanidades como artificios. Todo eso comprobaron quienes, el 24 de abril, en el Central Park de Nueva York, formaron parte de la muchedumbre de más de 30 000 asistentes que oyeron a Fidel hablar de cómo la suerte de la Revolución Cubana estaba atada a la suerte de América Latina. Quizá, en el corazón del capitalismo norteamericano no se habían oído palabras como aquellas: «Porque sobre el hambre y sobre la miseria se podrá erigir una oligarquía, pero jamás una verdadera democracia. Sobre el hambre y la miseria se podrá erigir una tiranía, pero jamás una verdadera democracia. Somos demócratas en todo el sentido de la palabra, pero demócratas verdaderos, demócratas que propugnan el derecho del hombre al trabajo, demócratas que postulamos el derecho del hombre al pan, demócratas sinceros, porque la democracia que habla solo de derechos teóricos y se olvida de las necesidades del hombre, no es una democracia sincera, no es una democracia verdadera». 

En un país acostumbrado a los discursos donde la idea de la democracia es vista como acción política vacía, sin conexión con la estructura económica, en una ciudad donde la dictadura del capital, que no es otra cosa que el poder de la burguesía, es tan manifiesta, esas palabras debieron ser como dinamita estallando en un teatro. 

Pero si tales palabras no eran comunes, menos aún era que las dijera una persona que acompañaba el verbo con la acción. 

Hablando de acción, y de cómo eran percibidos aquellos barbudos, cuenta un biógrafo de D’Gaulle que, al informarle a este que los paracaidistas de la oas, aquella tropa fascista que masacraba a los argelinos, amenazaban con desembarcar en París, el general francés desechó la amenaza diciendo: «si fuera Fidel Castro, ya estaría desfilando por los Campos Elíseos». En una anécdota no comprobada, dicen que el Comandante Pinares, oyendo las tropelías de los bandidos financiados por el imperialismo en Pinar del Río, le preguntó a Fidel: «¿Por qué no le declaras la guerra a los Estados Unidos?». La lógica en broma de Pinares era que ese país había reconstruido los países a los que había hecho la guerra, una vez que los derrotaba. Fidel respondió: «¿Y si Cuba le gana la guerra a los Estados Unidos, qué?». 

Tendrían que pasar diez años para que Tom Wolfe acuñara el término de «radical chic» para referirse a la impostura de quienes adoptaban la parafernalia rebelde como moda de vestuario y tatuajes, sin la radicalidad social real. El revolucionario no se hace de afuera hacia adentro, se hace de adentro hacia afuera. Probablemente tenía que ser un periodista-escritor como Wolfe, padre, junto a Capote, del llamado nuevo periodismo, sarcástico y honesto, por más que fuese un desgraciado conservador que admiraba a Reagan y proclamaba cómo había votado por Bush Jr. en las presidenciales de 2004. Dicen que el término de «radical chic» le vino a Tom contraponiendo a otros que adversaba con la genuinidad de los rebeldes cubanos. Lo cierto es que Wolfe no era ningún extraño a Cuba. En el mismo inicio de la Revolución, The Washington Post lo envió como corresponsal en La Habana. El periódico andaba buscando a alguien que hablara español, y descubrieron que el periodista había pasado cuatro años de ese idioma en el colegio. La realidad era que no podía hablar nada, pero tomó la asignación y se vino a Cuba. Aquí se hizo amigo de un periodista del Daily Express, quien, con esa obsesión de la prensa corporativa por lo banal, había sido enviado a Cuba para «investigar la vida sexual» de Fidel. El infeliz corresponsal, con la asignación idiota, terminó expulsado del país, y Tom Wolfe, por carambola, regresó a ee. uu. luego de seis meses en La Habana. 

La última novela de Wolfe, antes de morir con 88 años, tiene a Miami por escenario, con un protagonista cubanoamericano; pero no hablaremos de ella aquí porque, para ser sincero, no la he leído. 

Qué pequeño luce el mundo para quienes solo defienden sus mezquindades. Claro, como puesto así de crudo no resulta atractivo, se suelen disfrazar esas intenciones en grandes palabras que oculten la verdadera naturaleza de sus miserias. Eso es lo que viene a la mente cuando se lee el desfile de personajes de la novela más aclamada de Tom Wolfe, La hoguera de las vanidades. Escrita en 1987, en forma de entregas para la revista Rolling Stones, narra las desventuras de Sherman McCoy, un corredor de bolsa, cobarde y monótono, que se autoestimula llamándose a sí mismo: el rey del universo. Sherman tiene el infortunio de ser acusado de arrollar a un joven negro, cuando un giro mal dado lo lleva al corazón del Bronx mientras iba con su amante, en realidad la que conducía en el momento del incidente. 

Tomado como ejemplo, el caso rápidamente se va de las manos cuando una serie de personajes busca sacar ventaja de la desgracia del joven negro y del acusado: un periodista alcohólico con ansias desesperadas de sobresalir en su profesión, no tiene reparos en saltarse cualquier límite ético para inflar el caso y darle tintes sociales y raciales que llevan a protestas masivas; un pastor de Harlem que ve, en el muchacho accidentado, una oportunidad para inflamar a sus bases contra las autoridades y el sistema, posicionándose como líder comunitario, sin importarle mucho la naturaleza real de los hechos; un fiscal de distrito que tiene que ir a reelección pronto y ve, en el caso, una oportunidad de impulsar su candidatura; un fiscal asistente, gris y mediocre, que busca impresionar a una chica del jurado que quiere llevarse a la cama y, en función de ello, persigue con saña al acusado, al extremo de proponerle a la amante, testigo clave, que mienta. 

Cada cual va sacando provecho de la situación en nombre de grandes ideas y metas, de la justicia social, del beneficio de la familia, de la libertad de expresión. Todos, menos el accidentado y el rico acusado. El sistema no cree en lágrimas, y está dispuesto no solo a sacrificar al negro, sino también a uno de los suyos, si el rito se justifica en su reproducción estable. 

La segunda vez que Fidel visitó Nueva York, un año después de aquella otra visita, las cosas habían cambiado lo suficiente como para que ya fuera declarado enemigo del imperio. Las agresiones a Cuba por parte del poder imperial habían escalado, y la respuesta de la Revolución fue nacionalizar las empresas yanquis. La Revolución iba camino a cumplir aquella profecía de Fidel y vencer a su enemigo. Hospedado en el hotel Theresa, en Harlem, como respuesta a la provocación del lugar donde se suponía que se hospedara, Fidel sintió que sus verdaderos anfitriones estaban allí, entre los negros preteridos de la ciudad. Malcolm x lo visitó y conversaron un rato. Fue tal la impresión que le causó, que siempre diría que ese era el único blanco que le había gustado. 

En esta ocasión su tribuna no fue un parque, sino la Asamblea General de las Naciones Unidas. Allí daría el discurso más largo que se hubiera expresado en aquel salón, pero no solo fue el que más ha durado. Combinando el lenguaje de los pueblos con la erudición del lector consagrado, Fidel diría que el imperialismo «es una ramera que no puede seducirnos». Y no precisamente La ramera respetuosa, de Jean Paul Sartre. Todavía lo es, todavía no puede.

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