Molte cose sono successe negli ultimi giorni in Ecuador. Questo nuovo ciclo di crisi e instabilità è caratterizzato dall’applicazione di stato di eccezione, militarizzazione delle piazze, sistematica persecuzione dei media e forte repressione poliziesca delle manifestazioni. Il governo veniva trasferito a Guayaquil, dopo che il traballante presidente Lenín Moreno perdeva il controllo della capitale Quito.
La svolta, come ben si sa, fu l’annuncio di un prestito dal Fondo monetario internazionale (FMI), che sarebbe stato accompagnato da una serie di tagli ai sussidi e diritti sociali della popolazione. Subito dopo l’annuncio, le strade furono riempite dalle proteste nel quadro dello sciopero dei trasporti che metteva alle corde Palazzo Condorelet. Solo la forza bruta rimase per affrontare la situazione. L’Ecuador è un Paese secolarmente esplosivo e instabile, e questa tendenza fu acuita dalle terapie di shock neoliberiste che la nazione subì alla fine del 20° secolo nel contesto del Washington Consensus. Tra il 1997 e il 2007, l’Ecuador ebbe nove presidenti. Nessuno riuscì a completare il mandato a seguito di rivolte sociali, scioperi generali e colpi di Stato. Si noti il caso di Jamil Mahuad, licenziato nel 2000 dopo la dollarizzazione dell’economia ecuadoriana. Durò solo due anni al governo. Un destino simile ebbe Lucio Gutierrez nel 2005 quando fu tolto dal potere dalla cosiddetta “ribellione fuorilegge”. Paradossalmente, Gutierrez prese un cucchiaio della sua stessa medicina: il colonnello fu determinante nella rimozione di Mahuad cinque anni prima. Questa tendenza fu invertita da Rafael Correa, che governò il Paese per 10 anni. È il presidente che detiene la prima magistratura da più tempo dall’inizio del XX secolo, essendo risultato di un patto sociale e politico basato sulla sfida all’attuale ordine neoliberista. In linea di massima, ciò che accade attualmente in Ecuador corrisponde alla fragilità storica del suo sistema politico, ma anche al modo in cui la risposta sociale al neoliberismo fu uno dei principali punti di polarizzazione della società ecuadoriana. Lenin Moreno ha suonato le corde sbagliate, al momento sbagliato.
D’altro canto, Lenín Moreno non ha una base politica autonoma né ha leadership. Il suo arrivo al Palacio de Condorelet è dovuto a Rafael Correa e alla struttura del partito Alianza País. La guerra legale contro i quadri di Correa (il caso più rappresentativo è Jorge Glas) minava il partito e la base che lo sostenne alle elezioni presidenziali. Forse per sopravvalutazione, dato che i suoi principali avversari erano praticamente fuori gioco, Moreno scommise sul pacchetto credendo che qualsiasi reazione sociale non potesse essere capitalizzata dagli attori che aveva difeso. Le massicce proteste in Ecuador hanno dimostrato tale errore di calcolo di Moreno. Un altro aspetto importante è che il quadro del conflitto viene definito dal campo politico della cosiddetta “Rivoluzione cittadina”, portando i settori politici rappresentativi del neoliberismo in posizione secondaria e di scarsa influenza. La posizione del FMI come asse centrale della disputa politica può minare elettoralmente e politicamente gli attori politici che hanno reso l’austerity loro programma statale per l’Ecuador.
Il ruolo delle forze armate nei momenti di instabilità è sempre stato determinante, e non si può dire che corrisponda a una singolarità ecuadoriana. La situazione tende a fare premere all’esercito il pulsante di emergenza e tagliare bruscamente il ciclo delle proteste, senza garantire un ritorno alla stabilità. Il governo di Lenín Moreno è in estrema difficoltà e sembra che la possibilità di sopportare l’epidemia sia nel corpo militare e nella repressione della polizia, purché decida di avanzare in linea al pacchetto. Con Moreno, la presenza militare degli Stati Uniti nel Paese fu riattivata nell’ambito del programma dell’Ufficio di cooperazione alla sicurezza (OCS), al fine di riprendere le operazioni della missione gringa presso la Base Manta. In tal senso, i militari devono decidere se accompagnare Moreno fino alla fine (cogli ovvi costi politici che comporta) o assumere una posizione di pressione istituzionale che sblocchi la crisi politica aprendo uno scenario elettorale. Tuttavia, Moreno è l’uomo degli Stati Uniti per eliminare “correísmo” e garantire la subordinazione militare del Paese, che le forze armate comprendono perfettamente. Ma tale aspetto non può essere compreso senza il fattore giudiziario. In un probabile scenario elettorale, le istanze dello Stato ecuadoriano cooptati dagli Stati Uniti possono prolungare la persecuzione politica a beneficio di un attore equilibrato che non contesta gli impegni con Pentagono e FMI. Una svolta gattopardiana protetta dalle armi.
Con la nave semiaffondata, Lenín Moreno spolverava il manuale spesso usato in questi casi: accusa Nicolás Maduro delle conseguenze negative delle sue azioni. Tranquillo, che i media aziendali sono lì a forgiargli il consenso su Maduro vero responsabile. Per quanto risibile possa sembrare tale falsità, è un chiaro segno che Moreno ha bisogno dell’aiuto degli Stati Uniti, mentre distoglie l’attenzione e cerca di trasformare la propria crisi cercando di indicare il Venezuela come “minaccia alla sicurezza del regione”, in conformità alla risoluzione adottata dall’organo di consultazione TIAR nel quadro della 74a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Moreno è anche l’uomo degli Stati Uniti nell’aggregare l’Ecuador alla campagna di “massima pressione” contro il Venezuela, dopo aver separato il Paese andino dal quadro delle relazioni internazionali dell’asse ALBA-CELAC. Questo è un impegno che non va perso di vista, dato che lo scenario interno ecuadoriano è molto definito.
In Venezuela, ciò che accade in Ecuador rappresenta una sconfitta, per i piani di cambio di regime del deputato Juan Guaidó. L’indebolimento dello Stato venezuelano, sebbene avanzi attraverso sanzioni in ambito economico e finanziario, richiede determinate condizioni internazionali che sostengono spinta e spaccio dei padroni. Gli Stati Uniti hanno giocato con una correlazione favorevole di forze nella regione all’inizio del 2019 per mettere al potere Guaidó, ma col fallimento elettorale del PASO di Macri, la crisi istituzionale in Perù, il cambio di governo a Panama, le proteste ad Haiti, la mancanza di rispetto di Juan Orlando Hernández in Honduras e ora l’Ecuador infiammato dalle proteste di massa, la scena internazionale è a una svolta che non favorisce l’ipotesi di una regione unita e concentrata sul rovesciamento di Maduro. Questo è il motivo per cui Moreno accusa Maduro di rivoltare il Paese e Juan Guaidó l’accompagna. Trasformare il caldo contesto regionale in Venezuela non è solo una risorsa appropriata per i momenti di instabilità, non è solo un’arma elettorale: è un obbligo contratto con la geopolitica degli Stati Uniti. Ancora: il Venezuela è l’asse di gravità che definisce il comportamento della politica estera in America Latina.
L’operazione di cambio di regime implica un accoppiamento di attori e fattori. Pertanto, l’irrilevanza in cui è caduto Guaidó costringe gli Stati Uniti a ricalibrare il focus della pressione verso l’arena internazionale. Sulla base di tale scenario, gli Stati Uniti mobilitavano il TIAR chiedendo ai Paesi dell’America Latina di applicare sanzioni punitive contro il Venezuela, seguendo l’esempio di Washington. Mentre la Casa Bianca muove i suoi pezzi in tal senso, i Paesi partner vanno in un’altra: proteste di massa (Ecuador, Haiti, Honduras), crisi politiche (Perù e sempre Ecuador) e urgenti problemi economici (Argentina) che ne logorano le classi dirigenti. Visto così, è logico che queste crisi vengano trasferite all’auto-nominato gruppo di Lima causandone la stagnazione e la sua perdita di orientamento strategico sul Venezuela, ragione e fondamento della sua creazione nel 2017. Il piano Guaido perde la trazione internazionale proprio quando gli serve di più. Il relativo cambiamento di equilibrio di forze nella regione potrebbe annunciare altre sorprese: il cambio di governo in Argentina, e infine in Ecuador, impedirà la rielezione Luis Almagro a Segretario Generale dell’OSA nel prossimo anno. In tal caso, i falchi, e in particolare il senatore Marco Rubio, perderebbero un braccio istituzionale chiave per indirizzare il piano sull’intervento militare. Aggiungendo a tutto questo si comprende che ciò che si gioca in Ecuador è molto più della sopravvivenza di Lenín Moreno o del ritorno di Correa. Si gioca , in parte, l’equilibrio di potere regionale e la fattibilità del cambio di regime in Venezuela.
Traduzione di Alessandro Lattanzio