Domenica si vota in Venezuela, quasi sicuro
che Chavez venga confermato presidente. Di lui sappiamo tante cose, ma
sempre parziali: una voce contro l'altra. Anche le previsioni lasciano
capire la radicalizzazione a tutti i costi. Gran parte dei sondaggi
(soprattutto dell´altra America) lo danno vincitore con 15-20 punti di
vantaggio. I numeri dell´opposizione (sempre società Usa, la stessa alla
quale si affida Berlusconi) assicurano l'impatto tecnico: Chavez e il
contendente Rosales sarebbero divisi da sfumature, zero virgola qualcosa.
Annunciano un Paese e il petrolio nel caos. Già l'opposizione brontola sui
voti nascosti ed elettori fantasma. Si prepara una "campagna internazionale"
di ripudio, storia venezuelana che ricorda una storia italiana.
Per capire quali verità manchino all'informazione alla quale si affidano
giornali e Tv che guardano da fuori, l'Unità ha raccolto in due libri tutte
le voci. Parlano i lealisti, parlano gli oppositori: «Chavez e il
Venezuela», «Chavez e l´America Latina». Il primo esce domani, martedì. Il
secondo dedicato alle bandiere che cambiano nel continente, verrà
distribuito il 6 dicembre. Bandiere rosse, bandiere bianche, bandiere rosa.
Rovesciando il sospiro di Benito Juarez negli anni in cui il Messico
soffriva l'ingerenza Usa, dopo le elezioni che hanno cambiato il continente
nel 2006 i latini potrebbero essere più vicini a Dio e più lontani dagli
Stati Uniti: Washington si è un pò dimenticata del giardino di casa, ma la
tragedia irachena potrebbe riaccendere l'interesse.
Mai in modo così clamoroso l'informazione ha accompagnato una campagna
elettorale lunga sei anni perché da sei anni il Venezuela continua a votare.
Appena eletto a furor di popolo e con l'appoggio della borghesia (quasi il
90 per cento di adesioni), Chavez ha cambiato la Costituzione con un
referendum che sostituiva la Carta Magna vecchia di 40 anni. Fino a quel
momento l'alternanza era obbligatoria. Dopo un presidente socialcristiano
veniva un presidente socialdemocratico, formula che in apparenza garantiva
la democrazia nel gioco di due partiti le cui radici affondavano nella
politica europea. Ma ha anche favorito la formazione di lobbies blindate:
hanno travolto nella corruzione un Paese ricco, poco popolato, consegnandolo
alle mani delle elites del privilegio. Due ex presidenti - Lusinchi e Peréz
- sono scappati all'estero inseguiti dalla giustizia. Gran parte della
popolazione lasciava le campagne del latifondo allargando favelas disperate.
Incombono sugli ospiti degli alberghi di lusso. E le città sono diventate
violente. Nel 1997 il giornalista sbarcato a Caracas contava sui giornali i
delitti del fine settimana. Morti per un paio di scarpe, l´orologio, qualche
dollaro: 197 solo nella capitale, risultato delle due società parallele,
vicine ma lontanissime. La violenza continua anche se repressa. La relazione
di un'agenzia Onu fa scendere percentualmente il Venezuela dal primo al
secondo posto nella triste classifica delle americhe insanguinate: 38,3
morti violente ogni 100mila abitanti, il Brasile guadagna il primato con
43,1 vittime. Sempre giovani e ragazzi. La disattenzione che nutriva e nutre
il benessere di una certa cupola per lo più bianca, raramente marron, mai
nera, ha addensato nel tempo una moltitudine che non ha niente da perdere:
sopravvive come può. Sulle loro teste sono passati miliardi invisibili. Per
trent'anni il 20-23 per cento del petrolio del quinto produttore del mondo,
spariva senza passare dogana. Non si è mai saputo chi vendeva, chi incassava
e dove finiva l'oro nero, produzione simile a quella del Kuwait svanita nel
mistero delle nuove ricchezze. La monocoltura del petrolio è il solo
interesse curato da chi non si preoccupava del futuro di un Paese normale.
Enormi piantagioni abbandonate all'allevamento costringevano ad importare
più del 70 per cento di ciò che si mangia in un posto largo un milione di
chilometri quadrati con possibilità di due raccolti l'anno. Gli anni di
Chavez hanno ridotto il deficit a meno del 60 per cento, fra mille ostacoli
e tensioni in ogni settore. Nessuno aveva costruito una ferrovia. Solo
adesso corrono i primi treni. Ospedali pubblici pochissimi, campagne
abbandonate. La parola «ospedali» definiva strutture fatiscenti dove si
entrava per morire, poche speranze di guarigione mentre prosperano cliniche
e scuole private. Due società parallele destinate ad incontrarsi nei
cimiteri, spesso neanche lì.
Chavez è un populista che parla sfinendo chi l'ascolta. Roboante,
ripetitivo. «Devo convincere una popolazione per mezzo secolo imbrogliata.
Convincerla a fidarsi, a sperare, capire. Ad associarsi attorno all'idea che
le risorse sono di tutti. Lo chiamerei socialismo cristiano del ventunesimo
secolo. So che ne sorridete, ma non abbiamo scelta altrimenti i diseredati
andranno avanti ad arrangiarsi come possono. E il disordine e il crimine
continueranno». Populismo nel distribuire terre, piccole case, ambulatori
nelle favelas, sussidi ai ragazzi per obbligarli a studiare? È possibile.
Populismo a volte scostante, ma è difficile rimettere in piedi un Paese che
potrebbe volare e fino a ieri strisciava senza prospettive.
Rispondono gli oppositori: «Non sono riforme strutturali. Solo furbizie
elettorali. Distribuisce soldi calcolando i voti. Siamo di fronte ad una
autocrazia che a poco a poco annullerà ogni regola democratica». Lo
sospettano i monsignori della commissione episcopale storicamente critici
verso il presidente. Ma la Chiesa di base la pensa diversamente. Suore
missionarie straniere scrivono la loro protesta al primate emerito duro con
Chavez: «venga a vedere come vive la gente e come la loro vita stia
cambiando». Roma cambia il nunzio e raccomanda cautela. Il professor
Giannetto, ex rettore dell'università importante, definisce «fascista»
l'uomo che governa. E quando il giornalista lo invita a sfumare la parola
forte, il professore insiste: la scriva, voglio dirla perché è proprio così.
Insomma, il Venezuela è un laboratorio maleducato ma anche insolito
nell'America Latina dei colpi di mano e colpi di Stato. L'opposizione ha
provato la soluzione armata nel 2002 e appena Chavez si è risieduto nel suo
palazzo, l'opposizione ha insistito con un secondo capitolo di lotta:
sciopero petrolifero che ha inginocchiato il Paese. Con l'aiuto del Brasile
di Lula e della folla che non l'abbandona, Chavez ce l'ha fatta un'altra
volta. Adesso col petrolio alle stelle, i suoi petrodollari stanno inondando
l'America Latina dei debiti aiutandola a liquidare Fondo Monetario e Banche
Mondiali. Sta per cominciare la stagione delle scelte liberate dalle
ragnatele del neoliberismo, catastrofi argentine, uruguayane, brasiliane per
non parlare della Bolivia isolata in fondo al mondo. Se domani il continente
latino sbaglia, questa volta sbaglia da solo.
Raramente le voci venezuelane vengono messe a confronto. Ne è responsabile
un'informazione interna non solo furibonda, ma in grado di proiettare la
deformazione in Europa e Stati Uniti. Bisogna dirlo, con l'aiuto di Chavez.
Non trattiene le improvvisazioni: slogan, discorsi, perfino show sul
palcoscenico delle Nazioni Unite. Sempre Bush l'obiettivo. Sempre «l'impero»
satana dei popoli oppressi. Ma una volta ha risposto: «Con Bush alla fine
trovo sempre un accordo. Siamo tutti e due petrolieri». E il presidente
della Camera di Commercio Americana-Venezuelana, si frega le mani contento:
mai l'interscambio è andato tanto bene. E le previsioni sono ancora più
rosa.
La maleducazione del laboratorio Venezuela è il risultato di una strana
informazione. Con qualche violenza, offese e minacce, da una parte e
dall´altra, ma, per la prima volta nel continente le pallottole sono
soltanto parole. Elettroniche nelle radio e Tv, monopolio di editori che
hanno tanti affari e non sopportano il presidente. Di carta, con altri
editori e altri affari: tutti sperano di rovesciare «il mostro dell'America
Latina». Due giornalisti le cui analisi sono le più seguite (Roberto Giusti,
«El Universal», portabandiera dell'opposizione ed Ernesto Villegas Poijak,
prima voce nella piccola Tv di Stato) naturalmente non sono d'accordo su
niente, ma una considerazione li accomuna: nel vuoto dell'opposizione che va
dalla sinistra moderata alla destra fascista, il Venezuela è diventato il
laboratorio maleducato nel quale si rovesciano le regole naturali
dell'informazione, assegnando ai media la responsabilità di imporre ai
politici ciò che è stato deciso in redazione. E il compito di leader non
irresistibili si riduce all'applicazione delle strategie annunciate da
giornali e Tv. «Tutto è discutibile, tutto diventa relativo», analisi di
Roberto Giusti. «Se dico che in Venezuela esiste libertà di stampa, posso
dire una bugia. Ma se rovescio l'opinione per affermare il contrario, non
sto dicendo la verità». E sono «verità» pesanti. Per capire: insulti da
osteria nello stile del «Libero» di Feltri. L´importante è colpire
aspettando la risposta che arriva sulle stesse corde. Suonano meno perché i
media di Chavez restano barchette e non corazzate. Chi arriva da fuori per
raccontare il Venezuela si appoggia ai grandi quotidiani e alle Tv
importanti, ecco perché ascoltiamo quasi sempre voci di una sola campana.
Se Chavez resterà presidente, una certa America Latina consoliderà i
progetti che l'allontanano dall'altra America. Argentina e Brasile
ufficialmente ne affiancheranno la politica continentale con una diplomazia
diversa dall'irruenza di Chavez: moderazione di Kirchner e Lula. Ma il
disegno finale non cambia: fare da soli. La Bolivia di Morales è aggrappata
al Venezuela: non solo tecnologie e strategie nel rinnovo dei contratti alle
multinazionali del gas, anche le nuove dottrine che limano i latifondi,
nazionalizzano le risorse. Per non parlare della pedagogia dell'alfabetizzazione
che il Venezuela da poco alfabetizzato dai maestri cubani (con buchi che la
dichiarazione Unesco trascura) esporta a La Paz per rafforzare il governo
traballante di un Morales minacciato dai governatori delle regioni
petrolifere. Respingono nuova Costituzione e riforma agraria. Il ritorno del
piccolo Nicaragua nell'alveo della sinistra chiacchierata di Daniel Ortega,
può solo consolare Chavez, non dargli la forza, mentre la confusione
messicana di un Lopez Obrador battuto dalla destra di Calderon e non
rassegnato ad accettare la sconfitta, crea tensioni lungo la frontiera Usa
dove cresce il muro anti clandestini. Immaginato da Reagan, realizzato da
Bush. In queste ore si contano i voti delle elezioni in Ecuador. Tornano le
contraddizioni di ogni altro posto latino. Da una parte l'uomo più ricco del
Paese, Alvaro Noboa, liberista che ammira Berlusconi; dall'altra Rafael
Correa che guarda Chavez. Per protesta contro i "brogli" non ha partecipato
alle elezioni del Congresso dove non conta un solo seggio. Se hanno ragione
le previsioni che lo danno vincitore, l'Ecuador potrebbe affondare
nell'inquietudine messicana.
Bandiere rosse, bandiere rosa pallido (il Cile della Bachelet) bandiere
bianche (Peru di Garcia), bandiera gialla della Colombia liberista di Uribe.
Cuba sullo sfondo: ha fatto sognare l'indipendenza di un continente negli
anni delle dittature addestrate da Washington. Resta congelata
nell'isolamento che perfino il presidente della Cina Popolare ha
rimproverato durante l'ultima visita a l'Avana. Adesso il declino biologico
di Castro. Il Dipartimento di Stato sta finanziando i comitati incaricati di
«promuovere la transizione democratica»; il partito unico di Cuba sta
stringendo le file per resistere «ad ogni pressione esterna». E il petrolio
di Chavez illumina il tramonto di Fidel.