Maité Piñero – https://nostramerica.wordpress.com
“Fidel, il Cile ti apre il suo cuore” titola il quotidiano ‘Clarín’ del 10 novembre 1971, quando Fidel Castro atterra all’aeroporto di Antofagasta. Si tratta della sua prima visita nel continente da quando, per ingiunzione di Washington, tutti gli Stati, eccetto il Messico, hanno rotto le relazioni con Cuba.
Salvador Allende è stato eletto presidente un anno prima e la Unidad Popular (UP) ha ottenuto la maggioranza assoluta alle legislative di marzo. Un popolo vibrante di entusiasmo e di speranza riceve il rivoluzionario cubano.
Prevista per dieci giorni, la visita durerà fino al 4 dicembre. Una specie di uragano va da nord a sud, dalle latitudini tropicali di Iquique fino alle solitudini glaciali della Terra del Fuoco, convocando folle immense. Fidel si siede a tavola con il popolo a mangiare le “empanadas”, a bere il “pisco”; gioca a basket, qualche volta indossa il poncho.
Con il socialismo come ambizione, due esperienze rivoluzionarie diverse, la lotta armata e la via pacifica, legale, dialogano. Fidel pronuncia una trentina di discorsi, moltiplica le conferenze stampa e le interviste. Vuole comprendere: “Non siamo venuti a dare lezioni, siamo venuti ad imparare”.
Davanti ai sindacalisti della CUT (Centrale Unica del Lavoro), a una domanda sulla “superiorità” del processo cubano, denuncia il dogmatismo: “essere rivoluzionari vuol dire essere realisti. Essere rivoluzionari vuol dire partire dalla realtà, approfittare di tutte le possibilità di andare avanti(…) Se tutte le strade portano a Roma, c’è da credere che migliaia di strade portano alla Roma rivoluzionaria (…) Una rivoluzione non si compra al supermercato. Non esiste una rivoluzione bella e fatta. Bisogna farla, è un cammino lungo, un processo”.
Il viaggio comincia il 12 novembre nella culla del movimento operaio al Nord, ad Antofagasta, Iquique, con la visita ai minatori a Pedro de Valdivia e Santa Elena, ai lavoratori del rame di Chuquicamata appena nazionalizzata. Continua presso i minatori di Tomé, di Lota, i pescatori di Puerto Montt, i metallurgici di Huachipato.
Fidel riunisce venticinquemila donne allo stadio di Santa Laura, dialoga per core con gli studenti, all’Università del Nord, a quella Tecnica di Stato. A quella di Concepción, culla del movimento della sinistra rivoluzionaria (MIR), mette in guardia contro il settarismo “capace di distruggere una rivoluzione”. “Nel nostro paese la forza della rivoluzione è l’unità. Se avessimo creato una setta di guerriglieri della montagna, dove sarebbe andato il resto del paese? Non è un gruppo di uomini che ha scritto la storia di Cuba, ma un popolo intero …la rivoluzione deve avere un obbiettivo: vincere, riunire, rinforzarsi”.
Fidel si rivolge a tutto il continente: “Cubani e cileni, noi non lottiamo solo per Cuba e per il Cile … Noi lottiamo per quello che martí chiamava “Nostra América”, quella di Bolívar, di O’Higgins, San Martín, Sucre, Morelos. Cileni e cubani, noi ne siamo i due poli, si intravede un’anima nuova formata dopo secoli che creerà la grande comunità dei nostri popoli, conquisterà il suo posto nel mondo e un avvenire fortunato”.
Più tardi si saprà che la CIA aveva ordinato di sparare a Fidel e aveva organizzato tre attentati. Dopo una conferenza stampa, una delle telecamere della televisione venezuelana era stata dotata di armi automatiche manovrate da mercenari cubani. Che hanno confessato di aver avuto paura di sparare. “I servizi speciali degli Stati Uniti erano andati più lontano di quanto eravamo riusciti a immaginarci” ha scritto Fidel.
A Valparaiso fa una requisitoria dell’imperialismo e trascina in piedi il suo uditorio: “In nome della verità! In nome della ragione! In nome della morale! Che vadano al diavolo!”
Prima, durante e dopo il suo viaggio, ‘Tribuna?, i giornali satirici, la stampa di destra, affibbiano al dirigente cubano qualsiasi epiteto, un parossismo di odio che rivela la polarizzazione della società e la gravità del momento. Il 1 dicembre, a Santiago, migliaia di borghesi sfilano con le casseruole, inquadrate da gruppi paramilitari. Ci saranno più di cento feriti negli scontri con i militanti dell’Unión Popular.
L’indomani, il giorno degli addii, lo stadio si Santiago deborda. Fidel afferma che niente impedirà la montata ineluttabile del fascismo, che bisogna prepararsi alla battaglia decisiva. La soluzione, secondo lui, non passa attraverso la negoziazione politica ma attraverso la mobilitazione del popolo. E conclude: “Io ritorno a Cuba più rivoluzionario che mai”. E offre a Salvador Allende il fucile automatico con cui quest’ultimo si difenderà nel Palazzo della Moneda assediato.
Fidel andrà in visita in Perù e in Ecuador. Ma intanto, il colpo di stato del settembre 1973, la lunga notte delle dittature, isoleranno nuovamente Cuba che si rivolgerà verso l’Africa. Bisognerà arrivare al 1996 per vederlo ritornare in Cile.
Lettera di Fidel Castro a Salvador Allende, 29 luglio 1973: Non dimenticare mai la formidabile forza della classe operaia cilena e il sostegno energico che ti ha portato in tutti i momenti difficili: essa può, a una tua richiesta, davanti alla rivoluzione in pericolo, paralizzare i golpisti, rafforzare gli indecisi, imporre le proprie condizioni e decidere una volta per tutte, venuti al caso, il destino del Cile. Il nemico deve sapere che sta in guardia e che è pronta ad entrare in azione”