Perù,un collasso sociale

José Carlos Agüero Nostramerica… (wordpress.com) 

Lo scrittore peruviano José Carlos Aguero*, intervistato da Enrique Patriau per “La República” il 21.12.22, analizza la situazione drammatica creatasi nel suo paese dopo l’arresto di Pedro Castillo: non si tratta dell’ennesima crisi politica, ma di un collasso sociale.

Come spiegare tutta questa violenza? Ci sono cose che stanno lì da tempo e che non abbiamo voluto prendere sul serio. C’è stato un conflitto armato interno, poi una dittatura, un processo di antipolitica, una pandemia che ha distrutto quel poco che restava del tessuto sociale. Così io intendo la diagnosi del paese. La gente, in generale, dice che ci troviamo in una crisi politica che porta ad un’altra e a un’altra ancora, ma per me questa qui è un’altra cosa: è un collasso sociale, cioè quando tutto sparisce, quando il tessuto sociale si sfilaccia, quando le istituzioni non lo sono più.

Quando tutto questo accade non solo è difficile esercitare il governo ma anche la stessa convivenza. Il collasso sociale non genera una crisi politica normale, ma qualcosa che sarà molto difficile superare. In realtà la crisi si è già verificata e il paese ha collassato. Ora stiamo vivendo gli effetti di questa crisi. Come si esprimono in questo collasso le domande della gente che è stata troppo denigrata? Non parliamo di Pedro Castillo come personaggio reale, che sappiamo bene chi sia: un personaggio politico tradizionale minore, per dirlo in modo elegante. E devo aggiungere che è antidemocratico e golpista.

Ma questa non è l’unica figura di Pedro Castillo che circola. Circola anche il Castillo simbolico, quello che rappresenta. Dopo una campagna gigantesca di umiliazione e stigmatizzazione nelle elezioni, rappresentava per la gente qualcosa come la propria partecipazione alla vita democratica.

Ne rappresentava la rivendicazione politica, ne era il rappresentante. Un “quello sono io”. Era un patto: tu hai tutto il resto, bene, io ho il presidente che ho eletto. Ok. Cacciato Castillo, perché la gente lo vive così, non c’è più il patto. Il vincolo con Castillo è fortemente identitario. Non è programmatico. Lì ci sono i dirigenti, ci sono i video. Non sono mie opinioni. Una donna a Cajamarca diceva: “sarà ignorante, sarà un professorino, ma è quello che ho eletto io”. La caduta di Castillo è sentita come aver strappare qualcosa a qualcuno che è stato umiliato troppo. Che si aspettava l’attore politico che succedesse, con questo popolo che è stato denigrato e stigmatizzato? Che se ne restasse tranquillo?

Castillo operava come una diga. Se tu mi offendi e umili e per di più hai tutto il potere, per lo meno io ho il presidente. Ma adesso non ho più niente. E di fronte a una situazione di collasso sociale, come si può esprimere una rivendicazione, un’indignazione così profonda? Non c’è modo perché non ci sono i canali, e così di produce l’esplosione sociale. E siccome non ci sono mediatori, non si può neanche controllare né amministrare l’esercizio della violenza.

[Ci sono state azioni irresponsabili. Per esempio da parte del Congresso. Celebrare la vacanza come una vittoria è stato un segnale di frivolezza]

Di disconnessione e di disprezzo. Ci sono principi basici che abbiamo perduto: empatia e rispetto. Il messaggio che disgraziatamente è stato mandato in queste settimane e che ha generato questa esplosione di ribellione è durissimo. Che messaggio abbiamo dato? Che quando la gente povera ed esclusa vota, il suo voto è come che avesse un vizio di origine perché è ignorante e non sa scegliere. Quando governa, è incapace, rozza. E quando protesta, è vandalica, barbara. In ogni caso, quel cittadino è mutilato in quanto tale e può solo essere tutelato. Né come votante, né come governante, neanche come protestante è considerato uguale. Questo è del tutto antidemocratico ma è quello che funziona in questo momento come messaggio egemonico.

[In questa situazione giocano un ruolo anche i mezzi di informazione] ma bisogna distinguere i lavoratori della stampa dalle corporazioni. Non credo che il margine di azione di quei lavoratori sia molto grande. D’altra parte, ci sono media alternativi che fanno un lavoro abbastanza buono e altri che, a dir la verità, sono irresponsabili. Ma parlando dei media come parte dei gruppi di interesse che amministrano il potere in Perù, non c’è molto da sorprendersi o da arrabbiarsi. Non possiamo cavar sangue dalle rape. La funzione che compiono questi gruppi di interesse, nel mondo intero, non è generare coscienza critica o incentivare il dibattito, ma operare in funzione dei propri interessi e per questo non si fermeranno nelle campagne di disinformazione né di manipolazione. Dire che tutto sia il frutto di una cospirazione terrorista è una pura e semplice bugia. Si tratta di una campagna. Io, che non sono giornalista ma che mi tengo informato, che ho accesso a un’enorme quantità di audio e di video di riunioni di dirigenti e di associazioni, beh, l’ultima cosa che puoi vedere lì sono i terroristi. Da dove tirano fuori che ci siano terroristi? Quello che c’è è gente indignata che si organizza. Usano il linguaggio classista, vero, è proibito, forse? E’ come usare il linguaggio liberale. Quella gente non fa parte di organizzazioni terroriste e non sta neanche pianificando sedizioni.

Si fa una cosa gravissima omogeneizzando tutta la protesta con il discorso del “terruqueo”] E’ gravissimo. Il “terruqueo” è uno dei meccanismi utilizzati negli ultimi anni per invalidare l’avversario in Perù ma anche altrove. Qui ha funzionato molto. E’ una questione di ingegneria sociale. Dire “terruco” [contadino]  a qualcuno significa toglierlo dall’orbita della legittimità e renderlo annichilabile. Giustifica che si eserciti su di lui qualsiasi tipo di repressione perché rappresenta un pericolo per la convivenza nazionale. Li rende “bersagli”, che è quello che è capitato ad Ayacucho. A Lima non vediamo l’esercito che spara ad altezza d’uomo. Ad Ayacucho l’esercito è venuto fuori … Ad Ayacucho!, questo è di una grossolanità …, di un’inettitudine che sfugge alla ragione. E’ difficile capire. Per trovare il lato più discorsivo, c’è molto sdegno e a volte questo scivola dentro le nostre decisioni.

Adesso c’è bisogno di ragionare a breve termine. Bisogna disattivare i dispositivi che mettono a rischio la vita della gente. Tutti. Dalla grammatica fino alle disposizioni dello stato di emergenza. Dall’altro lato ci sono attori mobilitati che saranno frammentati, disorganizzati, inarticolati ma con i quali bisogna parlare. Con chi altri parlare? Ti stanno dicendo: sono qua, metto a rischio la mia vita perché voglio partecipare, decidere della vita pubblica, una cosa profondamente democratica. Come diceva Martín Tanaka, e sono d’accordo, non si può gestire il vuoto, il vuoto deve essere riempito con persuasione, spiegazione, negoziato e con interlocutori.

In un secondo tempo, si potrà pensare se ci dovrà essere o no una nuova costituzione. Ci sarà gente a favore o contro, discutiamone. Il fatto è che l’urgenza ti chiede altro. Se non va a rallentare l’uscita dalla crisi con un minor costo, avanti. Ma se la deve rallentare, bisogna abbassare le aspettative. Per esempio, non si può chiedere che Castillo sia liberato e restituito, non sarebbe realista. Questo è a medio termine. Quanto a quelle a lungo termine, non le ho chiare. In principio, essendo tristi le conseguenze delle mobilitazioni perché le morti ci addolorano, almeno dimostrano che la gente è disposta a lottare per la rappresentanza politica. E’ un esercizio democratico e, forse, è il germe di una possibile ricostruzione del tessuto sociale. Forse.

* – José Carlos Agüero è storico e poeta, diplomato in Diritti umani e Studi di Genere. E’ membro del Taller de Estudios de Memoria-Yuyachkanchik y directivo dell’ Instituto Promoviendo Desarrollo Social. Lavora al Ministerio de Cultura. E’ coautore di Memoria para los ausentes, il primo libro che ha trattato dei desaparecidos in Perú.

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