Gabriel García Márquez ha raccontato la magia della realtà in cui viviamo e ci ha permesso d’inorgoglirci della nostra mitica, di vedere i nostri dolori e le radici
«Il capitano guardò Fermina Daza e vide nelle sue ciglia le prime scintille di una brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, il suo dominio invincibile, il suo amore impavido, e lo spaventò il tardivo sospetto di quello che è la vita più che la morte quella che non limiti
«–E sino a quando lei crede che potremo continuare in questo andare e venire del carajo?– gli chiese.
Florentino Ariza aveva la risposta preparata da cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, con le loro notti.
«–Tutta la vita– disse».
Termina così il romanzo /L’amore nel tempo del colera/, e per chi legge –dopo una lieve fermata del cuore sorpreso– non c’è sospetto né accusa d’inverosimilità per la passione eccessivamente dilatata, quasi perpetua.
È che il libro ci guarda dentro e resta la certezza che non esiste una possibile scappatoia : tutti vivremo alcuna volta una storia così, meritevole di navigare sino all’infinito, incluso nell’ultima opportunità.
Questo è precisamente uno dei segni della grandezza di Gabriel García Márquez (Colombia, 1927) come scrittore, raccontarci il tremendo ordito della nostra realtà «questa che non è quella di carta, ma quella che vive con noi e determina ogni istante delle nostre incontabili morti quotidiane e che sostenta una sorgente di creazione insaziabile piena di miseria e di bellezza».
Per questo /Cent’anni di solitudine/, considerata uno dei grandi classici ispanici di tutti i tempi, monumento del realismo magico, propizia una grado tanto alto d’immersione nella storia. Soprattutto i latinoamericani possiamo vederci in questi razionali spezzati; niente in questa terra è stato bianco o nero, buono o cattivo. Siamo la mappa della miscela del contrasto
Il Gabo, premio Nobel di Letteratura, che si autodefinì “errante e nostalgico”, per scrivere prese molto del suo mondo personale, del nonno militare, della nonna superstiziosa, dei genitori ostinati a sposarsi nonostante l’opposizione familiare, di Aracataca, del suo stesso amore dichiarato quasi alla frontiera dell’infanzia per Mercedes Barcha, di episodi come aver perso la visione di un occhio per aver guardato direttamente l’eclisse.
In questo senso lo possiamo considerare uno scrittore realista, conoscitore del nodo della nostra solitudine: secondo lui, le creature di questa «realtà senza freni» abbiamo dovuto chiedere davvero poco all’immaginazione, la sfida maggiore è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali per rendere credibile la nostra vita.
Lui ha saputo estrarre il nodo. Con la sua maestria narrativa capace di creare interi universi e personaggi indimenticabili, ha eretto un’opera letteraria immensa.
Fu, inoltre, un autentico giornalista, un promotore del cinema e un intellettuale senza timore di prendere partito, e questo gli apportò molti problemi. Persistette per esempio nella sua ammirazione per Cuba e nell’amicizia con Fidel, che con panni tiepidi non si può vivere per raccontarla.
Morendo, il fondatore di Macondo, il 16 aprile di dieci anni fa, cominciava il periplo della memoria, che è un’altra forma d’esistere senza limiti.
Pochi come lui ci hanno messo di fronte all’essenza dell’America Latina, «questa patria immensa di uomini allucinati e donne storiche, la cui cocciutaggine senza fine si confonde con la leggenda».
Questo gli dobbiamo: leggerlo per non essere né sconosciuti, né vulnerabili.