Modello Venezuela
Il Venezuela rappresenta assieme all'Iran e alla Federazione Russa, la variabile imprevista che ha mandato gambe all'aria il progetto di creare un monopolio mondiale delle risorse energetiche,
come fase preliminare per
ipotecare la crescita dei blocchi economici concorrenti degli USA.
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16 novembre '05
La libertà di manovra di Caracas e di Teheran,
conservata finora contro venti e maree destabilizzanti di ogni tipo, si è
rafforzata ulteriormente dopo la ripresa del controllo del gigante energetico
Yukos, che lo Stato russo ha strappato ai prestanomi locali dei Rotschild.
Dopo il duplice fallimento del colpo di Stato contro il governo legittimo e lo
scacco del sabotaggio all'industria petrolifera venezuelana, consumati tra
l'aprile e il dicembre del 2002, all'oligarchia del petrolio e dei fabbricanti
di armamenti, che ha in mano il governo degli USA, non rimase altra scelta che
l'azzardo di forzare i tempi ed invadere l'Iraq.
Senza poter contare, però, sulla garanzia dei rubinetti aperti delle ingenti
riserve venezuelane a inflazionare il mercato, fino all'agognata implosione
dell'OPEC.
La novità è che, per la prima volta, in quella che usavano definire “stazione di
servizio a sud di Miami”, non c'era più un governo vassallo, capace di dire
sempre e solo “yes”. L'insuccesso per stabilire rapidamente un dominio reale
-cioè ricavi più alti delle spese- sul Santo Gral del petrolio iracheno, ha
fatto schizzare in alto il costo del petrolio e del gas.
A Mosca, Teheran e Caracas ringraziano commossi i neocons: aumenta il gettito di
flussi monetari pregiati che mette in condizioni di sfuggire alle forche caudine
del FMI, quindi di poter disegnare politiche economiche endogene.
L'aumentata sovranità si concretizza con la diversificazione dei mercati e lo
svincolo dalle multinazionali. Gli idrocarburi ricominciano ad essere venduti da
Stato a Stato, senza l'unidirezionalità con le multinazionali e la Borsa di
Londra e New York.
Gli iraniani aprono strategicamente alla Cina e all'India, il Venezuela al
Brasile, all'Argentina e all'area sudamericana.
I falchi di Washington reagiscono satanizzando e mettendo in moto la grancassa
del loro monopolio mediatico e -tra un anatema e l'altro- cercano di fuorviare
gli europei, coinvolgendoli in iniziative di intromissione e destabilizzazione
rivolte contro le loro fonti dirette di rifornimento energetico, che sono
-altresì- importanti mercati per le euro-esportazioni.
Una volta è il deficit di democrazia, un'altra sarebbero le armi nucleari,
chimiche o di distruzione di massa (o viceversa), fatto sta che gli USA non
molestano mai i loro fornitori dell'Arabia saudita né gli Emirati Arabi Uniti.
Tanto meno Israele o il Pakistan, entrambi membri del “club atomico”, però
fedelissimi alleati.
Se la democrazia nasce dalla canna del fucile -Bush dixit- la novità è che
fucili e fucilieri ce li devono mettere loro.
Record scomodi
Che cosa si nasconde dietro la spessa cortina fumogena innalzata dalla guerra
psicologica di alta intensità?
Il Venezuela ha aumentato le sue riserve monetarie al massimo storico e,
nonostante il puntuale pagamento del debito estero, l'economia è cresciuta del
7%. Il bilancio del 2006 destina il 41% degli investimenti alla spesa sociale,
soprattutto all'istruzione, salute, pensioni e edilizia popolare.
Attualmente si sta costruendo una linea ferroviaria, tre metropolitane in tre
città, due megaponti sul Rio Orinoco per snellire le comunicazioni con il
Brasile, una fabbrica di trattori e un polo chimico di derivati petroliferi.
L'Unesco ha riconosciuto che è un territorio libero dall'analfabetismo; in meno
di due anni, 1 milione e mezzo di persone sono state alfabetizzate, altrettante
partecipano a programmi straordinari di formazione culturale e professionale,
ricevendo anche borse di studio.
La creazione di una rete di assistenza primaria, ha significato presenza medica
nelle zone popolari urbane e nella vasta provincia. Per la prima volta, milioni
di persone hanno medicine e attenzione medica gratuita.
A questi ambulatori, stanno ora abbinando microcliniche decentrate, con servizio
di radiologia, analisi, ecografia ecc.
Lasciano il tempo che trovano, pertanto, i censori domestici e stranieri che
arricciano il naso e, con espressione schifata, puntano il dito contro il
“populismo”. Passi per le vecchie elites locali parzialmente spodestate, ma che
pensare di certi moralisti della sponda sinistra del neoliberismo europeo?
Salute, studio e previdenza sociale sono sempre stati capisaldi dei movimenti
trasformatori, dalla Prima Internazionale in poi, e dalla dottrina sociale della
Chiesa la proprietà deve subordinarsi al bene comune.
E' raccapricciante constatare come questi campioni dell'eufemismo -che hanno
cancellato dal vocabolario le parole popolo, sovranità, contadini,
discriminazione, imperialismo- si ritrovino a difendere gli interessi di una
oligarchia pre-capitalista, impregnata di valori feudali.
Difendono -udite,udite!- il “diritto alla proprietà” di gente che possiede dai
50000 ettari in su, rigorosamente improduttivi, sterili, non coltivati.
Il Venezuela è l'unico paese latinoamericano in cui i latifondisti lasciano
oziosi tutti i loro possedimenti, senza neppure destinarli a pascolo, con il
risultato di dover importare il 70% del fabbisogno alimentare.
Persino il mais, i fagioli e lo zucchero erano importati, con grave pregiudizio
della bilancia commerciale.
Gli “imprenditori” agricoli di un paese popolato prevalentemente lungo la fascia
costiera, sono incapaci di usare il resto di un territorio ricco di fonti
idriche e fiumi -di cui esibiscono dubbi titoli di proprietà- per fornire di
cereali, legumi, ortaggi, frutta, latte, carne e derivati, a 30 milioni di
consumatori.
Negli altri paesi latinoamericani è difficile fare la riforma agraria e il
cambio della struttura della proprietà terriera perchè -tra le altre cose- i
latifondisti sfruttano tutte le terre disponibili e sono esportatori agropecuari.
Il Brasile dalle grandi masse rurali prive di terra e senza lavoro, perlomeno è
un gigante dell'agroesportazione.
La “Legge della terra” vigente in Venezuela si applica sui latifondi
improduttivi o su quelli illegalmente posseduti, e dopo un processo legale,
assegna la terra alle coperative contadine, che ricevono anche assitenza tecnica
e finanziamento.
I pimi risultati positivi non mancano: ora non si importa più il riso.
La sovranità alimentare è un obiettivo strategico, perchè tratta di incrinare la
struttura neocoloniale di un'economia sbilanciata, totalmente dipendente, basata
sulla monoesportazione di materie prime agli USA, e sull'importazione di tutto
il mancante, prevalentemente dagli Stati Uniti.
Economia
multipolare
Praticamente una economia di enclave, dove i petrodollari destinati alla
“stazione di benzina a sud di Miami” erano come un assegno girato a se stessi:
restavano negli USA, come pagamento delle importazioni venezuelane. Che senso ha
spendere valuta pregiata per pagare l'importazione di fagioli?
In quella Venezuela “saudita”, il grado di subordinazione acritica era spinto
fino al masochismo di riforme della scuola che abolirono gli istituti tecnici,
la formazione professionale pre-universitaria, e persino la storia come materia
di studio.
Nell'enclave petrolifera in preda all'ebrezza del miraggio modernista,
governanti scellerati dicevano pubblicamente che era un delitto non indebitarsi
con l'FMI, e fecero di tutto per recidere le radici identitarie e inoculare la
de-nazionalizzazione culturale.
Depotenziarono il sapere tecnico primario, indispensabile per chi voglia evitare
l'usa-e-getta che condanna all'eterna dipendenza dalle importazioni, finanche
dei manufatti più semplici.
La politica bolivariana è nemica dei monopoli multinazionali e nazionali, e
promuove una economia dove esista sempre una molteplicità nella offerta.
Di fronte alla scomparsa della compagnia di bandiera liquidata come un
ferrovecchio, poi assorbita dall'Iberia a prezzi di saldo, il governo ha
finanziato la creazione di una nuova impresa nazionale, ora attiva nelle rotte
interne e verso il nord del Brasile.
Allo stesso modo, ha evitato il trasferimento ad una multinazionale dell'unica
fabbrica di carta esistente. Richiamarono le maestranze licenziate dalla vecchia
proprietà fallita, e riavviarono il ciclo produttivo sotto la figura della
cogestione.
La sovranità è una visione che punta a diminuire la dipendenza dall'esterno,
limitando la vulnerabilità, soprattutto nei settori vitali come l'energia,
comunicazione, alimentazione e informazione.
Quella venezuelana è un'economia mista, in cui la reddita petrolifera fa dello
Stato il primo attore economico nazionale, grazie a PDVSA che è tra le maggiorni
multinazionali pubbliche. La lotta accanita contro la sua privatizzazione è
stata la culla della rivoluzione bolivariana. ll passo successivo:mettere il
petrolio al servizio dello sviluppo nazionale e di una maggiore equità sociale.
Ciò non ha impedito che lo sfruttamento dei nuovi giacimenti gasiferi lungo
l'asse dell'Orinoco e nella sua foce -dove sono necessari investimenti
considerevoli- siano stati assegnati a multinazionali che hanno accettato la
partecipazione paritaria di PDVSA.
Nel passato sarebbero andati nelle mani esclusive delle multinazionali
anglosassoni, ora partecipano compagnie della Norvegia, Brasile, Spagna, Russia,
Cina e Francia.
Nello schema di una economia mista, senza monopoli, il governo finanzia la
formazione di reti di coperative, raccolte attorno a poli di sviluppo endogeno
che possano far fronte a una domanda che attualmente è soddisfatta solo da
importazioni, molte volte prescindibili. Persino dei derivati del petrolio.
Per uno sviluppo più armonico e con basi solide, è necessario congelare
l'emigrazione verso la capitale, e creare le condizioni preliminari per nuovi
insediamenti nell'interno del paese, cioè nei due terzi vergini del territorio.
Allo sviluppo indogeno - cioè crescita rivolta all'interno - il governo ha
destinato ragguardevoli risorse; il primo livello è la formazione professionale,
seguito dalla conformazione di cooperative e piccole imprese.
La struttura dell'economia mista non chiude le porte nemmeno agli industriali
mediani, e ricevono finanziamenti quelli che riforniscono prioritariamente il
mercato interno.
L'intervento antimonopolista del governo è stato decisivo per smantellare le
mafie che controllavano le linee di rifornimento alimentare alle città,
soprattutto quando si unirono al sabotaggio petrolifero del 2002.
D'un colpo fu evidente la vulnerabilità dei consumatori urbani, alla mercè di
chi non si faceva scrupoli di creare artificialmente penuria di beni pur di
difendere privilegi di casta, o in nome del profitto illimitato.
Si rispose con l'apertura dei “Mercal” che sono riforniti direttamente dalle
cooperative e privati.
Oggi è una rete di distribuzione disseminata nel territorio, dove i venezuelani
trovano a prezzi inferiori del 30% i prodotti alimentari fondamentali. Sono
esenti da IVA e, nella fase iniziale, l'esercito trasportava le derrate dalle
campagne, però l'obiettivo di eliminare gli intermediari tra produttori e
consumatori è stato raggiunto.
“Populismo” gridano i soliti noti dagli schermi, scandalizzati per le
sovvenzioni statali al consumo, ma le maggioranze sono soddisfatte perchè “a
qualcosa deve pur servire il petrolio”.
La struttura di un'economia neocoloniale di enclave è completato dall'èlite che
pur essendo destinataria esclusiva della rendita petrolifera, non seppe o non
volle generare produzione e sviluppo.
Piuttosto che intraprendere, rischiare, preferivano riempire containers di merci
ed importarle esentasse. Poco imprenditori, sempre commercianti, non arrivarono
mai ad essere una borghesia capace di generare imprese solide, perfettamente
possibili considerando l'importante mercato interno su cui poteva contare come
base di partenza.
Questo settore -il partito imperiale- che è autoritario per vocazione e invoca
l'invasione redentrice che venga a salvarlo, conserva protagonismo e rilevanza
economica. Certamente ridotta, ma non certo azzerata.
E' sotto controllo, però, la sua potenzialità più distruttiva: non può più usare
l'arma della fuga dei capitali. Il controllo dei cambi regola la compravendita
delle divise straniere. Le importazioni, per ricevere le divise necessarie,
devono essere autorizzate; e le esportazioni devono generare il rispettivo
ritorno di divise al paese. In sostanza, la ricchezza si deve usare laddove essa
è stata generata.
La sfida che ha davanti a sé la rivoluzione bolivariana sta nella capacità di
generare i nuovi soggetti capaci di gettare le basi di un'economia meno
dipendente, più solida e incentrata su se stessa, inserita in un blocco geo
economico.
Il punto di svolta decisivo, si ebbe quando i volontari civili e i
soldati,seppero rimettere in moto l'industria petrolifera paralizzata e riaprire
i porti. Nonostante il sistema di controllo informatizzato fosse stato
“privatizzazto” a una impresa statunitense, il cui consiglio di amministrazione
è formato da ex generali del Pentagono.
Grande fu lo sgomento della tecnocrazia, convinta che nessuno al di fuori di
loro era capace di far funzionare l'industria petrolifera. Dovettero
rassegnarsi: oltre a questa, sapevano anche dirigere l'intero paese.
Il cammino percorso finora ha sedimentato un nuovo blocco sociale egemonico, si
tratta di un utensile indispensabile per non esser più - o soltanto -
esportatori di materie prime. C'è da acquisire perlomeno la capacità di
trasformarle.
Sono oggi presenti, tra le altre cose, anche due fattori irrinunciabili, che
sono le constanti di qualsiasi evoluzione positiva in ogni latitudine e temperie
sociale: l'innalzamento generale del livello di formazione e l'abbassamento
dell'indice di natalità femminile.
Le donne venezuelane sono passate da una media di 5 figli a 3, questo permette
immediatamente di avere più possibilità di formarsi per altre funzioni, che
conferiscono nuovi ruoli e protagonismo sociale.
Visione
macroeconomica
Il petrolio ha segnato nel passato e continuerà a segnare nel futuro -nel bene e
nel male- l'identità e il destino della nazione venezuelana. La ristabilita
sovranità su questa risorsa, e la comprensione della sua accresciuta importanza
strategica, ne fanno la leva principale per una profonda trasformazione interna.
Sbaglia chi sottovaluta la portata della sterzata multipolarista intrapresa a
Caracas e la risoluta scelta di campo a favore del blocco sudamericano.
Allo stesso modo la Corona spagnola sottovalutò la minoranza illuminata che si
riunì attorno al genio geopolitico e alle ricchezze che Bolivar pose al servizio
dell'indipendenza.
Non si limitarono a scacciare i colonialisti dalla secondaria e poco popolata
Capitanía General de Venezuela. La loro azione sconfinò oltre le Ande e si
irradiò fino al Perù, segnando il tramonto di un impero su cui il sole cominciò
finalmente a tramontare.
La risoluzione dell'ultimo vertice continentale firmata a
Mar del Plata
è un documento storico rivelatore. Per la prima volta appare, nero su bianco,
che nelle Americhe ci sono due poli e due orientazioni contrapposte. Quello
dell'oltranzismo neoliberista capitanato dagli USA e quello del Mercosur più il
Venezuela. Il blocco del nord e quello del sud.
Gli ingenui che cercano di nascondere il fallimento dell'ALCA sbandierando la
formula dei “28 paesi contro 5”, fingono di ignorare che il Mercosur (Brasile,
Argentina, Uruguay, Paraguay, Venezuela a cui presto si aggiungerà anche la
Bolivia) è artefice del 39% della produzione latinoamericana, per un valore di
710 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti, Canada +26, a ben guardare,
contrappongono un PIL pari al 61%.
E' una fetta della torta troppo grande per procedere unilatelmente, altrimenti
non si spiega che cosa impedisca ai 28 di varare senza indugi l'ALCA e ignorare
olimpicamente le riluttanze dei “cinque paeselli” indisciplinati.
Una cosa è la matematica diplomatica, ben altra è quella dell'economia,
demografia, biodiversità, riserve energetiche, idriche e naturali che stanno a
indicare che il blocco sudamericano ha basi molto concrete.
Pertanto tutto è stato rinviato alla prossima assise di dicembre
dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, dove si riprenderà il discorso
interrotto bruscamente a Cancun: le sovvenzioni del mondo industrializato alle
loro agricolture.
Per dirla tutta, il discorso è chiuso fino a quando Washington rinuncerà al
protezionismo agricolo. Non è cosa per dopodomani, visto che gli USA
tergiversano e sostengono che è l'Unione Europea a dover fare il primo passo.
Tutto questo, inoltre, va inquadrato nello scenario della recessione alle porte
e della crisi del dollaro, che diminuirà la capacità di consumo degli USA. Un
mercato ormai saturo di debiti e sempre più insolvente, che dovrà
inevitabilmente ridurre le importazioni, soprattutto dalla Cina e da
Latinoamerica.
Tito Pulsinelli
www.selvas.org