Che non sarebbe stata una passeggiata era chiaro perché lo
E nel
braccio di ferro
l'Italia si astiene
Nonostante
100mila elettori e un «rapporto speciale», non ci sono le condizioni per
votare Venezuela: così D'Alema sull'astensione
italiana all'Onu nel duro scontro sul seggio dell'America latina. Quel
vecchio impegno del governo Berlusconi con il Guatemala
Roma - Geraldina
Colotti
L'Italia non ha
votato il Venezuela come membro non permanente al Consiglio di sicurezza
delle Nazioni unite per il Latinoamerica: fra i 76 voti ottenuti dal
Venezuela al secondo scrutinio (contro i 109 del Guatemala, altro paese
candidato), non c'era dunque quello di Massimo D'Alema: troppo « aspra e
netta» , per il ministro degli esteri, la spaccatura tra i paesi della
regione: impossibile «sostenere il Venezuela», ma neanche votargli
contro. Eppure, è «del tutto speciale» il rapporto con quel Venezuela
che conta «un milione di cittadini di origine italiana e oltre 100.000
elettori» (così determinanti per le sorti del nuovo governo). Eppure,
c'erano state le parole di apprezzamento per la democrazia di Hugo
Chavez, pronunciate dal sottosegretario agli esteri Donato Di Santo nel
corso del recente Incontro internazionale di intellettuali e artisti in
difesa dell'umanità. Del sistema di governo venezuelano, Di Santo aveva
lodato il pluralismo dell'informazione e ribadito l'impegno dell'Italia
per un nuovo protagonismo nel Latinoamerica. Eppure, c'era il parere
favorevole di Russia, India e Cina, forti partner economici dell'Italia.
E che dire delle relazioni commerciali con Caracas? L'Italia è il sesto
paese fornitore del Venezuela, il secondo nell'Unione europea dopo la
Germania e il sedicesimo cliente di Chavez, primo tra i paesi della Ue.
Relazioni commerciali, ben avviate già nel precedente governo Berlusconi,
che ho aveva sottolineato durante la visita del presidente venezuelano
in Italia, nel 2005.
Come spiegare allora l'atteggiamento del ministro degli esteri? Hanno
forse pesato gli «accordi di scambio» con il Guatemala e i
condizionamenti nordamericani, a tutto campo nella precedente
legislatura?
Nessun commento dalla Farnesina: tutti in attesa di un'ulteriore
dichiarazione di D'Alema, e qualche speranza che l'astensione
dell'Italia sia «solo iniziale». Può esserci un altro segnale?
Soddisfazione, intanto, dei grandi media, che già ieri tuonavano contro
l'ardire di Chavez e i «fiumi di petrolio» promessi per influenzare la
decisione dei membri del Consiglio di sicurezza. E delusione di quanti,
come Luciana Castellina, Citto Maselli, Fabio Marcelli, Aldo Garzia,
Alessandra Riccio... avevano rivolto al governo Prodi un appello perché
sostenesse il Venezuela. «La scelta di appoggiare uno stato
latinoamericano in occasione delle prossime elezioni per i membri
non-permanenti del Consiglio di sicurezza - scrivono i promotori
dell'appello - deve evidentemente rispondere a interessi strategici di
fondo del nostro Paese, sia dal punto di vista politico che economico».
E sottolineano come il Venezuela «per peso politico ed economico,
presenza di una forte comunità di origine italiana, ruolo fondamentale
nell'integrazione dell'America latina, ulteriormente potenziata dopo
l'ingresso nel Mercosur, rappresenterebbe non tanto la scelta migliore,
quanto l'unica possibile». Una scelta - concludono i firmatari - in
linea con l'interesse dell'Italia e dell'Unione europea.
|
scontro fra il Venezuela di Chavez e gli Stati uniti di Bush (per
interposto vassallo guatemalteco) sul seggio latino-americano in Consiglio
di sicurezza durava da mesi. Ma, arrivati al dunque, ieri, le cose sono
apparse ancor più difficili del previsto. Al Palazzo di vetro di New York
non c'è stata storia per gli altri 4 seggi in palio per i prossimi due
anni: Italia (186 voti, uno «storico» plebiscito: per fare che?) e Belgio
per l'Europa, Sudafrica per l'Africa, Indonesia per l'Asia.
La vera partita è cominciata quando si è preso a votare per il posto,
occupato finora dall'Argentina, riservato all'America latina nel biennio
2007-2009. Al primo voto il binomio Usa-Guatemala ha avuto 109 dei 192
voti dell'assemblea ONU, il Venezuela 76, con 7 astensioni, fra cui, anche
se il voto è segreto, quella dell'Italia annunciata ieri dal ministro
degli esteri D'Alema sulla base di un singolare ragionamento che, stando
alle agenzie, suona: vista la spaccatura «così netta e aspra» e
considerato «che il nostro paese ha un rapporto speciale con il Venezuela
(dove vive oltre un milione di cittadini di origine italiana e oltre 100
mila elettori) abbiamo ritenuto che non ci fossero le condizioni per
sostenere il Venezuela». Ma neanche «per votare contro». Per cui,
astensione e poi si vedrà.
Essendo necessario il quorum dei due terzi, 124 voti, dopo il primo round
al ticket Usa-Guatemala sono mancati 15 voti. Nelle 3 votazioni successive
confermata la impasse: Usa-Guatemala 114 e Venezuela 74, 110 e 75, 103 e
83 (e 1 al Messico: la svolta?). Si proseguirà a oltranza con quello che
Chavez domenica ha definito «il corpo a corpo» al Palazzo di vetro. Tutti
citano il caso del '79 quando Cuba propose la sua candidatura e gli Usa
contrapposero il vassallo di turno, la Colombia. Ci vollero 154 votazioni
prima che uscisse l'auspicata «alternativa», il Messico.
Un mese fa Chavez, che ha speso tempo e (petro)dollari negli ultimi sei
mesi per garantirsi i voti necessari, era sicuro di potercela fare. Era
garantito, diceva, l'appoggio dei 4 del Mercosud - Brasile, Argentina,
Paraguay e Uruguay - più Cuba e Bolivia, dei 15 del Caricom (i paesi e
paesini dei Caraibi), i 22 della Lega araba, una parte dell'Unione
africana, più Cina e Russia, India, e l'Iran, la Corea del nord, lo
Zimbabwe, la Bielorussia e via discendendo lungo «l'asse del male».
Previsioni troppo ottimistiche, fondate sull'efficace diplomazia
petrolifera di Chavez e sulla sua esuberanza (a volte controproducente) di
«leader dell'opposizione globale» all'egemonia Usa come ha scritto il
Washington Post.
Con il Guatemala si sono schierati, oltre al suo sponsor Bush, Canada,
Australia, parte degli africani, quasi tutti i 25 dell'Unione europea
(perfino la Spagna di Zapatero), quasi tutto il Centramerica ritornato
all'ovile e i latino-americani che ruotano intorno agli Stati uniti e sono
alle strette con Chavez: il Messico di Fox (definito «il cagnolino
dell'impero»), il Perù di Garcia («uno svergognato e corrotto»), la
Colombia del filo-americanissimo Uribe. Il Cile del presidente socialista
Michelle Bachelet, unito agli Usa da un trattato di libero scambio, ha
annunciato solo domenica la sua decisione: astensione in mancanza di un
«candidato di consenso» e nei «superiori interessi del paese». Una
decisione che ha suscitato polemiche all'interno della coalizione di
governo, con i socialisti che sembravano propensi a votare sia pure a
malincuore Chavez e i democristiani decisamente contrari («gli stessi che
appoggiarono il colpo di stato contro Allende e il golpe in Venezuela del
2002», tanto per gradire).
«La nostra guerra non è contro il Guatemala», ha detto il ministro degli
esteri venezuelano Nicolas Maduro. Evidente. Il rappresentante
guatemalteco si accuccerebbe sulle ginocchia di John Bolton,
l'ambasciatore Usa, e garantirebbe una presenza discreta e «responsabile»
contro quella «destabilizzante» di Chavez. Mandare avanti il Guatemala non
è stata una buona scelta per Bush. Nel suo intervento all'assemblea
generale, in settembre, il presidente Oscar Berger arrivò a dire che era
stato Kofi Annan a dirgli «personalmente» che l'elezione del Venezuela
avrebbe significato la fine del Consiglio di sicurezza, costringendo il
segretario generale a una secca smentita. Poi il Guatemala, 10 anni dopo
la fine della guerra civile, è l'esempio della più assoluta impunità per i
crimini che provocarono almeno 200 mila morti, con criminali come Efrain
Rios Montt e Humberto Mejia che scorazzano liberi mentre la miseria, la
delinquenza, il narco-traffico, il crimine organizzato e la corruzione
sono in continua crescita. Non è una buon biglietto da visita.
Per questo, a meno di sorprese, in molti aspettano l'auspicato «candidato
di consenso». Circolano i nomi di Uruguay, Messico, Cile, Perù, Costa
Rica, Repubblica dominicana. Guarda caso tutti nomi che, in seconda
battuta, andrebbero bene a Bush. Vedremo.
Forse non si ripeterà la scena dell'82, quando l'ambasciatore Usa all'ONU,
la reaganiana Jeane Kirkpatrick, dovette ingoiare scompostamente
l'elezione del Nicaragua sandinista in Consiglio di sicurezza, e Bush
riuscirà a bloccare la candidatura di Chavez. Ma già ora si può dire che
la bocciatura della sua prima scelta testimonia di quanto in basso sia
caduto il potere e il prestigio degli Stati uniti.
|