La dittatura dell’algoritmo cerca la mobilitazione del pensiero

Javier Gómez Sánchez ha conversato con Granma a proposito dell’audiovisivo trasmesso di recente  nel programma Mesa Redonda

Quando aveva terminato di girare il documentario /La dittatura dell’algoritmo/, il suo realizzatore, Javier Gómez Sánchez, decano della Facoltà delle Arti dei  Mezzi di Comunicazione Audiovisiva, Famca, non aveva ancora deciso come intitolarlo.

Ascoltando la dottoressa Rosa Miriam Elizalde che citava le parole  del cancelliere Bruno Rodríguez Parrilla–che in un incontro internazionale aveva detto che il mondo sta vivendo sotto una sorta di dittatura dell’algoritmo–, aveva pensato in questo. Aveva cercato il video in YouTube e si era detto: «Questo è il titolo».

Javier Gómez Sánchez ha conversato con Granma a proposito dell’audiovisivo trasmesso di recente nel programma Mesa Redonda

-Com’è nata l’idea di fare «La dittatura dell’algoritmo?».

«L’idea di fare un documentario sulle reti sociali e sul loro funzionamento psicologico e politico nella società cubana, viene dopo un serie di articoli sul tema, scritti in vari anni, sia nei blogs che in diversi media della comunicazione.
Vari amici e colleghi di lavoro nel cinema e la televisione li leggevano e mi davano le loro opinioni, e si dibatteva.
In quel momento il tema delle reti sociali da un punto di vista sociale e politico non si trattava nei media di comunicazione cubani, e tanto meno dall’ideologia.
Si faceva solo decisamente dal tecnologico. Persistevano pregiudizi che mantenevano l’idea che le reti sociali digitali erano qualcosa a cui «non arrivava il popolo», di cui era meglio non parlare o che, se si parlava di queste, politicamente si stava dando importanza a qualcosa a cui non si doveva dare rilevanza.
È mancata un’alfabetizzazione digitale e politica sulle reti, in un paese che vi è entrato di colpo. Allora le reti si erano trasformate nello scenario e nello strumento principale della guerra mediatica con i finanziamenti degli Stati Uniti che tralasciava i media tradizionali come Radio e TV  Martí.
«Ugualmente, s’investigava dal  2016 la costruzione di un nuovo tipo de contro rivoluzione  in Cuba, precisamente piazzata nello spazio digitale, che utilizzava le reti sociali per posizionare una società civile fabbricata con premi, pubblicazioni e sostenuta con mezzi delle stampa  “indipendenti”, con facciate di finanziamento internazionale, borse di studio e crowdfunding.
Tutto questo si dibatteva tra realizzatori audio visivi e Sebastián Miló, che è stato mio compagno di studi  nella Famca, e poi un grande appoggio nel lavoro di postproduzione del documentario, mi ha fatto vedere la necessita di esporre tutto questo in un’opera audiovisiva.
«All’epoca erano stati presentati documentari stranieri come The Social Dilemma e The Great Hack, e sentivamo che era necessario fare un’analisi propria da Cuba sul tema delle reti.
Con questa  idea sorge /La dittatura dell’algoritmo/, realizzato principalmente da giovani diplomati della Famca, del Isdi e del Fcom. È stata armata  una produzione indipendente, che ha ottenuto un appoggio istituzionale».

In che tempo è avvenuta la sua realizzazione?

«La preparazione inizia alla metà del 2020. Le prime interviste le abbiamo registrate il 26 novembre. Casualmente pochi giorni dopo la macchina politica pro Stati Uniti che opera nelle reti sociali tentò un colpo blando, che riuscì anche a confondere persone ben intenzionate. Questo provocò La Tángana del Parco Trillo, mobilitata da giovani rivoluzionari che in risposta a quanto avvenuto spontaneamente hanno fatto circolare la convocazione in gruppi di  Telegram, WhatsApp e in Facebook. Questi fatti obbligarono a un cambio e a prestare attenzione alla guerra mediatica nelle reti sociali.

Con che criterio sono stati scelti i partecipanti?

«Gli intervistati sono stati selezionati partendo dalla conoscenza che hanno del funzionamento delle reti, della guerra mediatica e culturale, in casi per lo studio, in altri per esperienza, in vari per la combinazione dei due. Ogni intervistato, compie una funzione nell’approfondimento del documentario, partendo da ruoli diversi.
L’allora ministro alle Comunicazioni, Jorge Luis Perdomo
Di Lella, ha parlato da un punto di vista umano, lontano dalla freddezza dei tecnicismi. Specialisti come Rosa Miriam Elizalde e Pedro García Espinosa lo hanno fatto da un’analisi comunicazionale e demografica.
García Espinosa è stato la chiave per toccare impronte sensibili nella popolazione cubana come parte del processo dialettico della Rivoluzione, che sono sfruttate politicamente. Abbiamo cercato studenti come Arianna Álvarez e Pedro Jorge Velázquez, perchè era importante avere la visione di giovani che hanno affrontato questo timore d’essere insultati per aver espresso nelle reti la difesa dell’ ideologia della Rivoluzione.
Questa non è una guerra gratuita, è una guerra per terrorizzare persone,  sommergerle nella paura e che non si esprimano, o dicano che la macchina delle reti impone come cool o simpatico, quello che va con la corrente.
Precisamente ci sono state persone che ho cercato di contattare per intervistarle e quando hanno saputo di cosa trattava il documentario, come si dice popolarmente “sono fuggite via”.  Non vanno giudicate, si deve vedere come il terrore, gli insulti, i linciaggi, la fabbricazione di etichette «ufficiali», le hanno poste in un silenzio evasivo su questi temi. Questa esperienza è venuta a confermare, precisamente, quello che espone il documentario.
«È stato prezioso contare con le testimonianze di artisti linciati nele reti per la loro posizione politica, come Arnaldo Rodríguez e Israel Rojas. Ricordo che, al termine dell’intervista di Israel, lo staff del rodaggio era cosi emozionato da applaudire. Intervistati come il bloguero Rodrigo Huaimachi e l’ex agente della Sicurezza di Stato Raúl Capote, ci hanno fatto vedere sino a che punto era reale quello che stavamo riflettendo
Quando abbiamo registrato l’intervista di Capote, lo staff si è impressionato per la sua testimonianza come agente della CIA.
A Karima Oliva, che ha parlato del sequestro e dell’utilizzo delle cause sociali e a Ernesto Estévez Rams, che ha descritto i meccanismi mediatici d’irritazione, due degli articolisti di politica e ideologia più lucidi nella stampa cubana di oggi, si deve gran parte del valore principale del documentario, così  come allo psicologo e accademico Jorge Enrique Torralbas, che ha saputo trasmettere la sua conoscenza con un linguaggio chiaro, facilmente comprensibile dal pubblico, sull’effetto psicologico della manipolazione delle reti.
Credo che non ci sia un’opinione più autorizzata di quella di Yailin Orta, direttrice di Granma, per parlare criticamente dei media di comunicazione, e di come le sue brecce di fronte alle reti sociali sono sfruttate dai media digitali controrivoluzionari.
È stato un privilegio avere la sua intervista, essendo una voce autocritica non da fuori ma da dentro la stessa Rivoluzione.
Ha partecipato anche Iroel Sánchez, che è probabilmente la persona che a Cuba conosce meglio la guerra culturale.

Sono già state fatte valutazioni sull’audiovisivo?

«Quando lo abbiamo terminato, lo abbiamo inviato a diverse persone per conoscere il loro criterio, alcuni di loro intellettuali molto rispettati e non ci ha sorpreso che non solo si sono presi la briga di vederlo, ma  hanno scritto sul documentario.
È stato un onore che figure tanto esigenti come Ignacio Ramonet, Atilio Borón, Jon Illescas, Fernando Buen Abad o Rolando Pérez Betancourt raccomandino di vederlo.

A cosa aspira un lavoro come /La dittatura dell’ algoritmo?

«Il documentario aspira all’utilità sociale, molto più che alla perfezione tecnica che comunque è sempre irraggiungibile.
Non è stato girato come un documentario comodo per la burocrazia e tanto meno per un pensiero ideologicamente burocratizzato.
È un documentario politico militante che cerca la mobilitazione del pensiero, che non sfugge dall’ideologico, ma lo cerca.
L’importante è che quest’opera sia utile, che le persone la vedano con i loro amici, la loro famiglia, e riflettano insieme.
Non solo è un documentario per difendere le idee nelle quali crediamo, ma per cercare d’intendere meglio il momento storico in cui viviamo».

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