Evo, prima hermano

e poi presidente


Bolivia Il paese che dopo 500 anni di apartheid si muove
Intervista al presidente boliviano Morales che parla dei suoi primi cinque mesi di governo. Ricordando di quando suonava nella banda «Imperial» e dirigeva le lotte dei cocaleros del Chapare Non mi convince quel «señor presidente». A volte non mi sento ancora presidente. Preferisco che mi chiamino «Evo» o «hermano presidente» o «compañero presidente». Dà più fiducia Non sono le visite o le parole di Chávez o di Fidel a incidere. L'ambasciata e l'amministrazione Usa hanno già definito la loro linea: provocare.

 


La Paz 28 giugno 2006 Pablo Stefanoni

 

 

L'elicottero della Fuerza Aérea Boliviana si leva in volo ed entro pochi minuti si può vedere l'infinita e arida estensione dell'altipiano. Il viaggio è verso la comunità di Pampa Aullagas, l' «Atlántide perdido» - secondo il cartografo inglese Jim Allen, la città di Atlante si trovava sull'altipiano di Oruro - e la sede di una fiera regionale di lama e quinoa. L'ora di viaggio serve al presidente Evo Morales per trovare il tempo di parlare dei suoi primi 5 mesi di governo e della sua prossima visita a Buenos Aires, fissata per oggi, dove dividerà il palco con il presidente Néstor Kirchner e, dopo le turbolenze seguite alla nazionalizzazione degli idrocarburi annunciata il primo maggio, firmerà l'accordo che porta il prezzo del gas boliviano venduto all'Argentina da 3.40 a 5 dollari per milione di Btu (l'unità di misura del gas). Kirchner è «un buon patriota latino-americano», dice
Poco prima di arrivare a destinazione Evo Morales scorge un paesaggio che lo riporta alla sua prima gioventù. «In quel pueblito mi sono guadagnato 100 dollari suonando con la banda Imperial», ricorda visibilmente emozionato. Pochi minuti dopo l'elicottero sorvola la sua antica casa di mattoni a Orinoca. «Ogni volta che ci torno i miei familiari e amici mi fanno piangere», confessa. In mezzo a questi ricordi, Morales tocca i tempi più caldi della sua gestione.


Qual è il suo bilancio dopo i primi 5 mesi da presidente?
In 5 mesi ci siamo consolidati come governo rispondendo alle domande sociali e, allo stesso tempo, affrontando i temi strutturali. Abbiamo aumentato i salari e abbiamo ridotto la flessibilità del lavoro, abbiamo lanciato programmi di alfabetizzazione e piani per la salute diretti ai settori più poveri, come la Operación Milagro grazie anche all'appoggio cubano. Tutto questo accompagnato da una forte politica di austerità e di lotta contro la corruzione nel settore pubblico. In campo strutturale abbiamo nazionalizzato gli idrocarburi e avviato la riforma agraria, abbiamo approvato la legge per l'Assemblea costituente, che a partire dal giorno del voto, il prossimo 2 luglio, sarà l'ambito legale per rifondare la Bolivia. In questi 5 mesi ci siamo attenuti alla parola d'ordine di comandare obbedendo e oggi constatiamo di raccogliere un enorme appoggio del popolo boliviano (81% per Evo Morales e 80% per il vicepresidente lvaro García Linera).


Lei continua a ripetere di sentirsi più a suo agio nel farsi chiamare «compañero presidente» o «hermano presidente». Cosa distingue oggi il presidente dal leader sindacale?
Io mi sento più dirigente sindacale che presidente della repubblica. Ci sono volte in cui ancora non mi sento presidente. Preferisco che mi chiamino Evo o compañero Evo, perché questo dà più fiducia. Prima il mio personale di sicurezza si rivolgeva a me come «señor presidente», adesso mi chiamano solo «presidente» o «presi». Mangiamo alla stessa tavola e questo ha prodotto un senso di vicinanza con la gente della polizia e delle forze armate. Non mi convince quel «señor presidente», mi sto abituando e mi piace «hermano presidente» o «compañero presidente». E' l'espressione dell'affetto dei compañeros.


Perché continua a essere anche il presidente delle 6 federazioni cocaleras del Chapare?
E' stata la volontà unanime delle 6 federazioni, ma è anche una garanzia per loro, che sono la mia grande famiglia. Nell'attività sindacale campesina ho realizzato il mio apprendistato politico, abbiamo camminato insieme, insieme abbiamo subito la repressione, abbiamo pianto i nostri morti nel Chapare e insieme abbiamo anche ballato e festeggiato le nostre vittorie. Qualcosa che non si può dimenticare. E' per questa fratellanza che ho accettato di continuare a essere il loro leader.


L'opposizione dice che la Bolivia ha scambiato di dipendenza: da quella degli Stati uniti a quella del Venezuela...
Non c'è nessuna dipendenza dal Venezuela e neanche da Cuba. Questi due paesi fratelli hanno manifestato una solidarietà senza condizioni rispetto all'integrazione latino-americana. E noi siamo grati per il loro aiuto. Cuba ad esempio ci sta aiutando nel campo dell'alfabetizzazione insieme con paesi come l'Olanda, la Danimarca, la Svezia e il Canada. L'Italia e la Spagna sostengono i progetti di strade e irrigazione. L' Argentina ci ha aiutato con medicinali e alimenti dopo i disastri naturali. Perché mai Podemos (Poder Democrático Social, il partito neo-liberista e filo-Usa di Jorge Tutu Quiroga, sconfitto nelle elezioni di dicembre) ha tanta paura di Hugo Chávez? Sarà perché dal momento che Chávez è ai ferri corti con gli Stati uniti, anche i vassalli dell'impero e di Bush, come Quiroga, devono per forza incrociare i ferri con Chávez? In realtà non c'è alcuna interferenza, c'è cooperazione solidale grazie agli investimenti venezuelani nel processo di industrializzazione del nostro gas.


I sindacati dei medici boliviani protestano per la presenza di medici cubani in Bolivia. Qual è la risposta del suo governo?
Ci sono alcuni medici che gridano «fuori i cubani», ma quei medici non hanno alcuna considerazione per la maggioranza della popolazione boliviana, i poveri, i campesinos, gli indigeni che per la prima volta usufruisono dell'attenzione sanitaria gratuita. I centri oculistici messi in piedi grazie alla cooperazione cubana offrono tecnologia di punta, contano con fior di specialisti. I medici boliviani molte volte trattano gli indigeni come fossero porci, mentre i cubani dimostrano amicizia e affetto.


Di recente ha accusato i Monasterios, una delle grandi famiglie boliviane, proprietaria di terre e catene radio-televisive, di avere acquisito illegalmente i suoi latifondi e ha annunciato che il suo governo promuoverà la creazione di radio comunitarie alternative. Qual è la relazione con i media?
Gli imprenditori non devono essere i soli a contare sui media. I poveri, i campesinos hanno anch'essi diritto ad avere i loro mezzi di comunicazione. Oggi l'unica vera opposizione in Bolivia è quella dei grandi media, che difendono gli interessi di un pugno di famiglie che hanno sempre avuto il monopolio della politica e del potere economico. Questo deve cambiare, e adesso che gli abbiamo tolto il poppatoio si arrabbiano e non perdono giorno senza attaccare il movimento popolare e il governo del Mas.


Fin dove arriverà la «rivoluzione agraria»?
Abbiamo cominciato a preparare la rivoluzione agraria, che non è solo una semplice distribuzione o redistribuzione delle terre ma mercati per i prodotti e meccanizzazione delle campagne. Abbiamo cominciato con le terre demaniali e continueremo con i latifondi che non rispettano la funzione economica e sociale della proprietà.


Le visite di Hugo Chávez in Bolivia e le sue dichiarazioni focose hanno peggiorato i rapporti con l'ambasciata degli Stati uniti a La Paz?
L'ambasciata e il governo degli Stati uniti hanno una loro linea ben precisa: aggredire, provocare e cospirare contro i nostri governi. Qualche esempio? Il caso di Leonilda Zurita, che quando era dirigente cocalera aveva il visto per gli Usa e ora che è senatrice gliel'hanno negato. Idem con il viceministro per le acque René Orellana. Quando il corpo diplomatico è venuto a salutarmi, l'unico assente era l'ambasciatore degli Stati uniti che quella stessa notte aveva organizzato un party nella sua residenza. Sono provocazioni. Poi c'è la storia della presenza militare nord-americana in Bolivia, camuffata sotto le vesti di studenti che in apparenza vengono a studiare quechua ma, secondo informazioni attendibili, in realtà stanno svolgendo compiti di intelligence. Non sono le visite o le parole di Chávez che incidono più o meno, la posizione degli Stati uniti è già decisa: cospirare contro il nostro governo.


Colombia e Perú hanno già firmato un Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Usa, e il Venezuela ha proclamato che questo è l'atto di morte della Comunità andina delle nazioni (Can), decidendo di uscirne. Perché lei insiste nel tentativo di resuscitarla?
Se la Can tornasse ai suoi principi originari, che sono il rafforzamento delle economie nazionali e regionali, le cose sarebbero diverse. La Can è stata minata dai Tlc, che distruggono i piccoli produttori e le comunità contadine. Tuttavia abbiamo l'obbligo di provare a tornare a quei principi e rafforzare quel blocco. Purché non vadano a vantaggio dell'economia trans-nazionale ma dell'economia popolare e comunitaria della regione andina.


Molti dicono: a che serve una costituente quando abbiamo già un presidente che rappresenta i movimenti sociali?
L'Assemblea costituente non è solo per avere un presidente indigeno ma per cambiare pacificamente la struttura dello Stato, per recuperare il territorio nazionale e le risorse naturali, per rifondare la nostra nazione incorporando la maggioranza della popolazione. Così potremo emendare il peccato originale della Bolivia: essere nata escludendo il 90% dei suoi abitanti.


In campagna elettorale si è proclamato socialista. Da presidente continua a essere socialista?
Chiaro, quello è l'obiettivo.