Per anni in tutte le manifestazioni alle
quali partecipavo per esprimere la mia opinione su Cuba e l'America Latina c'era
sempre qualcuno che alla fine mi domandava «Che succederà dopo Fidel?». Quasi
sempre rispondevo «Nulla, proprio nulla». E a molti, credo, apparivo un cronista
fuori dalla cronaca.
Ora i fatti hanno dato una risposta indiscutibile. I delicati giorni d'agosto,
che ho vissuto a Cuba, hanno segnalato che, nel bene e nel male, la rivoluzione
resta fedele a se stessa. Perché il futuro, nell'isola di Fidel Castro, è già
cominciato da tempo.
L'infermità che ha costretto il leader maximo a lasciare, «temporaneamente» o
no, tutte le cariche al fratello Raul e a un gruppo di collaboratori
responsabili dei settori vitali (salute pubblica, educazione, politica
energetica), non ha prodotto infatti nessuna crisi o deriva politica. A Miami,
con comparsate remunerate con cinquanta dollari ad ogni esibizione contro la
rivoluzione davanti ad una camera televisiva (ma le bandierine nordamericane
erano a carico degli stessi figuranti) la più grande e discussa comunità cubana
del mondo ha quindi festeggiato il niente, un evento che non ha prodotto
l'eversione sperata, ma ha anzi permesso all'odiata rivoluzione di passare
direttamente dal ieri al domani mentre Bush e Condoleeza Rice , con le loro
dichiarazioni, ribadivano di essere rimasti inguaribilmente prigionieri del
passato, di quando c'era la guerra fredda, il muro di Berlino e Castro aveva
poco più di trent'anni.
Soldi per cambiare
Stanziare ottanta milioni di dollari in
aggiunta ai sessanta già elargiti dal Congresso per favorire (come all'epoca
della crisi dei missili) un cambio drastico a Cuba, un'isola dei Caraibi, come
Haiti o Santo Domingo (o per capirsi un paese centroamericano come Salvador ,
Honduras, Nicaragua, Guatemala) è il segno infatti di una ossessione, o meglio
di una sconfitta, e anche di un disprezzo del diritto di autodeterminazione dei
popoli che non è cambiato nemmeno dopo batoste storiche come quella subita in
Vietnam, o figuracce politiche come quella in Somalia denominata Restor Hope, o
fallimenti tragici come quelli in corso in Afghanistan e in Iraq. Senza
dimenticare il feroce Plan Condor che all'inizio degli anni '70, quelli di Nixon
e Kissinger, ha definitivamente tolto ogni autorità morale agli Stati Uniti e la
possibilità di parlare di diritti umani.
Un altro destino
L'America Latina attuale che rifiuta l'Alca (il trattato di libero commercio con
gli USA) sceglie un altro destino e recupera Cuba nel suo grembo, nella sua
prossima associazione di Stati (alla maniera dell'Unione Europea) è la risposta
a questa politica sterile e insensata.
Ma la cosiddetta grande informazione, in occasione dell'infermità di Fidel
Castro non ha voluto tener conto di questi fatti. Ha scelto di raccontare Cuba
non osservandola da dentro, nell'attuale congiuntura, ma come se gli eventi
avessero invece preso la piega sognata, per anni, dai duri dell'esilio di Miami,
proprio quelli che, anno dopo anno, coperti dalla Cia, hanno praticato il
terrorismo a Cuba e perfino dentro gli Stati Uniti come nel caso della trama per
assassinare John e Bob Kennedy, o l'ex ministro degli esteri cileno Letellier, o
come nel caso dello scandalo Watergate o dell'aereo di linea cubano fatto
saltare in aria nel '76 da Luis Posada Carriles e Orlando Bosh, o nel '97 degli
attentati (sempre organizzati da Posada Carriles) alle installazioni turistiche
dell'isola in uno dei quali è morto il cittadino italiano Fabio Di Celmo.
Insomma, una scelta giornalistica miope e sconcertante dove i servizi dalla
Florida, volgari e sgangherati, pur non testimoniando nulla se non lo squallore
della situazione, avevano la prevalenza su qualunque analisi seria e credibile
sul domani dell'isola dopo Fidel Castro.
Sulla CNN di lingua spagnola o sulle pagine dei quotidiani riprodotti su
Internet, capitava quindi di vedere solo cronache sbracate scandite da
energumeni che urlavano insulti o capitava di sentire interventi di "esperti"
che da Cuba sono lontani da decenni, ma mai la quotidianità del paese in questo
momento storico. Un vero contrasto schizofrenico fra quello che i media
raccontavano e il solito lento tran tran di una nazione che, dopo anni, ha
potuto ridipingere le proprie case, vivere un'estate senza apagones (la rinuncia
obbligata per diverse ore all'elettricità) e, con un Pil al 10-11% sperare
nuovamente in un rapido palese miglioramento delle condizioni di vita. Dettagli
ignorati. Sembrava che qualcuno avesse dettato la linea ideologica ma non ai
giornalisti di Granma o Juventud Rebelde , bensì a quelli dei media occidentali
che giurano di dividere i fatti dalle opinioni.
Gli intellettuali
Un gruppo d'intellettuali di tutto il mondo, fra cui nove premi Nobel, hanno
così sentito l'esigenza di sottoscrivere un appello proposto da un religioso
ottantaduenne, Francois Houtart, un prestigioso sociologo cattolico che è stato
fra i fondatori del Forum di Porto Alegre. L'appello denunciava l'ipocrisia del
governo di Washington che, mentre affermava per bocca del suo presidente e del
segretario di stato Condoleeza Rice, il diritto di Cuba a scegliere il proprio
destino, annunciava di fatto il futuro assetto politico dell'isola, deciso dalla
Casa Bianca con tanto di nome e cognome del funzionario, un tal Caleb Mc Carry,
che dovrebbe guidare la transizione all'Avana forte dei milioni di dollari già
elargiti dal Congresso e dallo stesso presidente e con i quali il governo USA
pensa di instaurare nuovamente, dopo quasi mezzo secolo, la "sua idea" di
democrazia a Cuba.
Solo che la democrazia non si compra, si conquista. Ed è per questo che, pur
dopo tanti errori commessi e illiberalità denunciate, la Revolucion
socialista governa ancora i destini dell'isola più estesa del continente,
diciassette anni dopo il tramonto del comunismo nell'est europeo.
Non sappiamo ancora come gli stanziamenti di Bush j. per cambiar volto a Cuba
saranno spesi. Se, come nel 2003, in sequestri di aerei civili e del ferryboat
di Regla per innescare una strategia della tensione o, come nel '97, per
finanziare o favorire azioni terroristiche.
C'è' una parte segreta nel documento Cuba libre di quattrocentocinquanta pagine,
reso pubblico due anni fa dal Dipartimento di Stato e al quale ha fatto cenno
ancora recentemente il presidente degli Stati Uniti, che non lascia tranquilli.
La realtà in tv
Certo le immagini in tv della gioia dei cubani di Miami per l'infermità di Fidel
Castro, che ancora una volta li ha delusi, non sono piaciute nemmeno a coloro
che la vita grama del socialismo non la sopportano. E oltretutto restituire come
vorrebbe la legge Helms-Burton , ai cittadini nordamericani che furono
espropriati dalla rivoluzione, edifici dove ora sono ospitati magari asili,
scuole, centri di cultura, sanatori per anziani, non sembra un'idea accettabile
neanche a chi dissente. Lo hanno detto a chiare lettere. Ma forse non era
glamour pubblicarlo.
Non so quale logica seguano molti dei giornalisti italiani quando vanno a Cuba,
che cosa cerchino e come non riescano mai a raccontare quello che succede. La
verità che portano in tasca dall'Italia, spesso prevale sulla realtà che si può
toccare con mano.
Il giorno dopo il mio arrivo all'Avana in questo agosto controverso, dal Granma
(dove in prima pagina c'è una riflessione su Fidel Castro di Ernesto Cardenal,
frate trappista e poeta insigne del continente), apprendo che a Casa de Las
Americas c'è una conferenza del movimento In difesa dell'umanità . Il movimento,
una costola del Forum di Porto Alegre, che ha avuto il suo battesimo a Caracas
nel dicembre del 2004 e a ottobre terrà un'altra sessione a Roma nella sede
della Fao, ha coinvolto diversi intellettuali latinoamericani.
A Casa de Las Americas sono presenti in molti, specie dell'area religiosa. Da
Frei Betto a Francois Houtart a Raul Suarez, pastore protestante e presidente
del Consiglio ecumenico di Cuba. E ci sono anche molti della cultura e della
politica cubana che potrebbero dar notizie sulla salute di Fidel Castro,
argomento che riempie i media in quei giorni. C'è Roberto Fernandez Retamar,
poeta e membro del Consiglio di Stato, che presiede l'incontro, c'è Abel Prieto,
scrittore e ministro della cultura e Ricardo Alarcón, presidente del Parlamento,
l'uomo che si è preso la responsabilità di guidare la battaglia per liberare i
cinque cubani ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti per aver smascherato
il terrorismo che dalla Florida colpiva l'isola. Eppure, al contrario delle
agenzie e dei corrispondenti di network spagnoli e latinoamericani, non ci sono
giornalisti del nostro paese che pure erano arrivati in frotte all'Avana.
Alarcón, che ha appena risposto per mezz'ora a una radio libera di una comunità
nera del Missouri, è quello che più tiene avvinto il pubblico presente nella
bella sala del laboratorio culturale più prestigioso del continente. Il giorno
prima era stato reso noto che la Corte di Appello di Atlanta allargata, per
pressioni politiche, a nove membri aveva revocato la decisione di un panel di
tre giudici dello stesso tribunale che proprio il 9 agosto dell'anno scorso
"nell'interesse dell'etica e della giustizia" aveva dichiarato nullo il giudizio
emesso nel processo di Miami di tre anni prima e aveva revocato le condanne per
spionaggio dei cinque agenti dell'intelligence cubana che però, contro ogni
giustizia, erano stati fatti rimanere in carcere in cinque luoghi diversi degli
Stati Uniti. Allora il giudice Stanley Birch, anche a nome dei suoi colleghi
James Oakes e Phyllis Kravitch in una ordinanza di novantatre pagine, aveva
definito il caso una "tempesta di pregiudizio" riconoscendo la palese ostilità
di una città come Miami verso il regime dell'Avana e quindi l'impossibilità a
ospitare un procedimento contro cinque cubani fedeli alla rivoluzione che
avevano raccolto le prove dell'attività terroristica di gruppi eversivi di
Florida e New Jersey nei riguardi dell'isola.
«Oltretutto - spiega Alarcón - i giudici Birch e Kravitch (Oakes nel frattempo è
andato in pensione per motivi di salute) hanno difeso e mantenuto il loro
criterio di valutazione nel corso del dibattito con gli altri giudici
sopravvenuti tanto che il documento di centoventi pagine emesso dalla Corte
d'Appello allargata, registrava sessantotto pagine con il parere della
maggioranza rappresentata dal giudice Wilson e cinquantadue invece della
minoranza rappresentata dal giudice Birch». Un pasticciaccio giudiziario se si
considera che il giudice Wilson è un antico procuratore federale della Florida.
Pagine a pagamento
Una storia che malgrado i libri pubblicati, le pagine comprate sul New York
Times da Chomsky, da l'ex ministro della giustizia USA Ramsey Clark e da altre
personalità, per far conoscere all'opinione pubblica nordamericana questa storia
censurata da molti media, continua a non avere una conclusione onesta.
Il Consiglio dei diritti umani dell'Onu ha reso noto l'anno scorso che "la
detenzione dei cinque cubani era illegale e arbitraria fin dal primo giorno" ma
nella coscienza di molti giornalisti volati a Cuba per l'infermità di Fidel,
l'odissea infinita dei 5, che dura ormai da 8 anni, non ha trovato spazio.
Ricardo Alarcón denuncia questa noncuranza, questa mancanza di etica,
dell'informazione occidentale, ma non risparmia anche critiche ai giornalisti
cubani che avevano trascurato l'anniversario della sentenza coraggiosa sancita
un anno fa dal tribunale d'appello di Atlanta e ora riformata per una chiara
influenza politica. «Quella dei cinque compagni che si sono sacrificati per la
nostra sicurezza è una storia che dobbiamo sentire ogni giorno sulla pelle»,
ricorda questo diplomatico raffinato che è stato ambasciatore cubano all'Onu in
due occasioni per un totale di 14 anni nei quali è stato anche vicepresidente
dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Rilievo sferzante il suo per una
stampa più abituata ad aspettare le notizie che a cercarle. Tutto il mondo è
paese.
(continua)