11 gennaio 2007 -  A.Ursic www.peacereporter.net

 

 

GUANTANAMO

Centinaia di proteste per il quinto anniversario del centro di detenzione per presunti terroristi
 

 

 

Cinque anni dopo, i detenuti sono circa la metà. Ma il campo di detenzione di Guantanamo, all’interno della base statunitense a Cuba, c’è ancora e per il momento non è in programma la sua chiusura.

 

E proprio in coincidenza con il quinto anniversario dei primi arrivi di presunti terroristi, oggi, 11 gennaio, sono previste in tutto il mondo centinaia di manifestazioni per chiedere che i circa 400 detenuti di Guantanamo siano rilasciati, o che almeno vengano accusati di qualcosa di preciso, con un processo regolare.

 

Veglie, proteste davanti alle ambasciate Usa, travestimenti con le tipiche tute arancione dei detenuti, la “mamma della pace” Cindy Sheehan a protestare all’esterno della base. Ma anche una lettera indirizzata a Tony Blair. Mittente: un bambino di 10 anni figlio di un detenuto a Guantanamo, che al primo ministro britannico chiede “Perché mio padre è in prigione?”.

Le proteste. Nella lettera, il piccolo Anas al-Banna accenna a una missiva già spedita ma rimasta senza risposta: “Perché mio padre è lontano, in quel posto chiamato Guantanam (sic) Bay? Non vedo mio padre da tre anni, mi manca tantissimo. E so che non ha fatto niente perché è un brav’uomo. Spero che questa volta lei mi risponda”, scrive il bambino figlio di Jamil al-Banna, un giordano che risiede in Inghilterra, arrestato nel 2002 in Gambia insieme a un amico iracheno, durante un viaggio di lavoro, e spedito a Guantanamo come presunto terrorista. Giovedì 11 gennaio Anas sarà all’esterno di Downing Street con la madre, mentre davanti all’ambasciata statunitense a Londra centinaia di manifestanti si inginocchieranno con indosso la tuta arancione dei detenuti. Un’iniziativa simile sarà organizzata da Amnesty International a Roma, in piazza di Pietra, alle 17.30. Altre manifestazioni sono previste a New York, Sydney e decine di altre città negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Italia.

A Cuba, nel frattempo, è già arrivata Cindy Sheehan insieme ad altri undici attivisti tra cui Asif Iqbal, uno dei tre ex prigionieri britannici la cui storia ha ispirato il film “The Road to Guantanamo”. Oggi il gruppo sarà all’esterno della base Usa. Nei giorni scorsi, la Sheehan ha definito i componenti dell’amministrazione Bush “nemici dell’umanità”, sostenendo che il suo viaggio vuole far conoscere “le barbare attività di Guantanamo” e spingere il nuovo Congresso di Washington, controllato dai democratici, a contestare la politica di detenzione a tempo indefinito voluta dall’amministrazione Bush. La Sheehan ha anche chiesto la fine dell’embargo commerciale statunitense su Cuba.

Ma nonostante i ripetuti appelli internazionali e le centinaia di manifestazioni, la chiusura di Guantanamo non sembra affatto vicina.

 

Nel centro di detenzione sono rinchiusi 395 detenuti, 11 dei quali ancora in sciopero della fame. In questi cinque anni sono stati rilasciati 379 prigionieri, mentre altri 10 detenuti avrebbero dovuto essere processati davanti alle corti militari istituite dall’amministrazione Bush. Nel giugno scorso la Corte Suprema dichiarò però incostituzionali questi procedimenti, ordinando che i detenuti venissero processati davanti a una corte penale statunitense.

 

Ma prima delle elezioni di novembre, quando il Congresso era ancora repubblicano, l’amministrazione Bush è riuscita a far approvare il Military Commissions Act, legittimando in sostanza quello che per la Corte Suprema era incostituzionale. Al momento, la situazione è in stallo. La Casa Bianca vorrebbe processare un’ottantina di detenuti in queste corti militari, che dovrebbero costare oltre 125 milioni di dollari (96 milioni di euro). Quelli che lottano per la chiusura di Guantanamo, in pratica, sanno che è tutto da rifare. “Spero”, ha scritto Michael Ratner, direttore del Center for Constitutional Rights, “che non ci vogliano altri cinque anni”.