Daina Caballero Trujillo https://lapupilainsomne.wordpress.com
Perché è incompatibili lavorare in un media cubano e collaborare con uno straniero? Ciò significa smettere di essere rivoluzionari?
Queste domande giravano nella mia testa quando ho saputo della lettera scritta da alcuni giornalisti del periodico Vanguardia e indirizzata all’Unione dei Giornalisti di Cuba. Questo non è un tema nuovo e, speriamo sia presto un tema vecchio.
Le mie domande, che possono essere anche quelle di molti, probabilmente hanno migliaia di risposte diverse a seconda di chi siamo, dei nostri obiettivi, professionali, personali … anche a seconda di come intendiamo la realtà che oggi ci circonda, di come siamo coinvolti con essa.
“Come giornalisti scegliamo il diritto di pubblicare nei media digitali o stampa che non rappresentano offesa alla piena dignità dell’uomo e della donna, né rappresentano una minaccia alla sovranità del nostro paese”.
Così inizia la lettera, ma mi soffermo sull’ultima frase, che non rappresentano “una minaccia alla sovranità del nostro paese”. Che i giornalisti cubani scrivano in siti dove non si fa critica ma si discredita questa società, che è anche la loro, vale come una minaccia alla sovranità cubana?
Si dice che il fatto di mettere in discussione quanto sopra già è incongruente, allora è presunta ignoranza, giustificazione, o mancanza di impegno?
Si tratta di un problema etico, che fa appello strettamente alla conseguenza delle nostre azioni e dei principi, ed è anche una questione pratica, il buon senso, non vogliamo sembrare ingenui.
In quale luogo al mondo il media che contratta un giornalista permette che questo venda o regali, come si preferisca capire, il suo talento, la sua conoscenza, la sua capacità, il suo tempo ad altro media? Ripeto, non siamo ingenui, la decisione di rimanere in un posto o in un altro è individuale, ma quella di vietare tale ambivalenza, quella di non accettare il gioco su entrambe le parti, è indiscutibilmente di ciascuno dei media.
In questo modo funziona in tutti i grandi consorzi dell’ informazione e della comunicazione a livello mondiale ed anche nei piccoli media, gli alternativi, anche sui social network. I datori di lavoro regolano i doveri e i diritti dei giornalisti e questi rimangono plasmati nel contratto di lavoro.
L’editrice del quotidiano spagnolo El Pais ha sostenuto, in un’intervista per la televisione spagnola, che nel suo media “non c’è una direttiva di gruppo” di vietare la partecipazione dei suoi giornalisti in altri spazi, ma che il direttore di ogni media “ha autonomia” per prendere le decisioni che ritiene opportune per quanto riguarda la partecipazione dei propri dipendenti in altri giornali o canali TV.
La BBC, d’altro canto, ha anche confermato quanto già aveva anticipato da tempo; i giornalisti che hanno una posizione ufficiale nella casa e anche i collaboratori i cui introiti procedano principalmente dalla BBC non potranno collaborare con altri media. La misura è volta essenzialmente agli articoli con contenuto politico ed esclude solo quelle pubblicazioni relazionate ad argomenti come cucina o al fai da te.
La TV spagnola ha anche annunciato nuove regole per i giornalisti nel social network Twitter. Sotto il marchio di RTVE, non si potranno condividere notizie che non siano estratte dal sito web del canale televisivo, in qualsiasi formato: né testo, né foto, né audio, né video. Anche se sia rilevante dal punto di vista informativo.
Così avviene nel mondo, i nuovi media, o quelli tradizionali, le reti, a cui si può accedere con il nome di una entità mediatica può essere una sfida quando si va a definire la sua presenza, la sua posizione e la sua reputazione. E questo implica tutti i suoi dipendenti. E’ tempo che i media cubani si proteggano realmente in questo senso, poiché è anche un modo per proteggere e rispettare il loro pubblico.
E’ vero che Cuba necessita sempre più un quadro giuridico che disciplini l’attività della stampa e dei giornalisti cubani, in modo che non ci siano tanto obblighi come opportunità solo a parole, in modo che non si abbia luogo a dubbi o mezze verità. Ma non ci nascondiamo dietro a questo perché si tratta di essere etici e coerenti, non di leggi e carte.
Essere giornalista, non importa se giovane o meno giovane, è essere irriverente, innovativo, ambizioso, ma anche essere coerente, impegnato, sincero, etico, un giornalista senza principi è completamente nudo.
L’etica è un requisito trasversale, permanente e universale per qualsiasi supporto stampa. Nel giornalismo l’etica professionale è l’unica garanzia per la credibilità dei giornalisti di fronte ai cittadini.
Non si può voltare le spalle a ciò che accade intorno a noi, anche se non ci piace, è necessario impostare le linee guida, forse, senza dare giudizi o cercare colpevoli e guidati solo dal presupposto che non si può pretendere fedeltà da coloro che non si sentono impegnati; con il fatto di saper nostri solo i fedeli ed impegnati già avremo vinto.
E’ che sono “media stranieri” ma solo parlano di Cuba o hanno sezioni specifiche per Cuba. Non è strano che con tanti problemi nei paesi nostri vicini, dove si può anche morire per fare giornalismo, le emittenti pubbliche di paesi potenti solo aprano questi tipi di progetti per Cuba? Si è più liberi scrivendo in tali media? Si può, in essi, criticare le monarchie costituzionali che li sostengono, le dipendenze coloniali che hanno nei Caraibi e la loro partecipazione, come parte della NATO, in guerre come l’Afghanistan? In un altro che non è di proprietà di governi potenti, ma di un proprietario che ha dichiarato “controproducente” chiedere la libertà per i Cinque, in un mezzo di comunicazione di Miami; si può fare un reportage investigativo sui gravi problemi finanziari che l’agenzia Reuters ha portato alla luce l’anno scorso? O l’unica libertà possibile lì è per insultare quest’isola?
Come ha detto la direttrice del quotidiano messicano La Jornada, per molti il miglior giornale in America Latina, spiegando la sua posizione nei confronti di Cuba: “Altra cosa è la critica, ma indipendente, non quella che detta il potere sia da Washington, Miami o Madrid” ed è questa quella di cui abbiamo bisogno ed in cui credo.
Ética y periodismo ¿ser o no ser?
Por Daina Caballero Trujillo
¿Por qué es incompatible trabajar en un medio cubano y colaborar con uno extranjero? ¿Significa esto dejar de ser revolucionarios?
Estas preguntas rondaban mi cabeza cuando supe de la carta escrita por algunos periodistas del Periódico Vanguardia y dirigida a la Unión de Periodistas de Cuba. Este no es un tema nuevo y ojalá pronto sea un tema viejo.
Mis preguntas, que también pueden ser las de muchos, probablemente tengan miles de respuestas diferentes, dependiendo de quiénes seamos, de nuestros objetivos, profesionales, personales… dependiendo también de cómo entendamos la realidad que hoy nos circunda, de cómo estemos implicados con esta.
“Como periodistas elegimos el derecho a publicar en medios digitales o impresos que no representan ofensas a la dignidad plena del hombre y la mujer, ni significan una amenaza a la soberanía de nuestro país”.
Así comienza la carta, pero me quedo con la última frase, que no representen “una amenaza a la soberanía de nuestro país”. Que los periodistas cubanos escriban en sitios donde no se hace crítica sino se desacredita esta sociedad, que es la suya también, ¿cuenta como amenaza a la soberanía cubana?
Se habla de que el hecho de cuestionarnos lo anterior ya es incongruente, entonces ¿es supuesto desconocimiento, justificación, o falta de compromiso?
Se trata de un problema ético, que apela estrictamente a la consecuencia de nuestros actos y principios, y también es una cuestión práctica, de sentido común, no queramos parecer ingenuos.
¿En qué lugar del mundo el medio que contrata a un periodista permite que este venda o regale, como se prefiera entender, su talento, su conocimiento, su habilidad, su tiempo a otro medio? Repito, no seamos ingenuos, la decisión de permanecer en uno u otro lugar es individual, pero la de prohibir esa ambivalencia, la de no aceptar el juego a dos bandos, es indiscutiblemente de cada uno de los medios.
De esta manera funciona en todos los grandes consorcios de la información y la comunicación a nivel mundial y también en los medios pequeños, los alternativos, incluso en las redes sociales. Los empleadores regulan los deberes y derechos de los periodistas y estos quedan plasmados en el contrato laboral.
La editora del diario español El País, aseguraba en entrevista para la televisión española, que en su medio “no hay una directriz de grupo” de prohibir la participación de sus periodistas en otros espacios, pero que el director de cada medio “tiene autonomía” para tomar las decisiones que estime convenientes con respecto a la participación de sus empleados en otros periódicos o canales de televisión.
La BBC, por otra parte, confirmó también lo que ya había adelantado hace algún tiempo; los periodistas que tengan un puesto oficial en la casa e incluso los colaboradores cuyos ingresos procedan mayoritariamente de la BBC no podrán colaborar con otros medios. La medida va dirigida básicamente a los artículos con contenido político y excluye sólo a aquellas publicaciones relacionadas con temas como cocina o bricolaje.
Televisión Española, también anunciaba nuevas normas para sus periodistas en la red social Twitter. Bajo el sello de RTVE, no se podrán compartir noticias que no sean extraídas de la web de la televisora, en ningún formato: ni textos, ni fotos, ni audio, ni vídeo. Aunque sea informativamente relevante.
Así sucede en el mundo, los nuevos medios, o los tradicionales, las redes, a las que acceder bajo el nombre de una entidad mediática puede suponer un reto a la hora de definir su presencia, su postura y su reputación. Y ello implica a todos sus empleados. Ya es hora de que los medios de prensa cubanos se protejan realmente en este sentido, pues es además una forma de proteger y respetar a sus audiencias.
Es cierto que en Cuba hace falta cada vez más un marco legal que regule la actividad de la prensa y de los periodistas cubanos, para que no queden tanto obligaciones como oportunidades solo en palabras, para que no haya lugar a dudas o verdades a medias. Pero no nos escondamos detrás de esto porque se trata de ser éticos y consecuentes, no de leyes y papeles.
Ser periodista, no importa si joven o no tan joven, es ser irreverente, innovador, ambicioso, pero es también ser consecuente, comprometido, sincero, ético, un periodista sin principios queda totalmente desnudo.
La ética es un requisito transversal, permanente y universal desde cualquier soporte de prensa. En periodismo la deontología profesional es la única garantía para la credibilidad de los periodistas ante los ciudadanos.
No se puede dar la espalda a lo que ocurre a nuestro alrededor, aunque no nos guste, hay que sentar las pautas tal vez, sin hacer juicios ni buscar culpables y guiados solo por la premisa de que no se puede exigir fidelidad a quien no siente compromiso; con el hecho de saber nuestros solo a los fieles y comprometidos ya habremos ganado.
Es que son “medios extranjeros” pero solo hablan de Cuba o tienen secciones específicas para Cuba. ¿No es raro que con tantos problemas en países de nuestro entorno, donde se puede incluso morir por por hacer periodismo, emisoras públicas de países poderosos solo abran este tipo de proyectos para Cuba? ¿Se es más libre escribiendo en esos medios? ¿Se puede en ellos criticar las monarquías constitucionales que los sustentan, las dependencias coloniales que poseen en el Caribe y su participación como parte de la OTAN en guerras como las de Afganistán? ¿En otro que no es propiedad de poderosos gobiernos sino de un dueño que declaró “contraproducente” pedir la libertad de Los Cinco en un medio de comunicación de Miami, se puede hacer un reportaje de investigación sobre los graves probemas financieros que la agencia Reuters le sacó a la luz el pasado año? ¿O la única libertad posible allí es para denostar a esta Isla?
Como ha dicho la directora del diario mexicano La Jornada, para muchos el mejor periódico de América Latina, al explicar su postura hacia Cuba: “Otra cosa es la crítica, pero la independiente, no la que dicta el poder ya sea desde Washington, Miami o Madrid” y es esa esa la que necesitamos y en la que creo.