Il dodicesimo trionfo elettorale
di Chávez, il più chiaro e monitorato di tutti, ma soprattutto il discorso
politico con il quale gli ha conteso la presidenza Manuel Rosales, un Achille
Lauro venezuelano, testimoniano che l'agenda politico-economica latinomericana è
definitivamente cambiata e che nessuno può più vincere elezioni proponendo
liberismo economico.
Bisogna vederlo il popolo venezuelano festeggiare.
Nel metro di Caracas un anziano sulla settantina, in testa un improbabile
cappellino con il volto del Che, che copre una pelata color carbone, stringe il
braccio di sua moglie. Gli occhi le brillano di felicità. Tiene a bada una
nipotina minuscola, 3-4 anni, anche lei in camiciola rossa, rojo-rojita come
direbbe il Presidente. Festeggiano Chávez, il loro Presidente. Vanno verso un
cerro, un ranchito, una favela. Questi anni bolivariani hanno dato loro salute,
educazione, ma soprattutto una cosa che gli esclusi di questo paese non avevano
mai avuto prima: partecipazione, il sentirsi parte di un progetto di paese, la
speranza di non essere più esclusi. Non è più il calvinista sogno americano
dell’individualismo neoliberale, è l’essere parte di un progetto di paese
solidale.
In America Latina, nel giro di sette giorni, per due volte i candidati delle
destre, Noboa in Ecuador e Rosales in Venezuela, appoggiati dagli Stati Uniti,
dal neocolonialismo spagnolo del Grupo Prisa e dal sistema mediatico mondiale,
si sono fermati alla metà dei voti dei loro avversari di sinistra, Chávez e
Correa. È un disastro matematico. Tra dittature militari e neoliberismo in mezzo
secolo le società latinoamericane hanno raddoppiato il numero di esclusi. Questi
sono passati da un terzo a due terzi e oggi non credono più alla retorica del
neoliberismo fallito. Nessuno sano di mente crede più alla balla, ancora oggi
ripetuta da eminenti cattedratici nel nord del mondo, per la quale chiudere
scuole e ospedali e ridurre le tasse ai ricchi sia la miglior maniera di aiutare
i poveri. Ancora ieri il Fondo Monetario Internazionale ordinava di chiudere
scuole e mense infantili. I governanti eseguivano; più impresa e meno stato, più
precarietà e meno servizi pubblici, più privatizzazioni e più poveri. Chi non
ricorda autocrati come Alberto Fujimori, Carlos Ménem, Carlos Andrés Pérez?
Tutti furono eletti con voti di sinistra –Pérez fu perfino vicepresidente
dell’Internazionale Socialista (sic!)- ma tutti, in politica economica e non
solo, non si distinguevano da Augusto Pinochet, che l’inferno non gli sia lieve.
CAMBIO NEL LINGUAGGIO POLITICO
Il ventennio neoliberale, per il quale il
genocidio delle dittature fu necessario e propedeutico, è finito. Ed è finito il
3 dicembre 2006 con Manuel Rosales. Se infatti fino allora la parte sinistra di
sistemi politici bipolari, per vincere si vedeva obbligata a parlare ed operare
come la destra, da oggi è quest’ultima a parlare (operare chissà) cercando di
imitare un discorso politico di sinistra.
Manuel Rosales, il candidato delle destre sconfitto in maniera durissima da Hugo
Chávez ne è un perfetto esempio. E’ un golpista dell’11 d’aprile 2002, uno che
si fece fotografare con l’effimero dittatore Carmona nel palazzo di Miraflores.
Ma il suo discorso è stato depurato da qualunque parola d’ordine della destra
economica. Gli spin doctors mandati dagli Stati Uniti lo hanno trasformato in un
socialdemocratico, uno statalista impresentabile per la buona società che si
riunisce a Davos. Gli editoriali dei quotidiani di destra, dall’Universal al
Nacional, sono pieni di affermazioni paradossalmente pietose: “è insopportabile
che in Venezuela ci sia un terzo di popolazione in estrema povertà”. Peccato che
lo scoprano solo adesso e soprattutto dimentichino che prima di Chávez in
povertà estrema vivevano due terzi dei venezuelani. Oggi sono dimezzati e sono
protagonisti della democrazia partecipativa che è nella Costituzione del paese.
Anche se Rosales si presenta come un moderno socialdemocratico che prende i voti
della destra golpista, la differenza tra Chávez e Rosales resta abissale. Mentre
dal basso il movimento bolivariano usa lo stato, e soprattutto l’impresa
pubblica petrolifera PDVSA, per generare diritti, inclusione e sviluppo, il
programma di Rosales prometteva di usare lo stato per creare un clientelismo che
ricorda da vicino quello della destra monarchica di Achille Lauro, che regalava
ai sottoproletari napoletani la scarpa destra prima delle elezioni, con la
promessa che la scarpa sinistra sarebbe stata consegnata ad elezione avvenuta.
Il punto centrale del programma sociale di Rosales, “Mi negra” - già il nome è
indiscutibilmente razzista - ha distribuito in piena campagna elettorale 2.5
milioni di carte di credito – la scarpa destra - a cittadini poveri. La carta di
credito sarebbe stata attivata - scarpa sinistra - ad elezione di Rosales
avvenuta. Questa avrebbe concesso ai poveri l’inalienabile diritto umano a
diventare clienti di banche private, e avrebbe girato direttamente nelle loro
tasche i soldi che sarebbero serviti per pagare i servizi privatizzati che oggi
con Chávez ricevono gratuitamente.
Ci vuole molto cinismo per accusare Chávez di assistenzialismo per aver dato
impulso alla costruzione, da zero o quasi, di sistemi sanitari e scolastici
pubblici. Ma bisogna essere in malafede per non accorgersi del gioco sporco e
del trasferimento di risorse pubbliche dai poveri –che sarebbero stati comprati
con l’inflattiva illusione di ricevere contante- all’impresa privata dietro
iniziative come “Mi negra”. Il cambio di discorso di Rosales, che non è stato
creduto ed è stato polverizzato elettoralmente da Chávez, testimonia una svolta
epocale. Chávez, i molti Chávez dell’America Latina, quelli già al governo e
quelli che ancora mancano all’appello, a partire dal Messico, non sono una
meteora. E il discorso neoliberale non compra più nessuno.
Gennaro Carotenuto
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