Nuova ondata di ripudio del modello capitalista

Geraldina Colotti

Con Fernando Buen Abad, filosofo messicano esperto in semiotica militante e analista politico internazionale, abbiamo discusso delle elezioni in Messico, in Perù e delle proteste che annunciano, nel continente, una nuova ondata di ripudio del modello capitalista.

In Messico, l’alleanza guidata da Morena, il partito del presidente Obrador (Amlo), ha ottenuto la maggioranza dei deputati al Congresso e oltre la metà dei governatori. Elezioni di metà mandato che la destra ha voluto presentare come un referendum contro Amlo. Cosa c’era in gioco?

Intanto, occorre guardare al contesto, ai gravi problemi di cui soffrono la democrazia e le istituzioni, eredità dei precedenti governi neoliberisti, e alla situazione determinata dalla pandemia a livello globale. Un quadro nel quale sono emerse le pesanti manipolazioni della borghesia nazionale e dei suoi soci nordamericani mediante il finanziamento a Ong e fondazioni di diversa indole per presentare l’appuntamento elettorale come un voto di sfiducia al progetto del presidente Lopez Obrador. Invece, è apparso chiaro il rifiuto del modello neoliberista che ha devastato il Messico e la ratifica della direzione impressa da Amlo verso una Quarta trasformazione. Con questo, va intesa la sintesi di valori storici indipendentisti, che sono a loro volta sintesi di quelli rappresentati dalla rivoluzione messicana del 1810, e dal contributo alla costruzione della Repubblica fornito da Benito Juarez, il primo presidente indigeno nella storia dell’intero continente, dall’esempio di rivendicazione della sovranità messicana derivante dall’opera di Lazaro Cardenas, che ha nazionalizzato il petrolio e segnato una necessaria e storica rivoluzione a difesa delle risorse naturali gestite dai messicani. Questa sintesi, chiamata Quarta trasformazione, sta ricevendo da parte di una importante massa del popolo la sua ratificazione e il suo rilancio in un progetto che, ogni giorno di più, manifesta il rigetto per un sistema di neoliberismo e corruzione,

vero e proprio cancro per il paese. Per questo, anche dove non ha vinto Morena e il progetto di Quarta trasformazione, si va consolidando una significativa forza di opposizione. Siamo in una fase promettente per il recupero del paese, e di grandi sfide, a cominciare da quelle poste dalla pandemia.

Come valuti questa prima fase del governo di Obrador?

La prima fase è stata, in termini generali, veramente incoraggiante. Si sono prese decisioni e fissati criteri di ordine politico molto importanti perché, ripeto, in poco più di due anni si è dovuto lottare contro una eredità pesante lasciata dai vecchi partiti del Messico: in termini di indebitamento, crisi, corruzione, malversazione, impegni impossibili da sostenere sia per i costi che per l’irrazionalità politica che li ha guidati. Con ragione, Amlo ha definito la corruzione come il principale problema storico del Messico, perché, nella fase neoliberista, con i governi conservatori, si è costruito un tessuto complesso e esteso che persiste da quasi quarant’anni, che influenza e intossica il paese. Mettere al primo punto la lotta alla corruzione ha avuto effetti niente affatto secondari, viste le cifre da capogiro che i messicani pagavano, in termini di fame, abbandono, depredazione per mantenere nel lusso e nelle comodità una classe borghese, oligarca e latifondista e una burocrazia corrotta, inclementi verso il popolo messicano. Tra i meriti della gestione Amlo, pur in questo breve periodo, c’è la stabilità economica. Era da molto che il Messico non presentava un equilibrio rispetto al dollaro, che non si avevano effetti positivi sull’inflazione. Pur senza indebitarsi – una delle chiavi centrali della sua gestione -, Obrador ha affrontato i costi dovuti alla pandemia in tutti i suoi aspetti, sia per l’acquisto di vaccini che per il rafforzamento del sistema sanitario pubblico, e un forte contributo è arrivato proprio dai risparmi ottenuti con la lotta alla corruzione che dissanguava le casse dello stato. Basato su onestà e chiarezza, quello di Amlo si definisce governo del popolo, e per questo ha promosso politiche di aiuto economico diretto all’economia familiare e alle piccole imprese, costruendo il clima necessario a che il progetto di Quarta trasformazione fosse ratificato.

Nello stesso giorno, c’è stata la seconda volta delle presidenziali in Perù, dove il maestro Pedro Castillo ha vinto di misura sulla candidata di estrema destra, Keiko Fujimori, che non ha abbandonato la partita. Come vedi la situazione?

Penso che dovremo analizzare meglio le ragioni profonde che portano a votare un progetto come quello del fujimorismo nonostante i disastri, evidenti e noti, che ha portato al paese e che potrebbe portare in futuro. Intendo un’analisi che vada oltre quella dell’influenza degli apparati mediatici e di tutto il sistema di potere scatenato contro il popolo e il suo candidato Castillo, e ci si interroghi sul perché questa corrente possa ancora avere un simile appoggio sociale, evidenziato nei risultati del voto. Una persistenza preoccupante, a fronte delle minacce di golpe provenienti dai militari. Tuttavia, la volontà del popolo stanco di tanta oscenità, è quella di imprimere un vero cambio di marcia, una vera alternativa di potere e, come internazionalisti, dobbiamo mantenere alta l’attenzione e l’appoggio.

Questo è un anno di elezioni in America latina, caratterizzato dalle proteste popolari, come quelle in Colombia. Che momento attraversa il continente?

Agli occhi dei nostri popoli, il modello di saccheggio, oppressione, vassallaggio imposto dall’imperialismo nel continente negli ultimi anni, appare ormai insopportabile. Le proteste aumentano da un lato all’altro del continente: non solo in Colombia, ma anche in Brasile o in Honduras, dove si svolgeranno processi elettorali significativi. La promettente ribellione dei popoli mostra la necessità di unirsi in un programma anticoloniale e antimperialista. Una domanda forte di cambiamento che ci invita a esprimere e diffondere questo programma con una grande e unificante campagna comunicativa che trasmetta la coscienza di quelle lotte e le trasformi in una organizzazione internazionalista. In tal caso, potremo recuperare il cammino compiuto in termini di integrazione regionale e di lotta per la costruzione di un modello alternativo, quanto mai necessario. Un’agenda che ci sembra a portata di mano visto che, seppur da diversi fronti, varie forze convergono su questo tema, e sul debito da saldare in termini di unità internazionalista in tutto il mondo.

Il 23 giugno vi sarà il nuovo voto all’Onu per Cuba. Pensi che la situazione rimarrà invariata?

Ci sono ragioni da vendere per non essere molto ottimisti rispetto al voto, visto che il ripudio del grottesco bloqueo contro il popolo cubano, espresso in quella sede dall’immensa maggioranza dei paesi, si può già considerare un fatto storico. Eppure, non è successo niente di concreto. Non possiamo avere fiducia nei meccanismi dell’Onu, dominata com’è oggi da interessi imperialisti e da un diritto di veto in questo caso assolutamente irrazionale. La fiducia, invece, occorre riporla nel poderoso sostegno che stanno mostrando i popoli e che dovremo organizzare e sostenere con una forte iniziativa di solidarietà internazionale: per non lasciar cadere neanche una delle voci di protesta contro il bloqueo, e accompagnare sempre il popolo cubano e il suo governo in tutti i momenti in cui ci chiedono solidarietà. Dobbiamo farlo in modo rispettoso, senza pretendere di sovrapporre il nostro discorso alla voce del popolo cubano, evitando i piccoli opportunismi, unendoci con disciplina per accompagnare le indicazioni che provengono da Cuba sul modo in cui possiamo appoggiare e accompagnare. Credo che occorra rivedere le strategie e le tattiche della solidarietà con Cuba alla luce della grande ondata di giusta simpatia che sta riscuotendo nel mondo, per rafforzarla e accompagnarla, ma sempre seguendo la lettura concreta che Cuba fa nel suo territorio di lotta contro questa canagliata chiamata bloqueo.

In prospettiva, ci sono anche le elezioni in Venezuela e, prima, in Nicaragua, due paesi in cui le ingerenze delle agenzie Usa sono pesanti. Come vedi la situazione in Venezuela in questo delicato momento di passaggio?

In Venezuela c’è una grande forza politica che saprà orientarsi con chiarezza anche nelle mega-elezioni di novembre. Il livello di coscienza politica è sempre molto alto, anche se alcuni settori hanno risentito degli effetti del blocco economico-finanziario e appaiono demotivati. Io la chiamo demoralizzazione indotta. Settori che dubitano della continuità del progetto bolivariano, socialista e chavista. Nonostante questo, credo ci sia una grande forza organizzativa in un popolo che ha saputo recuperare le forze e ha detto molto chiaramente che non intende accettare in nessun modo, né militare, né politico, né economico, né culturale e tantomeno ideologico, di essere sconfitto da un imperialismo che ogni giorno di più mostra la sua miserabile arroganza nei confronti di tutti i popoli del mondo. Il popolo venezuelano è stato finora un’avanguardia in America Latina e non solo, sia in termini di resistenza che nel suo chiaro orientamento antimperialista basato sulla diplomazia di pace con giustizia sociale. Ho piena fiducia che il processo bolivariano venga ratificato ulteriormente da queste elezioni. Per l’occasione, osserviamo anche un rinnovamento di quadri dirigenti socialisti con l’ingresso di giovanissimi, e l’apertura di molti fronti innovativi sul piano giuridico politico e anche geopolitico che fanno di questo processo elettorale un’occasione di interesse regionale. Per questo siamo chiamate e chiamati ad accompagnarlo e sostenerlo. È grazie al Venezuela, che è riuscito a frenare tentativi di invasione paramilitare, colpi di stato, sabotaggi, se siamo riusciti a preservare la pace nella regione e dobbiamo farne un cardine della battaglia internazionalista. Lo stesso credo debba valere per il Nicaragua, tantopiù che già vediamo agire al suo interno le manovre dell’oligarchia al soldo dell’imperialismo che accarezza l’idea di farla finita con il progetto sandinista. In Nicaragua, la grande forza sta nei numeri, che indicano il consenso elettorale, già dalle inchieste in corso. Tuttavia, anche rispetto al Nicaragua è necessario raddoppiare il lavoro politico di solidarietà.

Tu sei l’ideatore e il rettore internazionale di una importante “fabbrica di contenuti” com’è LAUICOM, l’Università internazionale delle comunicazioni che ha sede a Caracas. Come si viene impostando il lavoro e cosa si prefigge?

L’idea della Università internazionale delle comunicazioni è stata fin dalla sua origine una risposta alle molte necessità che dobbiamo affrontare a partire da una diagnosi chiara della realtà e delle forze in campo nei vari fronti di guerra aperti a livello internazionale. Uno di questi è rappresentato dalla guerra mediatica, dal campo della comunicazione e dell’informazione. Un terreno in cui, a fronte delle campagne di manipolazione e distorsione a livello mondiale, abbiamo manifestato evidenti debolezze. Non abbiamo saputo stabilire e sfruttare al meglio piattaforme, strumenti e capacità per il combattimento semantico e semiotico. Il compito dell’università è quello di formarci quotidianamente sapendo che scontiamo un’asimmetria tecnologica e che non dominiamo né l’ubiquità né la velocità con la quale il sistema dominante controlla i media. Noi dobbiamo sviluppare la qualità del contenuto del progetto, consolidare una filosofia politica di azione comunicativa che ci permetta di costruire un umanismo di nuovo genere, e fare in modo che la comunicazione sia costantemente questo: il nostro diritto come esseri umani a organizzarci liberamente per porre come primo interesse del mondo la allegria, la felicità dell’essere umano contro l’amarezza del capitalismo e i suoi disastri. Per questo, LAUICOM non è solo uno spazio di formazione dedicato all’uso degli strumenti comunicativi, ma al loro impiego al servizio di un filosofare socialista, rivoluzionario, nei termini concreti di un nuovo umanismo che intenda l’urgenza di trovare canali per dire la verità al mondo e costruire strade necessarie per emanciparci. LAUICOM si inserisce nel progetto bolivariano del Venezuela, ma anche in quello dei vari fronti della lotta in America Latina e non solo, che già sono rappresentati nell’università. L’idea è quella di moltiplicare gli spazi di informazione nei quali già abbiamo consolidato esperienza, nel campo della comunicazione, e che sono risultate vincenti a livello di organizzazione popolare per dinamizzare e rilanciare il progetto di una filosofia politica della comunicazione umanista. Uno spazio che necessita di molta creatività, chiarezza e sincerità affinché il meglio dell’essere umano serva a stimolare un nuovo umanismo di carattere rivoluzionario e socialista,

Qual è il tuo sguardo sul Congresso Bicentenario dei Popoli del Mondo che si svolge dal 21 giugno in Venezuela?

Il Congresso permetterà di aprire, di attualizzare l’agenda di lotta popolare che abbiamo in cantiere a livello internazionale. Sappiamo che la lotta emancipatrice dei popoli passa per forme e territori a volte inediti e complessi e che deve affrontare imboscate di ogni tipo, sia sul piano economico-politico che su quello della soggettività. Dobbiamo essere capaci di agire con la piena coscienza di quel che manca e di quello che serve, ponendo anche la necessaria autocritica rispetto agli obiettivi che non abbiamo saputo realizzare e che dobbiamo portare a termine: dalla produzione alla riproduzione della vita, alla necessità di imporre uno sviluppo industriale realmente vantaggioso per i popoli e non per il profitto, al tema educativo. Dobbiamo discutere a fondo i modelli su cui abbiamo finora lavorato a partire dalla complessità tecnologica, dalla manipolazione dei big data, dall’infiltrazione di alcune grandi correnti ideologiche nell’agenda politica e comunicativa. Dobbiamo stabilire un’agenda comune con tutti i fronti di lotta, con la coscienza che il capitalismo potrebbe distruggere l’intera umanità.

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