La brigata medica cubana che opera in Sierra Leone è riuscita a curare dallo scorso mese di ottobre 260 persone infettate dal virus dell’ebola.
“Siamo riusciti a salvare la vita a 260 persone che erano giunte qui in gravi condizioni e dopo la nostra assistenza sono guarite ed hanno ripreso le loro attività”, ha spiegato in un’intervista data a EFE Jorge Delgado, che è a capo della brigata dei medici e degli infermieri cubani in Sierra Leone, il paese che con la Guinea Conarki e la Liberia soffre la peggiore epidemia di ebola della storia.
“La maggioranza dei pazienti che sono arrivati qui erano malati da cinque o sei giorni e il virus era molto esteso, ma siamo riusciti a combatterlo”, ha detto da Ginevra, dove partecipa ad una conferenza sui gruppi di medici stranieri che hanno lottato contro l’epidemia.
Non tutte erano infettate dall’ebola ma soffrivano per malattie che presentano gli stesi sintomi, come la malaria. Sino ad oggi l’epidemia di ebola in Africa occidentale ha provocato 23.218 casi confermati, probabili e sospetti, e 9.365 decessi.
Delgado si è mostrato ottimista perchè anche se ci sono dei focus attivi nei tre paesi, il ritmo del contagio è chiaramente diminuito.
Delgado ha partecipato a Ginevra una riunione di Squadre Mediche Straniere che hanno combattuto contro l’epidemia.
All’evento hanno partecipato 150 persone che rappresentano 86 organizzazioni di 11 paesi, tra esse i tre capi brigata delle squadre cubane che sono state inviate lo scorso ottobre nei tre paesi più colpiti.
Delgado è responsabile di coordinare il lavoro di 164 sanitari in quattro centri di trattamento in Sierra Leone, tre vicino a Free Town, la capitale, e un altro a circa 120 chilometri.
In questo centro a un centinaio di chilometri dalla capitale, a Port Loko, si trova attualmente Félix Báez , il medico cubano che è stato contagiato dall’ebola e, dopo essere trasportato e guarito nell’Ospedale Universitario di Ginevra, e dopo un periodo di riposo a Cuba, è tornato a combattere contro il virus in Sierra Leone.
L’età media dei sanitari presenti in Sierra Leone è di 47 anni, il che indica che tutti hanno un’esperienza tra 20 e 25 anni.
Nei tre mesi e mezzo che la squadra si trova nel paese, ha curato un migliaio di persone, ma non tutte erano infettate dal virus ebola, ma soffrivano anche di altre malattie con sintomi simili, come la malaria.
“È per questo che non si può fare il calcolo che i 260 pazienti che sono sopravvissuti sono un quarto di quelli trattati”, ha specificato Delgado.
La brigata della Sierra Leone è la più grande delle tre, dato che è stata la prima a insediarsi. In Liberia ci sono 53 sanitari e in Guinea 38.
Rispetto allo stato attuale dell’epidemia, Delgado si mostra ottimista perché, sebbene ci siano ancora focolai attivi nei tre paesi, il ritmo di contagio è chiaramente minore.
“Prima potevamo vedere 20 casi al giorno, e in questi giorni ne vediamo 3, 4, certi giorni nessuno”, ha affermato.
“Una cosa è chiara: sempre più spesso, quando tornano i risultati dal laboratorio, sono più quelli che danno esito negativo che quelli che sono positivi”, ha assicurato il medico che ha spiegato che attualmente le analisi si ottengono entro le 6 – 24 ore.
Riguardo ai focolai di infezione, Delgado ha segnalato “i funerali clandestini” come uno dei più importanti.
“Soprattutto nelle zone rurali, è dove questi funerali clandestini sono più frequenti. C’è un’alta percentuale di popolazione musulmana, tra il 65 e il 70%, credo, con riti e con abitudini molto radicati, e cambiare la cultura è molto difficile”, ha affermato Delgado.
Nel momento della morte è quando il virus non è solo più diffuso nel corpo del malato, ma è quando è più virulento, per questo motivo i cadaveri sono i più infettivi.
Per evitare il contagio, si deve realizzare un funerale degno, ma sicuro, e questo implica che non ci sia contatto diretto con i fluidi che emanano dal corpo, una cosa che contrasta con le radicate abitudini locali di abbracciare, baciare e lavare il defunto.
Nonostante le innumerevoli campagne di sensibilizzazione, parte della popolazione non ha ancora adottato le pratiche di prevenzione del contagio.
“Quando si presentano nuovi casi dei quali ignoriamo la catena di trasmissione, molto spesso facciamo una ricerca, e dieci, quindici giorni prima c’è stato un funerale clandestino”, ha spiegato.
Nonostante quanto è stato affermato, Delgado ha detto che non gli constano casi di aperto rifiuto degli specialisti della salute che lavorano nella prevenzione o nella cura dei malati, come invece succede in Guinea.
Riguardo al fatto se le brigate cubane rimarranno o no nella regione, Delgado ha detto di ignorarlo, dato che quella è una contrattazione tra l’Organizzazione Mondiale della Salute e il Governo cubano alla quale lui non partecipa.
“L’accordo era per sei mesi; ciò che succederà dopo, non lo so. Noi ci dedichiamo a curare gente. Ma ricordatevi che, prima che cominciasse l’epidemia, in Sierra Leone c’erano già 24 medici cubani, come parte della campagna di collaborazione della salute pubblica internazionale”.
Finora, l’epidemia di ebola in Africa occidentale ha causato 23.218 infezioni (confermate, probabili, sospette) e 9.365 decessi.
Il virus è stato scoperto per la prima volta nel 1976 a 100 chilometri dal fiume Ébola che gli ha dato il nome, nella Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire).
Ringraziamenti per la collaborazione contro l’ebola
21.02 – Il primo viceministro primo della Salute Pubblica a Cuba, dottor José Ángel Portal, ha avuto un fruttifero incontro di lavoro con il Direttore Generale Aggiunto dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), Anarfi Asamoa-Baah.
Il rappresentante dell’OMS, ha espresso sentite parole di gratitudine per il lavoro dei medici cubani in Africa, e ha riconosciuto l’immediata risposta del Governo cubano per combattere la diffusione dell’ebola.
Da parte sua, il viceministro cubano del settore, ha sottolineato che più di 50.000 medici cubani collaborano con circa 67 paesi, in scenari di grande urgenza come i disastri naturali, il colera e la più recente epidemia di ebola.
Il Direttore Generale aggiunto dell’OMS e il viceministro cubano, hanno convenuto che i medici cubani non danno quello che hanno in eccesso, ma agiscono in base al principio della condivisione con chi ha più bisogno.