Una nuova internazionale nera, dalla Spagna all’America Latina

Geraldina Colotti

L’attualità dell’America latina mette in primo piano le elezioni di domenica 6 giugno in Messico e in Perù, mentre continuano le proteste in Colombia, a cui il governo Duque risponde con massacri silenziati dai media occidentali.

Al riguardo, iniziamo col raccogliere l’invito del filosofo messicano Fernando Buen Abad che si occupa di semiotica radicale e combattiva e che, alle sue riflessioni sulle elezioni in Messico, ha premesso la vignetta di un cervello in gabbia come invito a non ottundere il pensiero critico seguendo le menzogne mediatiche. In Messico, che conta 129 milioni di abitanti, andrà alle urne un totale di 94 milioni di aventi diritto. Voteranno per il rinnovo della Camera dei Deputati, dove si eleggeranno 500 nuovi membri. A livello locale, si vota in 15 governazioni, 30 municipi e 30 congressi locali.

Morena, il partito del presidente Lopez Obrador, si presenta in una coalizione denominata Juntos Hacemos Historia, e composta anche dal Partido del Trabajo (PT), dal Partido Verde Ecologista de México. I due partiti di destra, il Pri e il Pan, vanno invece uniti nell’alleanza Va por Mexico. Un dato significativo per un paese nel quale le violenze patriarcali e omofobiche sono molto elevate, è il record di candidati alla Camera dei movimenti LGBTIQ+ , e il fatto che quasi il 2% degli oltre 5.300 candidati ai diversi incarichi ha dichiarato in un’inchiesta di identificarsi come parte della comunità. In queste elezioni, vi sono candidati che si definiscono transgender, omosessuali e muxe, un terzo genere riconosciuto all’interno della cultura degli zapotechi di Oaxaca, nel Messico meridionale, che indica una persona alla quale è stato assegnato individualmente il sesso maschile, ma che si veste e si comporta con modalità femminili.

In un paese squassato da una violenza politica strutturale che ha già fatto registrare i suoi picchi di sequestri e scomparse, e che serve anche come arma di ricatto per favorire le politiche securitarie volute da Washington contro i tentativi di cambiamento operati da Amlo, pesano le tematiche internazionali. Se il campo progressista risulterà indebolito, anche la piccola breccia aperta dall’elezione di Obrador si restringerà, soprattutto per quel che riguarda la possibilità di un riavvio delle alleanze solidali sud-sud.

Il ministro degli Esteri ha dichiarato che, come parte dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), il Messico non proibirà la presenza di osservatori alle elezioni di domenica, a patto che rispettino le leggi e non agiscano come durante le elezioni in Bolivia, dove favorirono il golpe con annunci di presunte quanto inesistenti frodi da parte di Morales. Almagro – ha aggiunto il governo messicano per mettere in chiaro le cose – è stato il peggior segretario generale che abbia avuto l’Osa.

Quanto alle presidenziali in Perù, iniziamo col riprendere una frase di Lenin, non a caso riprodotta sul sito di Movadef, il Movimento per l’Amnistia e i diritti fondamentali. Creato in Perù nel 2009, Movadef è stato perseguito e criminalizzato con numerose montature giudiziarie per avere tra i suoi obiettivi anche la liberazione dei prigionieri e prigioniere politiche del passato conflitto armato. La frase di Lenin è questa: “Fino a quando gli uomini non avranno imparato a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi, essi in politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni.” Ogni discorso ha una natura di classe, afferma il dirigente bolscevico.

Ma come – si dirà – inizi a parlare di elezioni in Perù partendo dall’argomento più spinoso che tutti i candidati di sinistra cercano di evitare come la peste?

Sì, assolutamente, perché l’arma del ricatto in merito al conflitto di classe del secolo scorso pesa come un macigno sul futuro. Perché mentre la borghesia ti costringe a usare il suo linguaggio, i suoi schemi, i suoi paradigmi, facendoti sentire inadeguato, antiquato, non adatto a sederti al tavolo con i “grandi” che guidano il sistema, ti ha già spento la scintilla del cambiamento, ti ha già messo nel recinto, obbligato a sentirti sotto tutela. Mentre tu sei impegnato a cercare la parolina giusta, possibilmente di marca Usa, ti hanno già piallato, cooptato, depotenziato, in nome, beninteso, di pace e democrazia: la pace del sepolcro per il proletariato, a cui viene tolta la dignità e il diritto a ribellarsi.

E se il vaccino dal virus del capitalismo non può essere né lo schematismo, né l’isolamento demagogico nella “torre d’avorio” delle posizioni giuste, che guardano passare tutti i treni senza mai prenderne uno, sicuramente individuare gli interessi di queste o quelle classi dietro i discorsi che egemonizzano la cosiddetta opinione pubblica internazionale, è un antidoto di provata efficacia.

Poter ricordare i propri morti sfidando la damnatio memoriae, contrasta la versione della storia imposta dai vincitori. Serve a non lasciarsi imporre “gli eroi borghesi”, che decantano la legalità di un sistema iniquo e feroce, un modello di “democrazia” che ti uccide con le mani pulite, togliendoti la dignità di una vita in cui il lavoro, la cultura la salute, siano diritti e non privilegi.

E per questo, iniziamo a parlare del Perù proprio a partire dai compagni e le compagne di Movadef, anche se le loro proposte non sono rappresentate dalla campagna elettorale. Si tratta di un movimento di avvocati, artisti, giovani, perseguito con retate inutili e costose, che servono per mantenere in piedi l’apparato emergenziale giustificato dal cosiddetto diritto penale del nemico: l’equivalente peruviano di quello esistente da noi, e oggi riattualizzato in Francia, in Spagna e nell’Unione europea dei banchieri e dei grandi evasori.

In Argentina, è morto in circostanze oscure un dirigente di Movadef, Rolando Echarri Pareja. Ex militante di Sendero Luminoso, sopravvissuto in carcere a torture e massacri oggi passati sotto silenzio, Rolando aveva ottenuto lo statuto di rifugiato politico. Di certo, però, non viveva nel lusso come fanno i cosiddetti perseguiti politici di presunte dittature come viene bollato il governo bolivariano di Maduro in Venezuela, ma in un ostello per gente senza fissa dimora. Aveva sessant’anni, gli hanno travato in mano dei fili elettrici, con i quali si sarebbe fulminato, ma i compagni in Argentina vogliono vederci chiaro, mentre ne ricordano il percorso di lotta con un commovente volantino.

Per cogliere gli interessi di classe dietro la propaganda, basta leggere un lungo articolo sulle elezioni peruviane, pubblicato da El Pais, l’organo che si incarica di elaborare e diffondere in Europa la linea di Washington. Si tratta di una gigantesca operazione di propaganda tesa a sbiancare la figura di Keiko Fujimori, per farne il baluardo delle destre unite contro il maestro Pedro Castillo, bersaglio di attacchi assolutamente degni del maccartismo nordamericano negli anni di Truman.

Per questo, quegli stessi apparati pronti a chiedere la gogna per i manifestanti o per gli avvocati del Movadef, considerano irrisorie le accuse di malversazione e associazione mafiosa che prevedono trent’anni di carcere per la signora Fujimori, la quale ha già scontato 13 mesi nel 2018. Stiamo parlando della figlia del dittatore Alberto Fujmori, condannato a 25 anni di prigione per crimini contro l’umanità e corruzione, che Keiko ha promesso di amnistiare. Amnistia per i potenti, non per i movimenti popolari. Chiaro, no?

L’articolo sarebbe da incorniciare per come riesce a non chiamare le cose con il loro nome, sfumando fatti e concetti che indicano senza ombra di dubbio la pertinenza di quanto i manifestanti hanno a diverse riprese gridato nelle piazze: chiedendo un’assemblea nazionale costituente contro la crisi conclamata della democrazia borghese. In un paese che ha cambiato 5 presidenti in 5 anni – dice en passant l’articolo – tutti quelli eletti dal 1985 sono stati coinvolti in casi di clientelismo e corruzione. Un’osservazione che però serve solo a minimizzare le accuse e il pedigree di Keiko Fujimori, e a mettere in rilievo che, dopo tutti quei presidenti uomini, è venuto il momento di far spazio a una donna.

Che poi questa donna rivendichi il piano di sterilizzazione forzata imposto dal padre come uno strumento di pianificazione famigliare, e sia l’equivalente di uno squalo femmina per le donne dei settori popolari, è evidentemente cosa di poco conto per la propaganda di guerra, che invece si appropria, da destra, di quello che è l’argomento del bilancio e della “conciliazione nazionale”. Si elogia, infatti, in modo sperticato, il mea culpa pubblico di Keiko nei confronti di altri suoi avversari di destra, che l’avrebbe fatta schizzare a un testa a testa con Castillo nei sondaggi. Si esalta il fatto che ad ascoltarla per il suo comizio conclusivo siano andati tutti, ma proprio tutti, gli esponenti del gigantesco apparato politico e mediatico che si è messo in moto per presentare la sua presunta straordinaria rimonta nei confronti del maestro Castillo.

Ovviamente, non manca nell’articolo una stucchevole descrizione familiare dei Fujimori, e la nota di colore per dirci che Keiko, quando ha chiesto perdono nell’Arequipa, indossava un completo beige. Sappiamo così che subito è corsa ad abbracciare il signor Vargas Llosa e il golpista venezuelano Leopoldo Lopez, accorso da Madrid per sostenerla. Alla fine dell’evento – racconta ancora l’articolo – una voce femminile dal pubblico ha gridato: “Viva la donna venezuelana”. Si riferiva, ovviamente, a Keiko, perché – dice il giornalista – in questo momento non esiste un’altra donna in Perù. Va da sé che quelle che lottano nei settori popolari, che le donne peruviane colpite dalla crisi e dal patriarcato, e che sono più della maggioranza della popolazione, non fanno notizia.

Il Nobel per la letteratura Vargas Llosa, che nella precedente elezione aveva invitato a votare contro Keiko Fujimori per sostenere un candidato considerato più presentabile, ha accompagnato la rappresentante di Forza Popolare nel comizio conclusivo dicendo: “A tutti quelli che oggi mi chiamano traditore chiedendomi perché sostengo Keiko, io rispondo tre volte: “Keiko presidenta”.

“Fujimori mai più!”, ha gridato invece la folla di sostenitori del rappresentante di Perù Libre, Castillo, che ha ottenuto il sostegno della candidata di centro-sinistra Veronica Mendoza. Un referendum di sfiducia per l’oligarchia da parte di una moltitudine di contadini, indigeni, donne e rappresentanti di quei settori popolari vittime delle politiche neoliberiste, rese più feroci in presenza della pandemia, che vede il Perù ai primi posti per numero di morti e contagiati. Castillo propone un cambio di marcia basato sulla riappropriazione delle risorse e sulla giustizia sociale, e questo risulta insopportabile ai poteri forti in un momento di alta conflittualità in America Latina per contrastare le politiche di resettaggio proposte dall’imperialismo nordamericano a livello globale.

Le inchieste provenienti, da Cuba, dal Nicaragua, dal Venezuela, ma anche da giornalisti statunitensi come Ben Norton, che denunciano l’impiego del denaro tolgo ai contribuenti per finanziare i media di guerra nei paesi invisi a Washington, mostrano come proprio da Madrid stia prendendo corpo una nuova internazionale conservatrice che ha nella mira l’America Latina.

In Nicaragua – ha denunciato Ben Norton – in 10 anni la Cia, mediante la Usaid, ha finanziato i media di opposizione con oltre 12 milioni di dollari, e ora cerca di pesare sulle elezioni di novembre. Contro Cuba e il Venezuela la destabilizzazione mediatica è costante. La presenza di Leopoldo Lopez, che fa base a Madrid, parla da sé, così com’è visibile l’influenza di personaggi come Vargas Llosa o l’ex presidente spagnolo José Aznar nei think tank occidentali destabilizzanti.

La loro collocazione a destra o all’estrema destra non è un mistero, però, come accadeva in Italia negli anni ’70, in America Latina esitano a definirsi tali, preferendo confondere le acque presentandosi come di “centro”: ossia come una destra moderna, antiautoritaria e democratica per far dimenticare l’epoca dei golpe civico-militari, che continuano comunque a orchestrare attraverso organismi artificiali come il gruppo di Lima o mediante quel vero e proprio ministero delle colonie che è l’Osa diretta da Almagro.

 Durante la presidenza Trump, uno dei suoi principali assessori, Steve Bannon, ha cercato di ricompattare i gruppi dell’estrema destra latinoamericana compiendo un viaggio apposito in diversi paesi. Ora, a riprendere l’iniziativa è il partito spagnolo Vox, razzista omofobo e di eredità franchista, che vuole impiantarsi in America Latina. Due delle sue figure più note, sono andate all’assunzione del banchiere Lasso come presidente in Ecuador per frenare – hanno detto – l’avanzata del comunismo in America Latina. Intendono riunire l’estrema destra latinoamericana a partire dalla carta di Madrid, promossa dalla loro fondazione Dissenso. Un documento sottoscritto da diversi partiti della destra latinomericana e anche europea. Tra i firmatari, l’ex capo di gabinetto della golpista boliviana Janine Anez, Arturo Murillo, arrestato negli Usa per numerosi delitti, il figlio di Jair Bolsonaro e la golpista venezuelana Maria Corina Machado. Personaggi che vedono come il fumo negli occhi anche i governi progressisti più moderati come quello argentino o messicano, e si adoperano affinché non si consolidino. Tutti, animano la lobby europea contro il Venezuela e Cuba, si adoperano per appoggiare apertamente il governo narco-paramilitare di Duque, e per silenziarne i massacri contro il popolo colombiano.

Share Button

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.