Un messaggio mira a produrre determinati effetti, ma può scontrarsi con situazioni locali, con diverse disposizioni psicologiche e desideri, e produrre un effetto boomerang, si chiude sempre sul ricevente ed è lì dove si decide la battaglia
Ernesto Estevez Rams www.granma.cu
La battaglia della comunicazione non si vince nei media, si vince nella scuola. Questa certezza e il fatto che stiamo vivendo l’era della socializzazione digitale dell’informazione dovrebbe sollevare la questione se non sia necessario introdurre nei nostri curricula scolastici, in modo più rigoroso, elementi di semiotica e altri elementi correlati -benché non sembri così-, come apprezzamento dell’arte, della cultura cubana, della storia della scienza.
L’idea è supportata da ciò su cui i teorici della comunicazione stanno lavorando da decenni. Forse la persona che l’ha prospettato meglio è Umberto Eco, poiché riferendosi ai fenomeni della comunicazione di massa, avvertiva che, a prescindere dall’egemonia comunicativa di qualche potere, che è capace di annegare lo spazio sociale con i suoi messaggi, «si osservava che ciò che il messaggio diceva intenzionalmente non era necessariamente ciò che il pubblico leggeva. Gli esempi più ovvi erano che l’immagine di un recinto pieno di mucche sia “letta” in modo diverso da un macellaio europeo che da un bramino indiano, che la pubblicità di una Jaguar suscita il desiderio di un facoltoso spettatore e provoca frustrazione in un diseredato. Un messaggio, insomma, mira a produrre certi effetti, ma può scontrarsi con situazioni locali, con disposizioni psicologiche e desideri differenti, e produrre un effetto boomerang».
Il messaggio sempre si chiude nel destinatario ed è lì dove si decide la battaglia.
Notiamo, per aggiungere agli esempi di Eco, che per una notizia sull’Ucraina, dove il giornalista cerca l’empatia del pubblico affermando che le persone a Kiev “sono persone come te e me. Ho visto borse di Dolce & Gabbana, abiti di Louis Vuitton, cioè persone che potrebbero stare perfettamente a Madrid”, ci sono due lettori, alcuni che accetteranno l’idea che la condizione dell’essere umano si cristallizza nei marchi che consumino e a seconda del luogo dove potrebbero appartenere; e coloro che, scomponendo i significati non scritti del messaggio, lo rifiuteranno per strumentalizzare l’ essere umano nei termini del suo consumo e del suo background xenofobo, per ridurre la condizione umana a coloro che possono avere il diritto di camminare per le strade d’Europa.
Ma altri esempi più ravvicinati dovrebbero attivare le nostre allerta. Che nonostante tutta l’egemonia comunicativa contro il blocco che regna nei media del Paese, ci sia una parte della popolazione –non insignificante e forse crescente– che vi legge una giustificazione agli errori interni, parla del pericolo di non comprendere che il messaggio si chiude sempre nel ricevente. Chi fa un giro sulle reti sociali e le loro bolle su Cuba osserverà come questa idea del blocco, come mera cortina fumogena, abbia un peso importante nelle opinioni che vengono espresse.
Ma al di là di certi esempi, ancora più grave è la formazione di un consumatore di informazioni che non è stato educato a cercare al di fuori dell’informazione immediata, implicita o esplicita nei messaggi, i punti di riferimento che permettano decodificare ciò che si legge. Riferimenti persino a cui ha avuto accesso, ma che è incapace di effettuare i collegamenti necessari. Troppo spesso leggo i miei studenti dell’Università, che hanno ricevuto centinaia di ore di lezioni di storia, marxismo e di altre scienze sociali, che credono che la battaglia di Cuba contro l’imperialismo yankee e la sua strumentalizzazione attraverso il settore controrivoluzionario dell’esilio, sia un problema di “amarci tutti”, e ignorano la base storica, geopolitica e di classe dello scontro.
Il problema è che non basta insegnare, bisogna fare in modo che dall’apprendimento si creino non solo strumenti di analisi, ma anche riferimenti accessibili quando necessari.
Quella stessa mancanza è ciò che fa sì che si abbia un orecchio ricettivo, in una parte della popolazione, all’ignobile argomento che pretende sfumare la “giustizia” batistiana che assassinò uno ogni 2,3 assaltanti il Moncada; che torturò a tal punto, castrando, mutilando e cavando gli occhi ai combattenti imprigionati; che perseguitò nelle strade e uccise giovani che nulla avevano a che fare con l’azione di combattimento e poi, e solo allora, portò in giudizio i sopravvissuti che non poteva assassinare, per eroici atti di decenza da parte di persone e membri onorevoli dell’esercito.
Argomento che cerca di confrontare, a favore della “giustizia” batistiana, i processi ai vandali per gli atti violenti dell’11 luglio, per i quali nessuno è stato torturato, né vi sono stati omicidi in cella, né cacce di giovani nelle strade per essere uccisi; per cui meno di uno ogni 50 partecipanti è stato condannato al carcere, e solo quelli che sono stati attori delle violenze scatenate nel mezzo di un’emergenza socio-sanitaria che ha messo il Paese in tremenda tensione per preservare la vita umana. Atti di violenza in cui sono state assaltate farmacie, poliambulatori e ospedali dove in quel momento si lottava per la vita. Atti di violenza in cui si facevano appelli a linciare la polizia, quelli che sono anche figli, vicini e parte del popolo, che in quel momento si mobilitavano per trasportare le bombole di ossigeno dove servivano, e che lavoravano instancabilmente per garantire la logistica nella straordinaria battaglia contro la pandemia.
Che il nemico (non illudiamoci, è sempre il nemico, perché siamo in guerra, anche se ci vogliono vendere il contrario) sì abbia imparato a chiudere il messaggio sul ricevente, raggiungendo da cellulare a cellulare, deve servirci per proporci cambiare, in questa materia, qualunque cosa debba essere cambiata.
In ogni menzogna che riesca a prevalere, sono ritratte le nostre incapacità. A nostro favore abbiamo che la verità, la storia e lo scopo del futuro sono il nostro principale vantaggio. Per quanto lo cerchino di nascondere, la controrivoluzione non può essere rigorosa, perché ha bisogno della menzogna. Ma abbiamo, inoltre, le scuole, gli spazi pubblici, i nostri media come strumenti essenziali per disegnare la retroguardia e lo scenario di questa battaglia.
E abbiamo il popolo, sempre il popolo, quello che è il protagonista dell’atto, e da cui provengono i suoi dirigenti.
La batalla comunicacional
Un mensaje apunta a producir ciertos efectos, pero puede chocar contra situaciones locales, con distintas disposiciones sicológicas y deseos, y producir un efecto boomerang, siempre se cierra en el receptor y es ahí donde se decide la batalla
Autor: Ernesto Estévez Rams
La batalla comunicacional no se gana en los medios, se gana en la escuela. Esa certeza y el hecho de que vivimos la época de la socialización digital de la información, debería plantearnos la cuestión de si no es necesario introducir en nuestros curriculums escolares, de forma más rigurosa, elementos de semiótica y otros conexos –aunque parezca que no tanto–, como apreciación del arte, cultura cubana, historia de la ciencias.
La idea viene respaldada por lo que los teóricos de la comunicación vienen trabajando por décadas. Quizá quien mejor lo ha planteado es Umberto Eco, pues al referirse a los fenómenos de la comunicación de masas, advertía que, independiente de la hegemonía comunicacional de algún poder, que es capaz de ahogar el espacio social con sus mensajes, «se observaba que aquello que el mensaje decía intencionalmente no era necesariamente lo mismo que leía el público. Los ejemplos más obvios eran que la imagen de un corral lleno de vacas es “leída” de manera diferente por un carnicero europeo que por un brahmán de la India, que la publicidad de un Jaguar despierta el deseo de un espectador adinerado y provoca frustración en un desheredado. En suma, un mensaje apunta a producir ciertos efectos, pero puede chocar contra situaciones locales, con distintas disposiciones sicológicas y deseos, y producir un efecto boomerang».
El mensaje siempre se cierra en el receptor y es ahí donde se decide la batalla.
Apuntemos, para agregar a los ejemplos de Eco, que para una noticia sobre Ucrania, donde el periodista busca la empatía del público aseverando que las personas en Kiev «son gente como tú y como yo. He visto bolsos de Dolce & Gabbana, ropa de Louis Vuitton, o sea, gente que podría estar en Madrid perfectamente», hay dos lectores, unos que aceptarán la idea que la condición de ser humano se cristaliza en las marcas que consumen y en función del lugar adonde podrían pertenecer; y los que, desmenuzando los sentidos no escritos del mensaje, rechazarán a este por instrumentalizar al ser humano en términos de su consumo y su fondo xenófobo, por reducir a la condición humana, a aquellos que pueden tener derecho a transitar las calles de Europa.
Pero otros ejemplos más cercanos deben disparar nuestras alertas. Que a pesar de toda la hegemonía comunicacional contra el bloqueo que prevalece en los medios del país, haya una parte de la población –no despreciable y quizá creciente– que lea en ello una justificación a los errores internos, habla del peligro de no entender que el mensaje siempre se cierra en el receptor. Quien se dé una vuelta por las redes sociales y sus burbujas de Cuba, observará cómo esa idea del bloqueo como mera cortina de humo, tiene un peso importante en las opiniones que se vierten.
Pero más allá de determinados ejemplos, más serio aún es la conformación de un consumidor de información a quien no se le ha educado en buscar fuera de la información inmediata, implícita o explícita en los mensajes, los referentes que hagan posible decodificar lo que se lee. Referentes inclusos a los que ha tenido acceso, pero que es incapaz de hacer las conexiones necesarias. Leo con demasiada frecuencia a estudiantes míos de la Universidad, que han recibido cientos de horas clases de historia, de marxismo y de otros contenidos de Ciencias Sociales, que creen que la batalla de Cuba contra el imperialismo yanqui y su instrumentalización a través del sector contrarrevolucionario del exilio, es un problema de «amarnos todos», e ignoran el basamento histórico, geopolítico y clasista de la confrontación.
El tema es que no basta con enseñar, hay que lograr que del aprendizaje se creen no solo instrumentos de análisis, sino además referentes accesibles cuando se les necesite.
Esa misma carencia es la que hace que tenga un oído receptor, en una parte de la población, el vil argumento que pretende blanquear la «justicia» batistiana que asesinó a uno de cada 2,3 asaltantes al Moncada; que torturó a semejante proporción, castrando, mutilando y sacando ojos a los combatientes prisioneros; que persiguió en las calles y asesinó a jóvenes que nada tenían que ver con la acción combativa y entonces, y solo entonces, llevó a juicio a los sobrevivientes que no pudo asesinar, por actos heroicos de decencia de personas y miembros honrados del ejército.
Argumento que pretende comparar, a favor de la «justicia» batistiana, con los juicios a los vándalos por lo actos violentos del 11 de julio, por lo cual nadie ha sido torturado, ni han ocurrido asesinatos en calabozos, ni cacerías de jóvenes en la calles para ser ultimados; por lo cual menos de uno por cada 50 participantes ha sido condenado a penas de cárceles, y solo aquellos que fueron actores en la violencia desatada en medio de una emergencia sociosanitaria que ponía al país en tensión tremenda para preservar la vida humana. Actos de violencia donde se asaltaron farmacias, policlínicos y hospitales donde en ese mismo momento se luchaba por la vida. Actos de violencia donde se hacían llamados a linchar a los policías, esos que son también hijos, vecinos y parte del pueblo, que en ese momento se movilizaban para transportar los balones de oxígeno adonde se necesitaran, y que trabajaban sin descanso en asegurar la logística en la batalla extraordinaria contra la pandemia.
Que el enemigo (no nos engañemos, se trata siempre del enemigo, porque estamos en guerra, aunque quieran vendernos lo contrario) sí haya aprendido a cerrar el mensaje en el receptor, llegando celular a celular, debe servirnos para proponernos cambiar, en este tema, lo que tenga que ser cambiado.
En cada mentira que logre prevalecer están retratadas nuestras incapacidades. A nuestro favor tenemos que la verdad, la historia y el propósito de futuro es nuestra principal ventaja. Por más que lo intenten escamotear, la contrarrevolución no puede ser rigurosa, porque necesita de la mentira. Pero tenemos, además, las escuelas, los espacios públicos, nuestros medios como instrumentos esenciales para diseñar la retaguardia y el escenario de esta batalla.
Y tenemos al pueblo, siempre el pueblo, ese que es protagonista de la gesta, y del cual salen sus líderes.