Geraldina Colotti
A giugno Cuba ha denunciato che, in vista del 2022, l’amministrazione Biden aveva richiesto 58,5 miliardi di dollari per la sovversione: un aumento del 10% rispetto al budget di quest’anno. Dopo gli eventi dell’11 luglio, uno dei principali destinatari dei fondi americani, al centro della campagna di destabilizzazione, è stato Proactive Miami Foudation Inc.
Affinché l’etichetta #SOSCuba diventasse una tendenza globale, come è stato fatto durante le guarimbas in Venezuela con #SOSVenezuela, è stato utilizzato un esercito di robot che ha inviato milioni di messaggi e ha spinto gli “influencer” a promuovere l’etichetta e cambiare la loro posizione per far sembrare che abitassero a Cuba. Sono comparse anche molte pagine falsamente posizionate a sinistra a diffondere critiche agli “errori” di Cuba e alla presunta “dittatura” per nascondere l’azione genocida del blocco.
Dal 1960, l’amministrazione statunitense ha espresso lo scopo di quello che la stampa occidentale chiama erroneamente “embargo” e che è invece un blocco soffocante, destinato a provocare “fame e disperazione” per realizzare il famoso “cambio di regime”. I successivi inasprimenti, anche retroattivi, imposti dopo la caduta dell’Unione Sovietica, hanno violato il diritto internazionale, estendendo il potere coercitivo degli Stati Uniti su tutti i paesi del mondo.
Gli USA infliggono multe di miliardi di dollari alle banche e alle aziende che commerciano con Cuba, costretta a pagare in contanti e a un prezzo molto più alto le merci che riescono ad entrare. Insieme alle misure coercitive unilaterali, c’è un’altra potente arma: la comunicazione digitale, che i gringos vogliono egemonizzare controllando gli algoritmi. Lo sviluppo di nuove tecnologie a Cuba ha moltiplicato le opportunità di attacco.
Le “rivoluzioni colorate”, si sa, vengono convocate attraverso i social network. Così si è provato a fare a Cuba. Il bersaglio preferito della guerra ideologica sono i giovani, che fanno vita nei social network. Nel 2011, gli Stati Uniti hanno creato segretamente un social network simile a Twitter chiamato ZunZuneo, alimentato da messaggi di testo, sia per provare il controllo tecnologico, sia per convocare i giovani a manifestazioni anti-governative allo stesso modo della cosiddetta “primavera araba”.
Il progetto, che aveva attirato circa 40.000 utenti, è scomparso a metà del 2012 a causa di denunce internazionali che avevano evidenziato il ruolo delle imprese private e quello dell’Agenzia Internazionale per lo Sviluppo USA, che distribuisce aiuti umanitari. Ma, se ai tempi di ZunZuneo il governo statunitense negava di avere la responsabilità diretta dell’operazione sotto copertura, ora invece rivendica il “diritto” di interferire attraverso i social network, utilizzati dai cosiddetti artisti di San Isidro come piattaforme di sovversione ideologica.
Le agenzie per la sicurezza statunitensi stanno monitorando da anni lo sviluppo della comunicazione digitale a Cuba, che dal 2013, quando il governo ha installato la fibra ottica attraverso zone Wi-Fi e cybercafé, era aumentata del 346% nel 2017. Nel 2019, l’ONG Freedom House ha indicato che c’erano 682 centri internet e 1.513 punti Wi-Fi. Entro il 2020, ha affermato, Internet aveva raggiunto il 18% delle famiglie e c’erano 3,18 milioni di telefoni cellulari con funzionalità di navigazione.
Basta guardare le false immagini delle manifestazioni contro il governo cubano per vedere la portata della campagna di intossicazione mediatica, già vista in precedenza contro il Venezuela, realizzata attraverso le reti sociali. Perché spendere milioni di dollari per impedire il libero sviluppo di una nazione che non ha mai attaccato nessuno? Nel mirino non ci sono solo i giovani cubani, ma anche quelli senza futuro nei paesi capitalisti a cui deve essere impedito di sapere da che parte della barricata prendere posizione. Alcuni di loro, in questi giorni, hanno risposto all’appello imperialista e si sono recati presso le ambasciate Usa in Europa per richiedere un’invasione armata di Cuba.
Subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica, nell’ancora attualissimo libro-intervista a Fidel (Un grano de maíz), il comandante sandinista Tomás Borge scriveva nel capitolo dedicato ai rapporti tra Cuba e gli Stati Uniti: “Quando il popolo cubano ha preso il potere, i rivoluzionari di tutto il mondo hanno fiutato la grandezza del cambiamento, la fine del determinismo geografico e la nascita del leader più affascinante ed eloquente dei tempi contemporanei.
Cuba si è dedicata, come nessun’altra esperienza storica, alla più appassionata solidarietà verso cause che erano o sembravano giuste. Sono tanti i Paesi e tanti gli esseri umani ad essere stati favoriti dall’affetto che, nelle attuali circostanze dell’isola, sarebbero innumerevoli coloro che sono – o dovrebbero essere – grati.
Cuba ha donato petrolio e corde di chitarra; ha donato sangue per i feriti dei terremoti e sangue sui campi di battaglia dell’America Latina e dell’Africa.
Cuba ha cantato ninne nanne, boleri, inni d’amore e di lotta nelle orecchie dei popoli, ha distribuito metafore e medicine, raccogliendo, senza indugio, ogni reclamo. Quello stile è stato creato da Fidel Castro.
L’eventuale scomparsa della Rivoluzione cubana sarebbe un colpo devastante per le speranze dei nostri popoli. Sarebbe disastroso anche per i governi dell’emisfero, che vedrebbero ridotti i loro spazi di indipendenza e sovranità dagli Stati Uniti…”
E sembra scritta oggi la sacrosanta esortazione del comandante sandinista quando dice: “La cosa più bella di Cuba è stata la sua generosità e la più ammirevole il suo valore.
Siamo obbligati a restituire, senza indugio, almeno un decimo della sua illimitata generosità. E penso che possiamo essere utili nel denunciare il blocco disumano degli Stati Uniti. È necessario convincere l’opinione pubblica internazionale e, soprattutto, quella degli Stati Uniti, affinché il governo di quel paese cambi la sua politica arcaica, irrazionale e crudele contro Cuba. È il nostro unico modo di essere decenti”.