Le memorie dell’ultimo schiavo cubano

articolo di Bruno Arpaia sul Il Venerdì di Repubblica

INTERVISTA A MIGUEL BARNET, CHE NEL 1963 RACCONTÒ IN UN LIBRO LA STORIA DI ESTEBAN MONTEJO, 104 ANNI, FUGGIASCO E POI COMBATTENTE. UN CAPOLAVORO CHE ORA TORNA IN NUOVA EDIZIONE.

di Bruno Arpaia

Nel 1963, un allora giovanissimo etnologo e poeta cubano, Miguel Barnet, lesse su un giornale dell’Avana che uno degli ultimi cimarrones, gli schiavi fuggiti in montagna in cerca della libertà, era ancora vivo.

Si chiamava Esteban Montejo e all’epoca aveva centoquattro anni. Barnet decise di andare a incontrarlo alla Casa del Veterano, dove abitava, e tre anni dopo, nel 1966, pubblicò un libro che Graham Greene definì «unico».

Alejo Carpentier disse che era un lavoro «condotto con penna di poeta e rigore di etnografo», mentre Italo Calvino scrisse che si trattava di «uno di quei rari casi in cui il “materiale” etnografico e sociologico assume spontaneamente, per la sua forza interna, un valore poetico e letterario».

Pubblicato e ripubblicato anche in Italia da Einaudi (nel 1968 e nel 1998), Cimarrón. Biografia di uno schiavo fuggiasco viene oggi riproposto da Quodlibet (a cura di Elena Zapponi, traduzione di Marina Piazza e Gabriella Lapasini). In quel testo, che avrebbe poi avuto un’ottantina di edizioni in svariate lingue, Esteban Montejo raccontava, nel suo linguaggio colorato e con le sue particolarissime idee, i tempi della schiavitù, la dura vita nelle baracche, i suoi anni in montagna, solitari e felici, il momento dell’abolizione dello schiavismo, i diversi lavori nelle piantagioni di canna e nelle raffinerie di zucchero, la partecipazione alla guerra d’indipendenza cubana. Ma, soprattutto, riempiva molte lacune nella storia di Cuba e dei suoi abitanti di origine africana, parlando delle loro cosmogonie, del loro mondo magico-religioso, delle loro pratiche estetiche, mediche, culinarie, sessuali. Miguel Barnet ha oggi ottantaquattro anni ed è ancora attivissimo come figura pubblica nel proprio paese. Ma all’epoca cosa lo spinse a voler incontrare Esteban Montejo?

«Non mi riproponevo di incontrare un reperto da museo. Cercavo di conoscere le profondità di un essere umano, le condizioni di sopravvivenza nelle baracche delle piantagioni, le relazioni interetniche, volevo sapere com’era la vita, quotidiana, personale, sessuale, religiosa di un uomo vissuto in schiavitù, subendo frustate e punizioni. Volevo capire la sua cosmogonia, il suo mondo, la sua magia, volevo restituire la sua sonorità, quello che non c’era nei libri di storia, perché all’epoca tutto questo a Cuba non era conosciuto. Si avevano dati demografici, dati storici sulla tratta, però nessuno era mai penetrato nell’animo di un uomo che era stato schiavo e che era fuggito in montagna per essere libero. Esteban Montejo era l’ultimo dei cimarrones sopravvissuti in tutto il continente e bisognava riscattare la sua esperienza».

Dopo pochi incontri, l’identificazione tra voi due fu fortissima. Fu questo a spingerla a non scrivere un saggio etnologico, ma a raccontare la storia in prima persona?

«Sì, certo. Partendo dalle registrazioni, avevo riempito centinaia di schede con gli episodi della sua vita, come si fa per un saggio, ma a un certo punto mi sono reso conto che, per riprodurre con efficacia il suo pensiero e il suo mondo, non bastava il mio lato etnologico: la prima persona era la più adatta, la più intima. Aver studiato le religioni africane e in particolare i loro sistemi divinatori mi aiutò a entrare in profondità nella vita e nello spirito di Esteban. E a partire dal fatto di essere anche un poeta e uno scrittore ho cercato di non tradire il suo tono, il suo stile, il suo modo di raccontare. Credo di esserci riuscito in gran parte perché la mia vena poetica si è conciliata con la sua. Fu una fusione di anime, e penso che fu questo a decretare il successo del volume».

Quel libro, che lei definì «romanzo testimoniale», aprì una strada diversa e innovativa rispetto alla letteratura che si scriveva allora nell’America latina, una strada che poi seguirono in molti. Quali sono le caratteristiche di questo tipo di romanzo?

«È un racconto a metà strada fra storia, filosofìa, sociologia e poesia. Io sono partito dall’etnologia, ho fatto uno studio sul campo, ascoltando un testimone, sviluppando un sistema di codici e valori che erano molto soggettivi, ma che restavano all’interno della metodologia della ricerca antropologica. Poi, però, ho cercato di fare in modo che non si perdesse il legame con la letteratura pura, che non si perdessero energie nella trasposizione in racconto».

E dunque qual è il ruolo dello scrittore in un romanzo testimoniale?

«Non deve mai dimenticare la complicità con il lettore e deve avere una sensibilità e un orecchio finissimo, attento ai toni e alle sfumature, per non tradire il suo testimone, per non produrre qualcosa di freddo e di schematico. Nel caso del romanzo testimoniale lo scrittore contribuisce a creare un personaggio a partire dalla realtà, ma reinventando per rendere il tutto più verosimile. Dev’essere come un riflettore che illumini le zone più oscure, le pieghe interiori del personaggio, portandole alla luce».

Quanto è importante oggi la cultura dei cubani di origine africana nella definizione dell’identità culturale del paese?

«Credo che l’identità di Cuba non si possa definire se non si tiene conto del fattore africano. Come diceva il mio maestro, il grande antropologo Fernando Ortiz, “senza i neri Cuba non sarebbe Cuba”. Ma la stessa cosa si potrebbe dire per i cinesi, per i mediorientali, per gli spagnoli… La nostra cultura è il risultato di un grande meticciato che si produce attraverso un processo di transculturazione molto ben definito proprio da Fernando Ortiz».

Dopo la Rivoluzione, a livello di studi e di dibattiti, a Cuba c’è stata una elaborazione culturale sull’epoca dello schiavi­smo? Ricordo che anche Fidel Castro aveva spesso ripetuto che, nonostante la parità di occasioni per tutti, i discendenti degli schiavi neri costituivano la parte più povera della società dell’isola…

«Si, ci sono stati molti studi e un grande dibattito su quell’epoca e sul razzismo. Oggi c’è un’agenda nazionale creata dal governo per studiare i risultati della schiavitù e il tema della discriminazione razziale. È chiaro a tutti che si tratta di un problema che non si risolve con le leggi o con le misure amministrative, ma con un’educazione che parta dalla scuola e dalla famiglia. C’è ancora da fare, ma abbiamo superato molti aspetti di questa discriminazione che era fortissima negli anni precedenti alla Rivoluzione e proveniva ancora dagli anni dello schiavismo, pendendo come una spada di Damocle su tutti i neri dell’isola».

Lei è stato molto amico di Italo Calvino. Qual era il suo rapporto con lei e con Cuba?

«Con Cuba, Calvino ha avuto un rapporto molto profondo perché era nato qui, anche se vi aveva vissuto soltanto per due anni. Era interessato al paese perché aveva un’enorme curiosità, e la realtà cubana lo emozionava. Tanto è vero che volle sposarsi qui e io partecipai alle sue nozze. La nostra è stata una grande amicizia e gli sono tuttora molto grato perché fece pubblicare i miei libri in Italia. Ci vedevamo a Cuba, ma anche a Roma e a Parigi, quando viveva li. Credo che sia uno degli scrittori europei più interessanti e uno dei più colti. Non era soltanto un grande narratore, ma un pensatore, un intellettuale. Era un uomo con una visione universale della cultura, un uomo straordinario, irripetibile, che ci ha aiutato a capire la realtà. Sarebbe interessantissimo sapere cosa penserebbe del mondo attuale e delle sue tragiche derive».

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