Era l’11 gennaio del 2002 quando i primi
prigionieri musulmani nelle
Mobilitazione
mondiale
In Piazza anche a Roma: stop Camp
delta
In occasione del quinto
anniversario dell’inaugurazione del carcere statunitense di
Guantanamo, oggi nelle principali capitali del mondo si terranno
manifestazioni per chiederne l’immediata chiusura. Manifestazioni e
altre iniziative sono previste in più di venti città tra cui
Washington, Tokyo, Tunisi, Tel Aviv, Londra, Madrid e Asuncion. A
Roma, in piazza di Pietra, alle 17,30 Amnesty international
allestirà una cella-gabbia con prigionieri in tuta arancione (come
quelle indossate dai prigionieri di Camp delta). Attori leggeranno
testimonianze dei prigionieri e alcuni monologhi scritti sul centro
di detenzione. A seguire, dibattito per illustrare la campagna
dell’Organizzazione per la difesa dei diritti dell’uomo su «Chiudere
Guantanamo, ora!». Parteciperà il presidente di Amnesty Italia,
Paolo Pobbiati.
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mani del Pentagono furono trasportati nel carcere
statunitense di Guantanamo, nell’isola di Cuba. Tre giorni dopo, il 14 gennaio,
un aereo proveniente da Kabul scaricò un gruppo più consistente di detenuti, una
trentina, che andarono a costituire il primo nucleo di quello che cinque anni fa
si chiamava ancora X-Ray camp, campo a raggi X: i sospetti terroristi in tuta
arancione erano segregati in grosse gabbie da pollaio nelle quali potevano
essere tenuti sotto controllo totale, esposti al sole battente o alle
intemperie, senza il minimo di privacy.
Cindy Sheehan in prima fila, un gruppo di pacifisti
manifesterà oggi davanti al cancello d’ingresso del carcere di Guantanamo per
chiedere la chiusura della prigione che esattamente cinque anni fa
l’Amministrazione statunitense istituì per accogliere i prigionieri della war on
terror, la guerra al terrorismo lanciata dall’Amministrazione Bush all’indomani
degli attentati dell’11 settembre. I detenuti intanto hanno ripreso lo sciopero
della fame - attuato a più riprese negli ultimi mesi - nel tentativo di attirare
l’attenzione internazionale sui loro diritti violati.
Che l’America avrebbe reagito agli attacchi con la violazione del diritto fu
chiaro il 15 gennaio 2001. Donald Rumsfeld dichiarò i prigionieri «combattenti
illegali», in seguito ribattezzati «nemici combattenti». Sarebbero stati tratti
umanamente, disse l’allora ministro della guerra ma, in pratica, non attribuendo
loro lo status di prigionieri di guerra, Washington li stava privando dei
diritti garantiti dalle Convenzioni di Ginevra. Buco nero o strumento vitale per
quella che gli esperti di comunicazione del governo Bush hanno cercato di
ribattezzare - con scarso successo - «lotta all’estremismo globale»? Cosa è
Guantanamo cinque anni dopo? Partiamo dai numeri. Sono 775 i detenuti - di una
trentina di nazionalità - che dall’11 gennaio 2002 - quando divenne operativo
quello che Amnesty international ha definito «uno scandalo per i diritti umani»
- sono stati rinchiusi nelle celle di X-Ray camp, Camp delta, Camp 5 e Camp 6.
Di questi 379, quasi la metà, sono stati liberati, senza che contro di loro sia
stata mossa alcuna accusa formale, così come avviene per la stragrande
maggioranza di quelli che restano dietro le sbarre.
Il 29 giugno dell’anno scorso la Corte Suprema statunitense ha stabilito che il
presidente non aveva alcuna autorità per istituire i tribunali militari (varati
assieme al carcere con decreto presidenziale) in base ai quali avrebbero dovuto
essere giudicati i prigionieri, ma ha lasciato a Bush la possibilità di
richiedere l’approvazione da parte del Congresso. Cosa puntualmente avvenuta lo
scorso settembre. Una vittoria per l’Amministrazione? Non esattamente, perché
cresce sempre più, con i continui scioperi della fame, il suicidio di tre
detenuti il 10 giugno 2006 e la mobilitazione della società civile
internazionale, l’indignazione per quello che è stato definito anche «un gulag
dei tempi moderni».
«Sono venuta qui per chiedere la chiusura di Guantanamo e domandare a George W.
Bush, che è un padre, come si sentirebbe se avesse una delle sue figlie
prigioniere in un posto come questo», ha dichiarato ieri alla Reuters Zohra
Zewawi, il cui figlio Omar Deghayes è prigioniero dal 2002, quando fu catturato
in Pakistan. Zohra, avvolta nel suo chador, ha rivolto il suo appello senza
riuscire a trattenere le lacrime, sostenuta da Cindy Sheehan e dall’ex detenuto
Asif Iqbal. La Zewawi e suo figlio Omar sono rifugiati libici con cittadinanza
britannica. Omar era in Pakistan, alla ricerca di un visto britannico per la sua
moglie afghana, quando è stato arrestato. Come il suo, sono decine i casi -
documentati dalle organizzazioni umanitarie e confermati dal governo
statunitense - di islamici fatti prigionieri, la maggior parte in Afghanistan e
Pakistan durante la guerra ai taliban, «per errore». Venduti ai militari
statunitensi o agli uomini dell’Isi, i servizi segreti pakistani, da veri e
propri cacciatori di taglie che hanno intascato 5.000 dollari per ogni
«terrorista». Ma soltanto dieci tra i 775 prigionieri sono stati finora accusati
di coinvolgimento in attività terroristiche. E gli avvocati che rappresentano i
«combattenti nemici» sottolineano come il campo abbia perso la sua funzione di
centro d’interrogatori e si sia trasformato in un potente simbolo di abusi che
danneggia gli sforzi di migliorare l’intelligence e le relazioni con il Medio
Oriente.
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