Per comprendere il significato e la portata dell’accordo recente tra le FARC-EP ed il governo colombiano, occorre ricapitolare succintamente i fattori principali che hanno fatto sì che i Dialoghi dell’Avana si mettessero in moto.
In seconda istanza, l’accumulato degli ultimi 15 anni in America Latina, dove diversi processi, alcuni di carattere marcatamente antimperialista ed altri democratico-progressisti, hanno oggettivamente scardinato l’egemonia pressoché assoluta di Washington nel continente, cristallizzandosi in organizzazioni quali l’ALBA, UNASUR e CELAC; processo a cui contribuisce, in questa fase, una maggior presenza, soprattutto economica, di grandi potenze quali Russia e Cina.
In terzo luogo, e conseguentemente a quanto appena detto, la crescente necessità da parte degli USA di combinare bastone e carota in America Latina (esempi lampanti Venezuela e Cuba rispettivamente), anche alla luce della riconfigurazione permanente dei rapporti di forza su scala planetaria che vedono Washington impossibilitato a gestire, incontrastato, diversi teatri operativi o scenari di guerra simultaneamente.
Infine, bisogna considerare che negli ultimi anni il movimento popolare colombiano, uscito con le ossa rotte dalla tenebrosa fase degli anni ’90 e del primo decennio del nuovo secolo, con lo sterminio dell’Unión Patriótica prima e la decimazione dei sindacati e delle organizzazioni sociali poi, si è riarticolato, ricompattato ed è tornato a crescere, dando prova di forza e vigore soprattutto nelle grandi mobilitazioni contadine, indigene e studentesche dell’ultimo lustro. Rilancio delle lotte popolari che si palesa in modo direttamente proporzionale all’aggravarsi della crisi politica, economica e sociale di un regime che, dopo aver cercato inutilmente una autolegittimazione attraverso la guerra totale alla “minaccia narco-terrorista”, ora è costretto a ripulire la propria immagine con una narrazione di “pace”.
Naturalmente, i dialoghi dell’Avana non sono il luogo in cui si può fare la rivoluzione, nessuno lo ha mai affermato e sarebbe folle pensarlo.
Si tratta invece di un tentativo, sui cui esiti definitivi non è ancora lecito pronunciarsi, di entrare in una fase della lotta di classe che veda, mediante il superamento delle principali cause che hanno originato il conflitto armato, la possibilità di fare a meno dell’uso delle armi nell’esercizio della politica (da parte di tutti, tanto della guerriglia come dello Stato).
Non è la prima volta che il conflitto colombiano può entrare in una fase di non belligeranza armata, e se alla lunga il processo dovesse fallire non sarà stata verosimilmente l’ultima.
Sotto questa premessa, in estrema sintesi, le ragioni che rendono strategico il processo di pace sono le seguenti:
1) La stragrande maggioranza del popolo anela la pace e le forze che più si impegnano a costruirla ne avranno un grande riconoscimento; viceversa, se dovesse fallire, coloro che saranno riconosciuti come causa del fallimento non saranno perdonati dal popolo colombiano.
2) Il processo di pace apre spazi di agibilità politica e partecipazione per l’opposizione sociale, che il terrorismo di Stato e il paramilitarismo hanno mantenuto serrati per decenni. Si rafforza quindi il movimento popolare, il cui percorso di rilancio e consolidamento unitari potrebbe entrare in una fase qualitativamente superiore.
3) Il processo di pace ha aperto contraddizioni nel blocco politico oligarchico dominante e nelle forze armate del regime, che si approfondiscono e diversificano man mano che il processo avanza. Le forze della repressione si indeboliscono.
4) Il processo di pace permette di aprire varchi nella coltre di menzogne e propaganda di guerra che è stata minuziosamente e scientificamente stesa per decenni intorno alla natura della resistenza guerrigliera, ai suoi caratteri ed al contesto in cui si è generato e sviluppato il conflitto sociale e armato; facilita la ricerca della verità ed allarga la consapevolezza di essa tanto sul piano nazionale quanto a livello internazionale. Permette inoltre di svelare e riconoscere il fenomeno del paramilitarismo di Stato per quanto concerne la sua origine, i suoi reali propositi, i suoi mandanti e la sua portata.
5) Il processo di pace getta le basi per risolvere la situazione degli oltre 10.000 prigionieri politici, combattenti e non, inclusi coloro che sono detenuti in carceri USA. La guerriglia ha chiarito che non ci può essere la firma di alcun trattato di pace senza la presenza fisica del proprio delegato plenipotenziario Simón Trinidad.
6) I dialoghi dell’Avana hanno messo in moto una dinamica che, anche se indirettamente, mette pressione al governo Santos e moltiplica le voci e i pronunciamenti favorevoli ad una apertura ufficiale di un processo di pace con la guerriglia dell’ELN, con cui i colloqui si sono protratti sino ad ora su un piano esplorativo ed interlocutorio.
7) In questi tre anni di processo, il mondo intero ha potuto vedere, sentire, palpare e cogliere il carattere eminentemente politico di una guerriglia che, soprattutto dopo il 11 settembre 2001 e la rottura dei dialoghi del Caguán (inizio 2002), era stata sottoposta non solo alla più grande offensiva militare controinsorgente della storia contemporanea dell’America Latina, ma anche a una pesantissima campagna di diffamazione, demonizzazione e disinformazione strategica, tesa a dipingerla come “narco-terrorista”.
8) Come sottolineato in tempi non sospetti dall’intellettuale statunitense James Petras, questi dialoghi FARC-governo sono caratterizzati da una differenza sostanziale rispetto ad altri processi di soluzione politica di conflitti, come quelli curdo (con lo Stato turco), basco (con Spagna e Francia), e, a ritroso, quelli centroamericani (Salvador e Guatemala), quello sudafricano e quello irlandese: la presenza ineludibile, nell’agenda comune così come nelle discussioni e trattative, di questioni di ordine strutturale, che afferiscono al modello economico in diversi suoi aspetti. Il concetto è chiaro: se soluzione politica sarà, con tanto di trattato di pace, non si sarà costruito il socialismo ma si saranno gettate nuove ed ulteriori basi per continuare a lottare per esso, con conquiste tangibili sul piano della giustizia sociale.
9) Da quando è iniziato il processo tutte le questioni fondamentali della vita nazionale colombiana, di carattere politico e non, sono passate e continuano a passare per l’Avana. Nonostante i conati di bile dell’uribismo, e i pruriti trionfalistici del governo Santos e delle sue figurine, il fatto che le FARC siano punto di riferimento ineludibile per pensare e realizzare le trasformazioni necessarie al superamento del conflitto, è un dato assodato e riconosciuto da tutti, in Colombia e nel mondo.
10) Tre anni di dialoghi, in cui decine di comandanti e guerriglieri e guerrigliere hanno acquisito ulteriori esperienze non solo sul piano politico e diplomatico, ma anche in altri campi, come quello della comunicazione, rappresentano una scuola formidabile: sono fioriti blogs e nuove pagine web insorgenti, si sono moltiplicate le presenze nei diversi social network, e giovani combattenti hanno potuto formarsi per creare quello che potrebbe essere l’embrione di una futura televisione fariana (Noticiero Insurgente, Mesa Redonda, ecc.). Inoltre, la possibilità di concentrare un numero significativo di membri dello Stato Maggiore Centrale e del Segretariato delle FARC, così come di diversi comandanti di Fronti e Blocchi guerriglieri, in un luogo sicuro e dotato di quelle caratteristiche idonee a sviluppare il lavoro politico, il dibattito teorico e l’interscambio diretto di idee ed esperienze (cosa spesso difficile in Colombia per via dell’intensità della guerra e delle conseguenti misure di sicurezza di necessaria adozione), sta consentendo all’organizzazione guerrigliera di preparare al meglio quella che sarà, in data a noi sconosciuta, la X Conferenza Nazionale (una sorta di Congresso, nonché il momento e l’istanza più importanti in assoluto nelle FARC).
Le precedenti considerazioni possono tornare utili anche a coloro i quali (a dir la verità un’infima minoranza), in Italia come nel mondo, criticano il processo di pace “da sinistra”. Infatti, il non riconoscere l’importanza dei dialoghi significa assumere una visione statica della storia. Osteggiarli massimalisticamente equivale a ritenere che le armi siano un fine e non un mezzo, come se non esistessero – o non potessero esistere per principio – fasi storiche nelle quali il loro impiego non solo non sia necessario, ma addirittura controproducente. Che ci si trovi o meno di fronte a una di queste situazioni non dipende dal fatto, come qualcuno che non menzioneremo ha suggerito, che lo scenario del conflitto sia un paese cosiddetto di “nuova colonizzazione”, ma dipende dal fatto che la “nuova colonizzazione” si è infranta nella sua componente militare e che la Colombia si trova in un continente che ha saputo, al contrario, ridurre la propria dipendenza da Washington. Inoltre, il fatto che si apra o no una fase nuova dipende anche dall’esito più o meno favorevole del processo di pace stesso, e la sua valutazione spetta ai combattenti colombiani, che sicuramente hanno più elementi di quelli che può avere un qualsiasi altro osservatore.
Disconoscere l’importanza strategica della soluzione politica equivale ad assumere una visione non marxista e non leninista della lotta di classe, laddove considerazioni di carattere generale (e spesso astratto) sostituiscono l’analisi concreta della situazione concreta, con tutte le sue specificità e sfaccettature.
Le armi così come sono comparse possono scomparire, se si apre una situazione nuova. In nessun caso si parla di consegna delle stesse. Paragonare il processo di pace dell’Avana a situazioni sgangherate come quella guatemalteca significa non conoscerlo e non sapere da dove viene l’esercito guerrigliero di Manuel Marulanda e dove è deciso ad arrivare.
La ricerca di una soluzione politica è sempre stata una bandiera dell’insorgenza, e non vi sono elementi che possano far pensare ad una rinuncia della guerriglia ai propri obiettivi politici, né tanto meno alla propria ideologia comunista e rivoluzionaria.
A questo punto ci addentriamo più nello specifico dell’accordo raggiunto lo scorso 23 settembre all’Avana, che, come abbiamo premesso, è una tappa (certamente fondamentale) del processo di pace e non può essere separato dal suo insieme.
Perché sono tanto risentiti gli ambienti oligarchici per questo accordo? Perché Santos appariva scuro in volto e preoccupato, mentre i guerriglieri, come riconosciuto persino dalla stampa di regime, erano carismatici e sorridenti?
Qualcuno, a “sinistra”, ha paventato che la stretta di mano tra il Comandante Timoleón Jiménez e Juan Manuel Santos sarebbe favorevole all’imperialismo e sfavorevole alle forze popolari. Si tratta, insistiamo, di una valutazione superficiale e che non tiene conto di una serie di fattori che compongono l’equazione, non ultimo quello dell’ormai innegabile riconoscimento delle FARC come forza belligerante, con tutto ciò che implica e significa.
Concretamente, le ragioni per le quali quello firmato è un accordo molto importante, e che senza dubbio rappresenta un avanzamento rilevante, sono principalmente tre:
1) Ogni funzione investigativa e giudicante relativa al conflitto, che era appannaggio dello Stato, passerà ad essere di esclusiva competenza del nuovo tribunale, conformato da giuristi qualificati e non compromessi in carriere repressive (requisito per essere selezionati), colombiani e internazionali, scelti da un comitato ad hoc nominato a sua volta di comune accordo tra le parti.
Si acclara pertanto che lo Stato non può essere sia parte della guerra che giudice dei fatti che la riguardano. Si riconosce implicitamente che gli organismi inquirenti dello Stato sono parte in causa e hanno svolto una funzione di sostegno, in chiave repressiva, della politica guerrafondaia e antipopolare: risultano pertanto non idonei all’esercizio di una giustizia veritiera.
2) Il tribunale giudicherà fatti specifici, soprattutto riguardanti le violazioni del Diritto Internazionale Umanitario e i crimini di lesa umanità commessi da chiunque, soggetti statali e non, armati e non, compresi ex presidenti. Nessuno è esente dalle indagini: né finanziatori, né promotori, né beneficiari della guerra.
Saranno coperti da amnistia tutti gli atti legati al cosiddetto “delitto politico” (come per esempio la ribellione e ciò che ad essa afferisce), che in nessun modo potranno essere sottoposti a indagine e giudizio.
Viene dunque riaffermato il principio secondo il quale non si processa il diritto universale dei popoli alla ribellione.
3) Le vittime del conflitto ed i loro familiari, che sono milioni, comprese migliaia di esiliati perseguitati dal terrorismo di Stato, avranno con la Giurisdizione per la Pace la possibilità di veder fatta luce sulle circa 2.000 fosse comuni, sui mandanti degli innumerevoli massacri e sui patrocinatori e finanziatori del paramilitarismo; si tratta pertanto di uno strumento poderoso per contrastare la pluridecennale blindatura di regime finalizzata ad assicurare e perpetuare un’impunità pressoché totale. Ma si tratta anche di un meccanismo che contemplerà diverse modalità di risarcimento nei confronti delle vittime stesse e/o delle loro famiglie, e di garanzie affinché il principio della non ripetizione dei crimini sia rispettato da tutti.
Ciò detto, il percorso verso la firma di un Trattato di Pace definitivo non è cosparso di petali di rose e non è privo di ostacoli. Consentiteci di menzionarne alcuni:
Le cosiddette “salvedades”, ossia quei temi – contenuti nei punti dell’Agenda comune – sui quali le parti belligeranti non hanno trovato ancora un consenso. Da qui il fatto che, soprattutto in merito alla questione rurale ed agraria ma anche al punto sulla partecipazione politica, FARC e governo abbiano siglato soltanto accordi parziali. Le “salvedades” andranno tirate fuori dal congelatore ed affrontate in profondità quale passaggio previo ad un accordo finale e generale.
La questione delle armi della guerriglia: il governo e i media straparlano (illudendosi, o comunque mentendo sapendo di mentire) di consegna delle armi, quando invece anche l’Agenda comune sottoscritta dalle parti parla chiaramente di “dejación de armas”, e cioè la cessazione del loro uso in politica; cosa che, come le FARC hanno infinite volte ribadito, dev’essere fatta anche dallo Stato.
Il meccanismo di approvazione popolare di un eventuale Trattato di Pace: il governo colombiano continua a parlare di referendum, magari da spendere in una congiuntura o scadenza elettorale in cui possa autopuntellarsi. Le FARC, invece, hanno da subito proposto un’Assemblea Nazionale Costituente che includa appieno gli esclusi di sempre (movimenti sociali, afrodiscendenti, indigeni, sindacali, ecc.), afferri e sciolga quei nodi eventualmente irrisolti nel processo dell’Avana, e, scrivendo una nuova Costituzione, rifondi il paese sulla base della volontà del Costituente Primario, che è il popolo.
La testardaggine del governo nel continuare ad agire in termini unilateralistici, promuovendo, in sede esecutiva e legislativa, misure e politiche riguardo questioni fondamentali che non solo non sono state affrontate e risolte al Tavolo dei dialoghi dell’Avana, ma che sono in pesante contraddizione con quanto accordato sin qui con le FARC. Testardaggine accompagnata da un’evidente mala fede, palesata anche dopo l’accordo del 23 settembre scorso nella misura in cui i portavoce di Santos hanno dichiarato che sarebbero state necessarie alcune revisioni di questioni che l’accordo stesso precisa e definisce in modo inequivocabile.
La Dottrina della Sicurezza Nazionale e la teoria del “nemico interno”, di matrice USA, che permeano le forze armate e di polizia dello Stato colombiano, e che hanno partorito sin dagli anni ’50 il paramilitarismo come politica contro-insorgente. Senza una netta sterzata, e senza lo smantellamento del paramilitarismo, una pace duratura sarà una chimera.
In conclusione, per le forze popolari e rivoluzionarie colombiane la battaglia per la pace con giustizia sociale è un terreno strategico. Un eventuale spostamento del conflitto dal piano armato a quello politico, non significherebbe in alcun modo l’erosione della lotta di classe, bensì un suo allargamento con la possibilità per le FARC, comunque tutta da costruire, di irrompere politicamente nei grandi nuclei urbani, storicamente più permeabili alla disinformazione dei media oligarchici e meno soggetti agli effetti della guerra. E’ lì, dove oltre il 70% della popolazione colombiana è concentrato, che si giocherà un pezzo decisivo della partita il cui risultato finale, siamo certi, sarà la Nuova Colombia, bolivariana e socialista.