Piovoso
pomeriggio di domenica, a Roma. Si compone un numero di telefono, e
all’altro capo del filo è mattina e c’è il sole del Caribe. Risponde l’hotel
Nacional dell’Avana, luogo «hemingwayano» e il centralino ci mette in
comunicazione con Giuseppe Tornatore. Il regista di Baarìa è a
Cuba per una retrospettiva completa dei suoi film (in 7 giorni: dall'8 al 14
gennaio), organizzata dall’Arci-Ucca
con il sostegno del ministero dei beni
culturali italiano, in collaborazione con l’Icaic e il ministero della
cultura cubano. Sembra sereno e soddisfatto: sta partendo per gli Usa
(mentre leggete, è già a Los Angeles) in vista dei Golden Globes, ma la
tappa «habanera» dev’essere di gran lunga la più rilassante. Chiacchieriamo
di Cuba, di Baarìa, dell’Oscar e di tutto un po’.
I cinema dell’Avana, di solito, sono enormi. Un po’ come i «Cinema
Paradiso» dell’Italia di una volta. Che effetto ti fa rivedere i tuoi film
in un simile contesto?
«È vero, sembra di essere in Italia negli anni 50. L’altra sera
Baarìa è stato proiettato in una sala con 1100 posti, stracolma. Il
clima è bellissimo, il pubblico è caldo, ride nei momenti giusti. Ho avuto
anche incontri molto belli con i giornalisti locali ».
Speriamo non ti chiedano le stesse cose (su Berlusconi, la Medusa...) che
ti tormentano in Italia.
«Alcune domande si ripetono in tutto il mondo: se il film allude alla
situazione politica italiana, quanto ci sia di autobiografico, come è
cambiata l’Italia dagli anni del fascismo ad oggi. Qui a Cuba mi hanno
chiesto perché ho scelto di fare un film sull’Italia usando il punto di
vista di un militante comunista. Ho risposto che mi sembrava un’ottica
importante, perché in Italia i comunisti sono diventati un luogo comune
della politica, si usa la parola “comunista” per sfottere o demonizzare. I
comunisti sono stati relegati a figurine scolorite, e invece erano persone
che sgobbavano per migliorare il loro paese, sono stati una fetta importante
della nostra storia».
È la tua prima volta a Cuba?
«Sì. Sono qui da 48 ore e le ho trascorse quasi tutte dentro un cinema o
alla sede dell'Icaic, l’istituto statale del cinema. Non chiedermi analisi
troppo approfondite... Mi sembrano un popolo allegro e gioioso che combatte
con grandi difficoltà. All' Icaic sono stato in una saletta di proiezione
piccolissima che sembrava ferma a 50-60 anni fa. Mi sono seduto in un posto
qualsiasi... e si sono messi tutti a ridere! Un funzionario mi ha detto: si
è seduto dove sedeva sempre Fidel Castro, e al posto accanto si metteva il
Che... Una signora anziana ha aggiunto: meno male che le poltrone non
possono parlare! Mi sembra che i cubani si portino dietro la propria storia
con energia, ne sono orgogliosi – anche della diversità dagli Stati Uniti,
nonostante parlino tutti inglese e ci siano i film americani nei cinema
(l’altra sera, in tv, davano Million Dollar Baby)».
Trasferta Usa: Golden Globe e, in prospettiva, Oscar.
«Resto fino ai Golden Globes. Per l'Oscar, la fase decisiva parte dopo la
nomination... se ci arrivi. Baarìa è stato già visto a Toronto
e a Los Angeles in proiezioni, devo dire, entusiasmanti. Siamo contenti. Il
film “arriva”, gli spettatori lo capiscono. Dappertutto. Sono contento che
la mia idea di usare un angolo di Sicilia come un ologramma dal quale vedere
il mondo viene apprezzata».
Nel tuo giro per il mondo, puoi anche non sapere che venerdì in Italia
esce Avatar e c’è chi si lamenta: troppa tecnologia, al cinema,
ucciderebbe i sentimenti…
«Non ho visto Avatar e non sto leggendo i giornali italiani,
ma entro volentieri nell’argomento. La tecnologia non è mai un limite né una
minaccia. È una freccia in più al nostro arco. Faccio un paradosso: se oggi,
in Italia, tu volessi raccontare una storia in perfetto stile neorealista
dovresti usare la tecnologia. Per togliere le macchine dalle strade, le
antenne tv dai tetti, per “ricreare” il passato: il computer te lo consente.
Poi, dipende da cosa vuoi raccontare: se vuoi raccontare Avatar,
evviva Avatar! Non capisco perchè in Italia non si accetti la
convivenza di modelli di cinema diversi. Dovremmo recuperare la diversità
dei generi, che abbiamo avuto negli anni 60 e 70, e poi abbiamo perso.
Invece abbiamo paura delle novità, e tiriamo fuori argomentazioni demodé. Io
credo che la tecnologia stia concedendo al linguaggio delle immagini le
stesse possibilità del linguaggio della scrittura. Lo sta semplificando.
Tutti possono scrivere, e tutti scrivono - da sempre. Il cinema, invece, una
volta era un'oligarchia, un’arte costosa e difficilmente accessibile. Ora
chiunque può girare un film. Io sogno un futuro in cui si potranno fare film
senza passare attraverso gli agenti, gli avvocati, le coproduzioni... un
futuro in cui uno prende il computer e gira il film che ha in testa, e se
viene bene qualcuno che lo distribuirà. Un futuro in cui si riderà al
pensiero che 50 anni prima c’erano dei matti come me che in una vita
riuscivano sì e no a fare 10-12 film. Mi sembra un futuro bellissimo. Io non
mi sento minacciato dalla tecnologia. Non so se si può fare, in Italia, un
film avanzato e costoso come Avatar. So che io sono stato
massacrato perché Baarìa è costato più della media dei film
italiani, come se avessi portato via i soldi a qualcun altro. E chiediamoci
anche perché Avatar va così bene: non saranno solo gli effetti
speciali, da soli non bastano mai. Evidentemente cattura sogni e angosce del
momento. Oggi il gusto del pubblico è più veloce della nostra capacità di
inventare storie, e noi registi non siamo al passo con questa velocità.
Altro che paura: magari la tecnologia mi mettesse in grado di catturare le
cose al volo».
La tecnologia sarebbe indispensabile anche per il famoso progetto
sull’assedio di Leningrado, che avevi ereditato da Sergio Leone. Ci pensi
ancora?
«Ci penso, e qualcuno un giorno dovrà farlo, perché è una pagina di storia
che il cinema non ha ancora toccato. Ma se ti dicessi che sarà il mio
prossimo film, ti direi una bugia. Certo, negli anni 80 le immagini digitali
non esistevano. Sergio chiedeva ai sovietici 1000 carri armati e quelli gli
rispondevano che non entravano nell’inquadratura... e lui ribatteva:
datemeli, e ci penso io! Oggi, con degli effetti speciali ben fatti, di
carri armati ne basterebbero venti».
Un’ultima cosa. In aprile esce in Italia «Everybody’sFine», il remake di
Stanno tutti bene diretto da Kirk Jones, con De Niro. Negli Usa è già uscito
lo scorso dicembre. L’hai visto? Hai avuto voce in capitolo?
«Non l’ho visto e non ho voluto voce in capitolo. Ho applicato il metodo
Moravia: vi cedo i diritti di remake e fate quello che vi pare! Su richiesta
del regista, ho solo consigliato di togliere un figlio (il film è la storia
di un padre, nell’originale Marcello Mastroianni, che va alla ricerca dei
figli sparsi in tutta Italia, ndr). Cinque mi erano sempre sembrati troppi.
Non mi hanno chiesto di dirigerlo, né avrei accettato. Una volta mi chiesero
di rifare Nuovo cinema Paradiso in America. L’idea non mi dispiaceva: ma non
si è mai trovata una soluzione per il personaggio del prete».
In che senso?
«In America non esistono le sale parrocchiali, quindi non si potrebbe mai
verificare il caso di un prete che visiona i film e taglia le scene dei
baci. E senza i baci tagliati, non c’è il film. Gli americani si divertono
come pazzi per quella scena, ma poi si rendono conto che portarla in America
è impossibile. Niente prete, niente remake».
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