E io scelgo la democrazia di
Chavez
di Gianni Vattimo
Di ritorno dal Venezuela: un sistema imperfetto come quelli europei e
nordamericani, ma qui almeno c’è lo sforzo di costruire una società più giusta.
Rimbambimento senile ormai neanche tanto anticipato? Oppure desiderio di
rimanere, pateticamente e a tutti i costi, «giovane con i giovani», come dice
qualcuno degli amici che si impegnano a «salvarmi da me stesso»? Insomma, il
fatto è che ho partecipato alla «Prima settimana internazionale di filosofia del
Venezuela» svoltasi a Caracas sotto gli auspici del Ministero della Cultura
venezuelano, ossia del governo Chavez. Non solo: ho partecipato a una
trasmissione televisiva, Alò Presidente, nella quale Hugo Chavez, che ha parlato
e dialogato con il pubblico per sei ore e mezzo, come fa ogni domenica, mi ha
ascoltato e risposto per alcuni minuti, mi ha stretto la mano e anche, a fine
trasmissione, abbracciato come un amico.
Non so se - si licet - quando Sartre e Simone de Beauvoir andavano in Cina, per
poi tornarne entusiasti, incontravano in questo modo il presidente Mao. Il mio
entusiasmo per Chavez si può descrivere in modesta analogia con il loro caso. La
De Beauvoir tornava a Parigi annunciando che finalmente le donne cinesi erano
libere e riconosciute nei loro diritti, Sartre si dedicava alla diffusione
militante di La cause du peuple. Del resto, io e vari miei amici «maoisti», e «basagliani»
e foucaultiani dell'epoca, progettavamo, più o meno realisticamente (soyez
réalistes, demandez l'impossible) un viaggio in Cina per verificare che là non
esistevano pazzi e manicomi: in una società davvero socialista e libera dai tabù
della famiglia (la «fabbrica della follia» come la chiamavano Laing e Cooper),
la follia non doveva più esistere. Dunque, mi conosco ormai bene, so che mi
entusiasmo facilmente e potrei prendere un (altro) abbaglio. Ma ho già elaborato
anche una risposta a questa obiezione.
Le scelte politiche, anche le più moderate e «riformiste», non sono mai
completamente aliene da un qualche presupposto mitico, che costituisce
l'elemento utopico di ogni progetto di società. Non solo: soprattutto le scelte
«rivoluzionarie» o semplicemente innovative appaiono necessariamente meno
«ragionevoli» nel senso della razionalità formale weberiana, che razionalità
formale weberiana, che conta su uno sfondo di «pregiudizi» o di miti già
stabiliti e che dunque si presenta con una fisionomia più logica. Io sono
arrivato a Caracas con una conoscenza superficiale del progetto di «rivoluzione
bolivariana» di Chavez, e anche con un certo grado di diffidenza: si tratta pur
sempre di un militare, un caudillo ispano-americano tradizionale, amico di
Castro (il persecutore dei gay cubani!), che si mantiene al potere spendendo i
suoi petrodollari in iniziative demagogiche che gli assicurano, anzi acquistano,
il favore delle masse. D'accordo. Ma se la scelta è tra la democrazia,
imperfetta, europea e nordamericana, ormai soffocata dal peso del denaro che
domina le campagne elettorali, e la democrazia imperfetta di Chavez e di Castro
(anche di quest'ultimo, le cui violazioni dei diritti umani sono largamente
spiegabili con la povertà della sua isola e gli effetti del blocco economico che
subisce da vent'anni), scelgo quest'ultima, in nome della solidarietà con i più
deboli e dello sforzo, che vedo qui all'opera, di costruire una società più
giusta, anche, se spesso non più ricca.
I venezuelani che hanno sostenuto Chavez nell'ultimo referendum (si trattava di decidere se dovesse dimettersi, come prevede la loro costituzione a certe condizioni) erano certamente i più poveri, non la classe medio-alta che ha tentato in tutti modi di liberarsi di lui. Sono i poveri dei barrios dove operano i ventimila medici cubani inviati da Castro in cambio di petrolio, e gli altrettanti maestri elementari che conducono, con buoni risultati, una capillare campagna di alfabetizzazione di cui giustamente Chavez è orgoglioso. Si aggiunga che, nonostante la pressione dell'opposizione, Chavez non ha finora mai difeso il suo potere con metodi violenti o anche solo polizieschi, e che la sua rivoluzione è rispettosissima dei diritti civili che tanti dittatori sudamericani amici dell'Occidente hanno sempre violato impunemente. Chi va nelle librerie o nei chioschi trova soprattutto testi e riviste sfavorevoli a Chavez, che circolano liberamente e che sono di sicuro preferiti dalla agguerrita opposizione.
Chavez parla a ragion veduta non di rivoluzione democratica, ma di democrazia
rivoluzionaria: non si limita a voler instaurare la democrazia «formale» che
Bush impone con i bombardamenti all'Iraq, pensa anche a creare le condizioni che
rendano tutti i venezuelani capaci di utilizzare lo strumento della libertà di
opinione, stampa, di voto. So bene che questa distinzione tra democrazia formale
e democrazia sostanziale è andata fuori uso nel nostro linguaggio politico:
troppo pericolosamente disattenta alle libertà individuali, troppo «comunista» e
tollerante nei confronti della «dittatura del proletariato» che diventa poi una
definitiva dittatura sulla società intera, proletari e non.
Molto bene: ma non dovremmo allora cancellare dalla nostra mitologia fondativa
la Rivoluzione francese o quella americana (non parliamo di quella sovietica)?
L'una e l'altra non si limitarono certo a «eleggere» (e con quali regole, poi?)
un'assemblea costituente, si conquistarono anzitutto il potere di fondare nuove
istituzioni, legittimandosi a posteriori con la ragionevolezza delle loro leggi
e delle loro strutture «formali».
Come abbiamo potuto pensare davanti allo spettacolo delle spietate dittature
latinoamericane, che il progresso democratico dell'America Latina potesse
realizzarsi solo applicando le regole delle nostre (vecchie e asfittiche)
democrazie? Altro che il mio cieco entusiasmo di fronte a Chavez; questa era una
cecità molto più grave e certo non sempre ingenua.
La radicalità della rivoluzione bolivariana di Chavez, in ogni caso, non prevede
una presa violenta del potere, che del resto possiede legittimamente; anzi
finora ha respinto le iniziative della controrivoluzione con il solo strumento
elettorale e del consenso popolare. È molto probabile che, con l'integrazione
«globale» in cui viviamo oggi, neanche la Rivoluzione francese sarebbe più
possibile: Luigi XVI e Maria Antonietta riceverebbero certamente l'aiuto dei
paesi fratelli (Budapest e Praga insegnano!). Ma è proprio sull'integrazione
che, se capisco bene, Chavez, conta. Forse gli Stati Uniti potrebbero invadere
il Venezuela, se si spingesse troppo avanti sulla via di un qualche castrismo.
Non potranno però fare molto di fronte a un'America Latina - anzitutto
Venezuela, la povera Cuba, Brasile, Colombia, Argentina, Uruguay, Cile quando si
unissero per passare finalmente dalla loro democrazia formale a quella
sostanziale, cioè alla realizzazione del progetto «fame zero» di Lula, che
difficilmente potrà giungere a buon fine senza toccare le strutture
capitalistiche e neocoloniali di quelle società. Su questo punto decisivo,
Chavez ha oggi molto da insegnare anche a noi europei.
su La Stampa del 25/07/2005