L'asse della speranza: il
Venezuela
di Chavez e il sogno
bolivariano
| domenica
3 dicembre 2006 |
Tariq Ali
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Mentre i gruppi religiosi,
militarmente efficaci ma politicamente limitati, dominano la resistenza
all'Impero americano nel mondo musulmano, l'Asia è infatuata insieme all'Europa
capitalista nel torpore neo-liberista e la sinistra e i movimenti sociali nella
Ue (l'Italia l'esempio più recente) sono in uno stato di avanzata
decomposizione, un Asse della speranza è apparso in America del sud a sfidare la
dominazione imperiale a ogni livello. La democrazia, svuotata e incapace di
offrire alternative nel nord, viene usata per far rivivere la speranza nel sud.
La probabile rielezione di Hugo Chavez oggi in Venezuela segnerà un nuovo passo
di questo processo.
Il suo avversario, Manuel Rosales, descritto dal Financial Times del 30 novembre
come un candidato di «centro-sinistra», fu totalmente implicato nel tentativo
sconfitto di golpe per rovesciare Chavez nel 2002. Rosales dice che lui «non
siederà sulle ginocchia di nessuno» ma non è un segreto che è legato a filo
doppio con la Casa bianca. L'ondata di rivolte e di movimenti sociali che si
levano oggi in modo non uniforme nel continente sud-americano sono il risultato
inevitabile del Consenso di Washington, la schiavizzazione economica del mondo.
L'America latina è stata il primo laboratorio per gli esperimenti dettati da
Hayek che alla fine hanno prodotto il Consenso. I Chicago boys del professor
Milton Friedman, che aprirono la strada all'economia neo-liberista, usarono il
Cile dopo il golpe di Pinochet del '73 come un laboratorio. Là la situazione là
era eccellente. Le classi lavoratrici cilene e i suoi due principali partiti
repressi, i loro quadri dirigenti uccisi o desaparecidos. Sei anni più tardi, la
rivoluzione sandinista del Nicaragua fu schiacciata dalla contro-rivoluzione dei
contras spalleggiati dagli Usa.
Meno di un mese fa il leader sandinista Daniel Ortega ha vinto le presidenziali
nel suo paese. Benedetto dalla chiesa, fiancheggiato a un ex-contra come
vice-presidente e ancora destestato dall'ambasciatore Usa, lui può essere una
pallida ombra di quello che fu, ma la sua vittoria fuor di ogni dubbio riflette
il desiderio dei nicaraguensi per un cambiamento. Managua seguirà le politiche
radicalmente redistributive dell'antimperialista Caracas o si limiterà alla
retorica e rimarrà cliente del Fondo monetario? Alla fine di novembre notizie
anche migliori da Quito. Il forte trionfo elettorale di Rafael Correa, un
dinamico e giovane economista educato negli Usa e un ex-ministro delle finanze,
che si è impegnato nella sua campagna elettorale a ritirare l'Ecuador
dall'accordo di libero scambio con gli Stati uniti, a chiedere ai militari Usa
di lasciare la base aero-navale di Manta e a ritornare nell'Opec e nel montante
movimento bolivariano che sta cercando di unire l'America del sud contro
l'imperialismo.
La vittoria di Correa arriva in un momento in cui l'America latina è di nuovo in
marcia. Ci sono state alcune manifestazioni spettacolari della volontà popolare
a Porto Alegre, Caracas, Buenos Aires, Cochabamba e Cuzco, solo per ricordarne
alcune. Questo ha dato una speranza nuova a un mondo ancor profondamente
intorpidito dal neo-liberismo (l'Unione europea, gli Stati uniti e l'estremo
oriente) o che soffre il saccheggio militare ed economico del nuovo ordine
(Iraq, Palestina, Libano, Afghanistan, l'Asia meridionale).
La lotta guidata dal Venezuela bolivariano contro il Consenso di Washington si è
attirata la furia della Casa bianca. Ci sono stati tre tentativi (compreso un
golpe militare appoggiato dagli Usa e dalla Ue) per rovesciare Hugo Chavez.
Chavez è stato eletto per la prima volta presidente nel dicembre del '98, dieci
anni dopo che una rivolta popolare contro il programma di aggiustamento dettato
dall'Fmi era stato brutalmente represso da Carlo Andres Perez, il cui partito
era il più grande fra quelli dell'Internazionale socialista. Nella sua campagna
elettorale Perez aveva denunciato gli economisti della Banca mondiale come dei
«lavoratori genocidi al soldo del totalitarismo economico» e l'Fmi copme «una
bomba al neutrone che uccideva le persone ma lasciava in piedi gli edifici».
Subito dopo si piegò alle richieste di entrambi, sospese la costituzione,
proclamò lo stato d'emergenza e ordinò alle truppe di reprimere di far fuoco sui
manifestanti. Quello fu l'atto di fondazione della rivolta bolivariana in
Venezuela.
Chavez e altri giovani ufficiali radicali nel '92 si ribellarono contro i
responsabili di quel massacro. La rivolta fallì perché avvenne subito dopo il
trauma dell'89, ma il popolo non dimenticò. Così i nuovi bolivariani giunsero al
potere e cominciarono, lentamente e cautamente, a introdurre riforme
social-democratiche, che ricordano quelle del New Deal di Roosevelt e del
governo laburista inglese del '45. In un mondo dominato dal Consenso di
Washington ciò era inaccettabile. Di qui la necessità di abbattare Chavez. Di
qui la richiesta del telepredicatore americano Pat Robertson, leader cristiano
degli Usa, al governo di Washington di assassinare immediatamente Chavez. Il
Venezuela, fino a quel momento un oscuro paese agli occhi del resto del mondo,
di colpo diventò un simbolo.
La maggioranza di coloro che hanno eletto Chavez era determinata e arrabbiata.
Per 10 anni si erano sentiti sottorappresentati; erano stati traditi dai partiti
tradizionali; disaprovavano le politiche neo-liberisti allora in forza, che si
traducevano in un'aggressione ai poveri per proteggere un'oligarchia parassita e
una burocrazia statale e sindacale corrotta. Erano contro l'uso che era fatto
delle riserve petrolifere del paese; contro l'arroganza della élite venezuelana,
che usava la ricchezza e un colore della pelle un po' più chiaro per mantenere
un provilegio a spese della maggioranza povera e di pelle scura. Eleggere Chavez
è stata la loro rivincita.
Quando divenne chiaro che Chavez era determinato a compiere alcuni modesti
cambiamenti nella struttura sociale del paese, Washington ha suonato l'allarme.
Il settarismo inacidito scatenato contro il Venezuela non ha paragoni, con il
Financial Times e l'Economist alla testa di una massiccia campagna di
disinformazione. Sono uniti nel loro pregiudizio contro Chavez, il cui avvento
al potere era visto come una insana aberrazione perché le riforme sociali
finanziate con i proventi del petrolio - la sanità gratuita, l'istruzione e la
casa per i poveri - erano guardate come una regressione ai vecchi tempi, il
promo passo verso il totalitarismo.
Chavez non ha mai fatto mistero delle sue politiche. I due Simon del XIIX secolo
- Bolivar e Rodriguez - gli hanno insegnato una lezione semplice: non servire
gli interessi altrui; fai la tua rivoluzione politica ed economica, e unisci il
Sud America contro tutti gli imperi. Questo era il nocciolo del suo programma,
che è inaccettabile per i sostenutori del Consenso di Washington.
La chiave di volta di una sfida latino-americana agli Stati uniti sta nella
coesione regionale. Questo è cruciale. Quando il canale tv via cavo Telesur fu
lanciato a Caracas quasi due anni fa, uno dei suoi primi programmi ha rivelato
un livello scioccante di ignoranza tra i sud-americani. In pratica in ogni
capitale sud-americana le persone intervistate a caso conoscevano solo il nome
della propria capitale e quella degli Usa, ma pochi sapevano nominare anche solo
due o tre altre città del loro continente. Dunque l'unità regionale - la
Federazione bolivariana di stati sovrani di cui Chavez parla in modo incessante
- è necessartia per andare avanti. Washington farà di tutto per impedire questo,
poiché i suoi interessi chiedono di trattare con ciascun paese unilateralmente
piuttosto che come entità regionali. L'unità regionale dell'America del sud
avrebbe un impatto sorprendente anche nel nord, dove la popolazione ispanica sta
crescendo in fretta, con grande costernazione di ideologi di stato come Samuel
Huntington.
* Autore di Pirates of the Caribbean: Axis of Hope, non è ancora sdisponibile in
italiano